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Il “mio” inizio con la pena di morte - di Stefania Silva

Sono contraria da sempre a questa pena, che mi appare più un’infinita tortura, prolungata nel tempo, che una giusta punizione per delitti più o meno orrendi, ma fino a qualche tempo fa non avevo neppure pensato che fosse possibile scrivere a un detenuto, e comunque relegavo la questione in una parte ben nascosta dalla mia coscienza; probabilmente per l’angoscia astratta ma viva che mi prendeva al solo sentirla nominare… come quando senti un bambino che piange e ti senti assolutamente impotente.

Poi persone a me molto vicine, hanno cominciato a scrivere ad alcuni detenuti negli Stati Uniti, me ne hanno parlato come di una cosa “possibile”, hanno umanizzato il tema ai miei occhi… e poco tempo dopo ho cominciato anch’io.

Mi ricordo quando ho scritto la prima lettera a Kevin: matricola #999368.

Maschio, bianco, nato il 4 marzo 1969, ha due anni meno di me.

In carcere dal 2000 o meglio nel braccio della morte della Polunsky Unit, Texas.Due figli, oggi  di 14 e 16 anni, che non vede da sei anni – da quando è stato condannato.

Ero emozionata e non sapevo bene cosa dire, scrivevo e mi fermavo con la sensazione di fare qualcosa di assurdo… poi ho vinto le resistenze e ho scritto una breve presentazione e una marea di domande… tutte a lui, tutte “per” lui, non per la sua pena e nemmeno per il suo delitto; quando ho cominciato a scrivergli non sapevo il motivo che l’aveva portato là dentro e non volevo saperlo.

Allora perché pensavo che avrebbe potuto influenzarmi, poi perché ho profondamente compreso che sangue non lava sangue.

Non ho voluto sapere niente per più di un anno, il che vuol dire che per molto tempo ci siamo scritti con un fantasma che aleggiava tra noi.Ho deciso di sapere, solo quando pensavo di aver accettato Kevin, ben sapendo che lui non avrebbe mai affrontato l’argomento, forse per paura di perdere una delle poche persone che gli scrivevano, per paura del giudizio, e per contro, per me non avrebbe più fatto la differenza; avevo cominciato a conoscerlo come persona e basta.

Così un giorno, visto che lui non si decideva a dirmi niente, mi son messa davanti al computer e ho digitato il suo nome trovando decine di documenti, articoli di giornale, e persino il suo ricorso in appello; mi sentivo molto combattuta, e la sensazione era quella di qualcuno che si apprestava a spiare dal buco della serratura; in Italia abbiamo introdotto da poco una legge sulla privacy e invece di un condannato a morte negli Stai Uniti, trovi tutto su internet, fotografia compresa!

Ho comunque deciso di leggere.

Non nascondo che la mia prima reazione è stata di sgomento; mi sono sentita fuori posto; il pensiero più forte è stato: ma cosa ci faccio io in mezzo a tutto questo? Come faccio a corrispondere come niente fosse con una persona che si è macchiata di un delitto così efferato? E soprattutto: in quale contraddizione emotiva mi sono cacciata? Perché razionalmente, molti di noi sono capaci di essere contrari alla pena di morte, ma quando tocchi con mano il delitto, come fai a conviverci e a considerarlo solo uno degli elementi e non l’elemento?

Ho impiegato giorni cercando di calmarmi e razionalizzare, ma il  risentimento era ancora lì; poi ho preso carta e penna e ho scritto a Kevin una lettera piena di rabbia, dicendogli che mi sentivo tradita, che mi sembrava impossibile che la stessa persona che mi scriveva in modo così gentile avesse commesso un crimine del genere, gli ho chiesto di spiegarmi, perché avevo bisogno di sentirmi dire che non era vero, che era innocente; tra l’altro gli ho scritto che visto che ormai sapevo non mi andava più bene che si mantenesse la nostra corrispondenza su un piano di assoluta formalità cordiale; lui è condannato a morte, e ormai stando alle statistiche, è a meno della metà della vita che ancora gli rimane da vivere… e noi stavamo ancora lì a far convenevoli, parlavamo di tutto tranne che dell’evento che l’avrebbe portato a finire la sua vita in prigione per iniezione letale.

Dopo aver spedito la lettera sono stata presa dal panico; e se avessi esagerato? E se avesse smesso di scrivermi? Se si fosse pentito di avermi accolto tra le persone “di famiglia”?

Lui invece, ha capito il senso delle mie parole e la mia difficoltà e ha intuito, prima di me, che non l’avrei più lasciato, che ero disposta ad affrontare la parte “nera” del nostro avere a che fare e da quel momento si è aperto: ho avuto proprio la sensazione “che mi aprisse la porta” siamo finalmente entrati in contatto, e ha cominciato a raccontarmi dei figli, di sua mamma, del suo stato d’animo e delle condizioni inumane in cui vive.

Per esempio gli orari che scandiscono la sua giornata.

 

Ore 03.00 di notte: colazione

Ore 10.00: pranzo

Ore 16.00: cena

Ore 24.00: cambio della biancheria

 

Ad ogni cambio di turno le guardie fanno l’appello.

Non può parlare con gli altri detenuti se non  attraverso una piccola feritoia nella porta della sua cella; non può lavorare; vive in una cella di due metri per tre con una branda di ferro, un water di ferro fissato al muro, una mensola su cui poggiare i pochi averi, una feritoia orizzontale vicina al basso soffitto dalla quale può scorgere il cielo solo alzandosi in punta di piedi.

E’ praticamente impossibile dormire più di due ore consecutivamente (di notte fanno gli appelli, consegnano la posta, accendono le luci…), difficile mangiare il cibo – già pessimo - della prigione (nel quale si può trovare di tutto: dallo scarafaggio alla coda di topo), servito freddo in vassoi di plastica; devono farsi la doccia e la barba tutti i giorni; se si comportano bene hanno diritto a due ore di ricreazione solitaria fuori dalla cella per cinque giorni la settimana (due ore settimanali su dieci possono essere passate ‘all’aperto’ : cioè in uno stanzone che al posto del soffitto ha una rete attraverso la quale si può vedere il cielo); vivono in isolamento perenne; non sono permesse visite con contatto fisico (nemmeno per i condannati a cui sia stata comunicata la data di esecuzione); durante i colloqui sono separati dai loro amici e parenti da un vetro e parlano attraverso un citofono.

Kevin, in particolare (come un’altra ventina di detenuti a Polunsky Unit) vive in un regime ancora più duro: deve cambiare cella ogni due settimane perché considerato a rischio di fuga.

Per evitare che stringa rapporti di amicizia con i vicini, che potrebbero  aiutarlo nell’intento, ogni due settimane una guardia entra nella sua cella, gli sequestra tutti i suoi averi (stipa tutto in una piccola cassa di legno: tutto l’eccedente viene gettato), lo perquisisce accuratamente e lo sposta; pochi mesi fa, per mancanza di celle disponibili è stato addirittura trasferito nel “death watch” – il reparto in cui i condannati attendono l’esecuzione quando viene loro fissata la data.

Ma tornando a Kevin, nella risposta a quella lettera, mi ha raccontato il momento della lettura della sentenza e il suo ingresso – il giorno seguente – nel braccio della morte di Polunsky Unit, il viaggio verso la prigione in un blindato, la perquisizione corporale “per controllare che non nascondesse niente di pericoloso….” (e dove?!), la sensazione mostruosa che ha provato quando gli è stato letto che 12 persone avevano deciso, a sangue freddo, che doveva morire, che per lui non c’era possibilità di riabilitazione, che la sua vita, passata, presente e futura era considerata un errore della società, un cancro da estirpare.

Mi ha scritto: “in quel momento ho capito esattamente cosa significa sentirsi raggelare il sangue, mi sono sentito come se mi avessero infilato un pugnale nel cuore e mi ricordo ancora l’ultimo abbraccio ricevuto da mia madre, che si è attaccata  a me, come se fossi l’unica cosa solida rimasta sulla Terra…”.

In questo momento corro il rischio di “santificare” un omicida, ma non è assolutamente il mio intento; voglio solo dire che “loro” sono persone, che hanno un vissuto di cui dover tener conto e che probabilmente se non fossero stati condannati a morte avrebbero la possibilità di riabilitarsi e di scontare giustamente la loro pena; troppo spesso noi stessi pensiamo di non essere “quel tipo di persona” e forse in parte è vero… ma io non saprei dire cosa e come sarei diventata se fossi nata in una società spietata, che considera la povertà come una colpa, come un inconfondibile segno di abbandono da parte di Dio, e mi considerasse la figlia indesiderata di un mondo nel quale teoricamente tutti partono dalla stessa linea, tutti hanno le stesse possibilità di riuscita…leggendo attentamente le statistiche delle condanne a morte, però, ci si rende conto che questa è la leggenda del Nuovo Mondo.

Negli USA, per essere condannato alla pena capitale, è preferibile essere povero, possibilmente nero, magari analfabeta – anche se in certi momenti l’essere bianco può giocare a sfavore: in periodo di campagna elettorale per esempio, per controbattere alle accuse di razzismo, il Governatore in carica può decidere di negare la grazia a un bianco con una giustificazione in più….

È principalmente l’avvocato  - insieme al detective e alla giuria - a fare la differenza; chi non ha soldi per pagarsene uno bravo (e sono la maggioranza o praticamente tutti) deve accontentarsi di un avvocato d’ufficio che troppo spesso non ha i mezzi e forse nemmeno la voglia di lavorare duramente, guadagnando, indipendentemente dall’esito del processo, pochi dollari l’ora… sempre che durante le udienze riesca a stare sveglio, non sia ubriaco o drogato e che semplicemente abbia letto attentamente i  capi di imputazione e  le carte processuali.

 In Texas sono pochissimi i bianchi condannati a morte per l’omicidio di un nero e nessuno di loro è mai stato “giustiziato”.

I neri negli USA sono: il 12,6% della popolazione, il 50% della popolazione carceraria (ci sono più giovani neri in prigione che al “college”), il 50% delle vittime di omicidio; eppure sono l’80% dei detenuti già “giustiziati”  per l’omicidio di un bianco.

Questo è un sistema che garantisce giusta e uguale pena per tutti?

E’ un sistema giusto e non arbitrario, così come ci sia aspetterebbe che debba essere, vista la natura definitiva della pena di morte?

Ho letto di recente un’intervista a una delle guardie che si occupa delle esecuzioni in Texas; a parer suo “…non c’è niente di immorale nell’uccidere un uomo senza averne la sensazione, ovvero se ci fosse stata ancora la sedia elettrica non sarei mai stato in grado, ma con l’iniezione letale non si vede la morte in faccia…è tutto così chirurgico…”

Sono assolutamente convinta che la pena di morte moltiplichi le vittime senza placare il dolore di nessuno.

Dall’inizio della mia esperienza ho letto molti libri, articoli, ho incontrato persone meravigliose che sono state fondamentali sia dal punto di vista umano, sia per la conoscenza più approfondita delle procedure, in me si è fatta strada l’idea che scrivere a un detenuto in attesa di esecuzione, firmare appelli per chiedere la grazia, chiedere ad amici e  conoscenti di darmi una mano in questo, non fosse sufficiente; ho cominciato a pensare che occorre agire nel modo più incisivo possibile per ottenere l’abolizione della pena di morte e che la parte emozionale dovesse rimanere un aspetto privato, tra me e Kevin e tutti gli altri che via via si sono aggiunti, e se vi ho parlato delle emozioni che ho provato quando ho scoperto il perché della  condanna di Kevin e vi ho raccontato della sua lettera, è stato solo per dare un volto a un caso di pena di morte.

Solo per far capire che dietro ogni numero di matricola c’è un uomo.Scrivere ai condannati a morte, mi ha costretto a misurarmi con sentimenti in  forte contraddizione, con la mia idea di legalità e giustizia, il pensiero per le vittime del crimine , con l’affetto per le persone a cui scrivo; ho dovuto fare i conti con l’idea di società giusta e di progresso, non solo economico ma soprattutto sociale.

Mi sono misurata con i miei limiti umani; passare dalla teoria alla pratica, per me è stato difficile e doloroso e talvolta lo è ancora.

Ci sono momenti in cui mi sento di dover prendere le distanze per ritrovare un mio equilibrio, non riesco a rispondere a tutte le istanze dei miei corrispondenti, non posso impedire che vengano fissate date e eseguite le sentenze, però so che il problema della criminalità non è avulso dall’abbandono scolastico, dalla povertà, dal ghetto dall’essere neri o poveri.

In sintesi, mi sento di poter dire che non può esserci giustizia senza giustizia sociale e che la pena di morte è una falsa soluzione ad un enorme problema.

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