DUE RAGAZZE VENUTE DA LONTANO
di Cecilia Negri - 7 gennaio 2007
Cecilia Negri é andata a trovare il suo amico Roger, fortunatamente 'in uscita' dal braccio della morte del Nevada. Questo è il diario della visita a Roger inviatoci da Cecilia appena rientrata dagli Stati Uniti
Eccomi qui, di ritorno di nuovo dagli Stati Uniti.
E' stato stupendo, meraviglioso. Come due anni fa, sono stata nel braccio due giorni, come due anni fa ho abbracciato Roger. Al contrario dell'altra volta, l'ho abbracciato senza il terrore che quelli sarebbero potuti essere i nostri ultimi momenti insieme.
Il carcere è sempre quello; la Ely State Prison è sempre un casermone grigio, a righe blu, sperduto in un campo, recintato dal filo spinato. Ma stavolta, quasi come se anche il cielo conoscesse il mio stato d'animo, non c'è stata nessuna tempesta di neve. Al contrario, un sole primaverile, caldo, mi ha accompagnato in quei giorni. Solo dei corvi neri nel cortile interno mi hanno dato i brividi; si aggiravano quasi ci stessero aspettando, gracchiando. Dicono ci siano sempre i corvi sulla casa della morte in Texas quando stanno giustiziando qualcuno...
Quando siamo arrivate, la mia amica in visita al suo amico Billy ed io, abbiamo tirato un sospiro di sollievo. La guardia di turno alla sala visite, Ms. D., era davvero come Roger me l'aveva descritta. Una persona, non una guardia, che ti chiede com'è stato il viaggio, e cerca di perquisirti il minimo indispensabile, per non metterti maggiormente sotto stress. Una donna che quando ti vede piangere durante il colloquio, si alza e ti porta la carta per asciugarti le lacrime. Stavolta ho realizzato che alcune guardie hanno una coscienza, e cercano di fare del loro meglio per alleviare le sofferenze dei detenuti.
Due anni fa vi ho detto di come avessi avuto la sensazione di entrare in un luogo di non ritorno, di avere avuto la sensazione di perdere la mia libertà. Stavolta no. Non so se dipenda dalla grandiosa adattabilità umana, che ci consente di abituarci ad ogni ambiente. Stavolta sapevo esattamente dove andare, cosa fare, ero già talmente pronta da non fare neppure caso allo squadrone di guardie armate che sono entrate nella sala alla fine delle visite per portare via i detenuti.
Rivedere Roger è stato stupendo, abbracciarlo di nuovo, con la consapevolezza che non morirà, meraviglioso. E quando siamo rimasti da soli ci siamo trovati nel nostro mondo. Solo io e lui, a parlare, ridere, tenerci la mano. Solo io e lui, a guardarci e dirci che l'incubo è finito, a pensare a quando uscirà, al suo prossimo trasferimento dal braccio al carcere. Abbiamo parlato e parlato. Sono stati due giorni stupendi, due giorni in cui ancora l'ho osservato, ed è stato bello scoprire che è sempre lui, con qualche capello bianco in più, e qualcuno in meno, ma sempre un uomo di 41 anni che ha passato 20 anni nel braccio ma che mi tranquillizza, perché, lui dice, se segui le regole, nel braccio di Ely non ti picchiano. Mi ha fatto sorridere, quando mi ha detto che anche lì è rimasta un po' di umanità e hai le guardie che si siedono con te nella cella e invece che perquisirla si guardano con te il super bowl e se la mattina della visita non ti spetta l'ora di libertà, ti fanno comunque uscire dalla cella alle 6 e ti portano a fare una doccia, perché sanno quanto ci tieni a presentarti rasato e profumato.
Roger mi ha detto che quando uscirà potrà ricominciare a costruire case come faceva un tempo, perché ha degli amici che possono aiutarlo... mi ha fatto sorridere perché la sua speranza gli dice che dopo vent'anni niente è cambiato e avrà tutta la sua vita indietro. Io so che non sarà così... ma è bello pensare che vivrà.
E' stato diverso questo viaggio, felice, ma si è trattato comunque di entrare in un braccio della morte. Il primo giorno ho guardato le mani di Roger. Erano viola. Ho pensato che avesse dei problemi di circolazione. Poi ho guardato i suoi polsi. E ho visto dei segni rossi, profondi. Gli ho detto: "Stai invecchiando... o cosa?" sorridendo e guardandogli le mani, che dopo due ore erano sempre violacee. Lui mi ha guardato e mi ha risposto: "Ma no, lo sai che sono un ragazzino... sono le manette, mi hanno tenuto tre quarti d'ora ammanettato dietro la schiena prima di entrare, mi si è bloccata la circolazione."
Ho provato una stretta allo stomaco quando a metà mattina l'ho vista entrare, la stessa donna orientale, con la stessa bambina, la stessa coppia di cui parlo nelle mie conferenze da quando sono stata nel braccio nel 2004. Ed era sempre lui il condannato, lo stesso papà. Dentro di me mi sono detta: almeno sei ancora vivo. E ho tremato pensando di rivedere quella scena di nuovo. Di nuovo lui che si abbassa e la bambina che gli salta al collo. Di nuovo quei baci, quella tenerezza infinita. Di nuovo lui che le dice che deve scendere. Di nuovo lei che fa il muso imbronciato e gli dice di no e intreccia le sue piccole gambe a quelle del papà. Ma quella figlia è cresciuta, sono passati due anni. Ora non piange più. Lui le sussurra qualcosa e lei si rassegna. La mette giù e le fa il solletico. Lei si mette a ridere. Anche lei si è abituata alle regole del braccio.
Roger è salvo, il boia non lo ucciderà. Ma lì dentro rimangono tante vite appese ad un filo. Ho visto di nuovo i bambini, i figli degli uomini morti che camminano... Ho visto i genitori anziani, costretti a guardare i propri figli mentre trascorrono gli anni senza vivere. E ho visto i ragazzini detenuti. Diciottenni con l'aria da duri, che sono entrati rompendo quel silenzio irreale, ridendo e provando a intrufolarsi nella stanza delle perquisizioni. Ragazzi che era meglio salvare prima, nelle strade.
Billy, che fino a quel momento non conoscevo se non tramite la mia amica, è ancora un ragazzo.
Resta lui, e restano tanti altri, ad aspettare e sperare.
Ho pianto durante la visita, ho pianto per tutto l'amore che stavo respirando, troppo tutto insieme. L'amore per cui noi lottiamo ogni giorno e che lì trovi senza muovere un muscolo. L'amore di un uomo che ti è grato, che ti dice che non sa come sarebbe sopravissuto se non ci fossi stata.
E tu rifletti: ho solo preso carta e penna mentre tu aspettavi di morire.... Pensi come sarebbe facile per noi persone libere, amare senza fare del male, se solo imparassimo il rispetto per gli altri.
Ho pianto, di gioia e di sollievo, ho pianto per le parole dette, così meravigliose da sembrare irreali, e ho pianto perché stavolta mi sono trovata a dirgli arrivederci. Arrivederci perché stavolta abbracciandolo l'ultima volta non ho avuto paura che fosse l'ultima, ma ho dovuto comunque lasciarlo lì, pronto per la perquisizione corporale, per le manette, per quella cella più piccola del mio bagno, per il cibo freddo, per il sole che vede ogni tanto per due ore al giorno... ho dovuto lasciarlo lì dentro, con quelle parole che mi ronzavano nelle orecchie; " Sono stanco, voglio solo andare a casa".
L'ho visto di nuovo sparire dietro alla stessa porta di acciaio di due anni fa, ancora con gli occhi pieni di lacrime. Ha pianto lui, come ha pianto Billy, perché quelle visite sono aria per i loro cuori, sono una felicità non provata da tanto, sono la fiamma della speranza che si riaccende. Sono la consapevolezza di essere amati nonostante il mondo li consideri non uomini. Sono il ritrovare la propria umanità attraverso due ragazze venute da lontano.