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FOGLIO  DI COLLEGAMENTO  INTERNO

 

DEL COMITATO PAUL ROUGEAU

 

Numero 289  -  Dicembre 2021

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Abramo Lincoln

lasciò impiccare 38 condannati il 26 dicembre del 1862

SOMMARIO:

 

1) Non si ferma la macchina della morte in Oklahoma

2) Liberato in Georgia 23 anni dopo l’ingiusta condanna per omicidio

3) In Mississippi dopo David Neal Cox anche Blayde Grayson chiede di essere giustiziato

4) Esecuzioni e condanne a morte negli USA ai minimi storici nel 2021

5) Appello in favore di Charles Raby condannato a morte in Texas

6) In Giappone impiccati tre uomini: si tratta delle prime esecuzioni dopo il 2019

7) Messo a morte in Iran l’oppositore Haidar Ghorbani

8) Nella giornata mondiale dei diritti umani condannato l’Iran

9) Pena di morte nel mondo: le esecuzioni in un anno scese da 1.500 a 483

10) 26 dicembre 1862: 38 impiccati per ordine di Abramo Lincoln

11) Quando visitiamo Gesù in prigione

12) Notiziario. Iran

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Bigler Jobe Stouffer II

1) NON SI FERMA LA MACCHINA DELLA MORTE IN OKLAHOMA

 

Sia pure tra notevoli perplessità, conseguenti ai fallimenti occorsi in quattro precedenti occasioni, il sistema giudiziario dell’Oklahoma ha infine messo a morte l’anziano Bigler Jobe Stouffer II, condannato alla pena capitale per un omicidio commesso nel 1985.

 

Il 9 dicembre l’Oklahoma ha messo a morte il 79-enne Bigler Jobe Stouffer II, il detenuto più anziano ucciso in questo stato. La sua è stata l’undicesima e ultima esecuzione del 2021 negli USA.

Il 17 novembre la Commissione per le Grazie, con un voto di 3-2, aveva raccomandato per Stouffer la commutazione della condanna in ergastolo senza possibilità di liberazione, per le preoccupazioni sorte dopo la tragica esecuzione di John Grant in ottobre (1), la prima portata a termine nello stato dal disastro delle esecuzioni di Clayton Lockett nell’aprile 2014 (2) e di Charles Warner nel gennaio 2015 (3), seguite dall’interruzione dell’esecuzione di Richard Glossip nel settembre 2015 (4).

“Questo processo è ovviamente imperfetto”, ha affermato il membro della Commissione per le Grazie Larry Morris, un agente di custodia in pensione, che ha votato per la clemenza nel caso di Stouffer. “Abbiamo avuto persone sul lettino che hanno sofferto per 20 e 30 minuti a testa. E non credo che nessuna società umana dovrebbe giustiziare le persone così, finché non scopriremo come farlo nel modo giusto”.

Persino i due membri della Commissione per le Grazie, che hanno votato contro la clemenza per Stouffer, hanno espresso riserve sul controverso processo di esecuzione basato sull’uso dei tre farmaci da parte dello Stato, ma hanno affermato che non era loro ruolo interferire: uno dei due, Richard Smothermon, ex procuratore distrettuale, ha dichiarato: “Condivido le preoccupazioni ma non sono un medico, non faccio le leggi e non decido come implementarle”. L’altro membro, Scott Williams, ex direttore del carcere, pur votando contro la clemenza, ha affermato che “occorre molta più chiarezza” riguardo al processo di esecuzione.

Ignorando il parere della maggioranza, il 3 dicembre il governatore Stitt ha respinto la raccomandazione della Commissione senza fornire spiegazioni in merito. Il suo ordine esecutivo affermava solo:

“Ho esaminato a fondo gli argomenti e le prove presentate in questo caso e ho stabilito che la clemenza debba essere negata”.

Da notare che i sostenitori di Stouffer e l’associazione Death Penalty Action avevano appena inoltrato al governatore una petizione sottoscritta da circa 10.000 persone in cui si chiedeva clemenza.

In un’ordinanza emessa il 6 dicembre, la Corte d'Appello degli Stati Uniti per il Decimo Circuito aveva respinto gli argomenti secondo cui l’esecuzione di Grant forniva motivi per concedere a Stouffer una sospensione. Accettando la testimonianza dell’anestesista di stato Dr. Ervin Yen, secondo cui Grant era incosciente e insensibile durante i quindici minuti in cui i testimoni dei media hanno riferito di aver osservato che il condannato vomitava e che il suo corpo fu scosso da oltre due dozzine di convulsioni, la Corte d'Appello ha affermato che Stouffer “non è riuscito a dimostrare la sussistenza di una minaccia di violazione dei suoi diritti dell’Ottavo Emendamento se sarà giustiziato utilizzando il protocollo dei tre farmaci dell’Oklahoma”. L'ordine della Corte non ha mai menzionato le parole “convulsioni” o “vomito”, descrivendo invece Grant come se avesse sperimentato un “breve periodo” di “rigurgito e difficoltà respiratoria” presumibilmente dopo aver perso conoscenza. Quanta ipocrisia!

Il 9 dicembre anche la Corte Suprema degli Stati Uniti ha respinto la richiesta di sospensione dell’esecuzione, e Bigler Jobe Stouffer II è stato ucciso poco dopo le 10:00 di quella stessa mattinata. Testimoni dei media hanno riferito che l’esecuzione è avvenuta senza problemi visibili.

Stouffer era stato processato nel 1985 per l'omicidio di un’insegnante di scuola elementare all’inizio dello stesso anno. Il suo avvocato aveva presentato la testimonianza di uno psicologo clinico e forense che descrisse Stouffer come un “42-enne di 15 anni” affetto da un “disturbo atipico della personalità, con tratti immaturi e isterici” che lo ha lasciato incapace di “prendere decisioni mature, responsabili, da adulto”. La sua condanna era stata annullata nel 1999 a causa della difesa inefficace, ma egli fu nuovamente condannato a morte nel 2003.

Stouffer aveva dichiarato alla Commissione delle Grazie e al governatore Stitt di non aver commesso l'omicidio. “Ci sono state così tante cose nel corso degli anni che non hanno avuto senso”, ha detto suo figlio Trey Stouffer ai giornalisti quando ha consegnato al governatore Stitt una petizione firmata da migliaia di persone che chiedevano clemenza.

Quella di Stouffer è la terza delle sette esecuzioni che l’Oklahoma ha programmato in cinque mesi tra la metà di ottobre 2021 e marzo 2022. (Grazia)

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(1) Vedi n. 287

(2) Vedi n. 214

(3) Vedi n. 220

(4) Vedi nn. 222, 224, 225

2) LIBERATO IN GEORGIA 23 ANNI DOPO L’INGIUSTA CONDANNA PER OMICIDIO

 

Devonia Inman fu condannato all’ergastolo nello stato della Georgia 23 anni fa in un processo gravemente falsato. Ora stanno perseguendo Hercules Brown, reo dell’omicidio per cui fu condannato Devonia Inman. Il 20 dicembre 2021 Devonia Inman è stato messo in libertà.

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Devonia Inman

Devonia Inman, condannato all’ergastolo in un processo per omicidio in cui i pubblici ministeri della Georgia hanno nascosto le prove a discarico, è stato scagionato 23 anni dopo la sua condanna.

Il 20 dicembre 2021, un mese dopo che la giudice Kristina Cook Graham ha concesso a Inman un nuovo processo basato sulle prove che un altro uomo aveva commesso l’omicidio per cui era stato incriminato, l’accusatore distrettuale del circuito giudiziario di Alapaha, Chase L. Studstill, ha annullato le accuse contro Devonia Inman. Clayton Tomlinson, giudice capo della Corte Superiore del Circuito di Alapaha ha quindi scagionato Inman ordinando il suo rilascio immediato.

Inman ha parlato con i giornalisti fuori dalla prigione di Augusta dopo il suo rilascio. “Sono felice”, ha detto. “È passato molto tempo”.

“Per 23 anni mi sono sentita come se la mia vita fosse sospesa”, ha detto sua madre, Dinah Ray. “Ora posso respirare”.

“Almeno 186 persone erroneamente condannate a morte negli Stati Uniti sono state scagionate dal 1973. Ma questi numeri sono solo la punta dell'iceberg rispetto all’uso ingiusto della pena di morte in questo paese”, ha dichiarato Robert Dunham, direttore esecutivo del Death Penalty Information Center. “Devonia Inman è una delle oltre 70 persone che negli ultimi cinque anni sono state scagionate in procedimenti per omicidio in cui i procuratori distrettuali avevano chiesto la pena di morte o casi in cui la polizia o i procuratori avevano minacciato gli imputati o i testimoni con la pena di morte per forzare la loro cooperazione in procedimenti ingiusti”.

Inman fu condannato in un processo capitale nel 2001 per la rapina e l’omicidio del direttore di un ristorante Taco Bell (1) ad Adel in Georgia, avvenuti il 19 settembre 1998. Nessuna prova fisica lo collegava al crimine, anche se un caratteristico passamontagna fatto in casa, che secondo l’accusa apparteneva all’assassino, fu trovato nell’auto rubata della vittima. In seguito un test del DNA sul passamontagna ha identificato il vero assassino: Hercules Brown, un ex dipendente del Taco Bell.

L’accusa presentò quattro testimoni contro Inman, tre dei quali successivamente ritrattarono la loro testimonianza, dicendo che erano stati pressati o costretti dalla polizia. Tra di essi un presunto informatore della prigione che ha fornito la falsa testimonianza che Inman aveva confessato l’omicidio, e una donna, definita dalla stampa un’amica di Inman, che ha affermato di aver visto Inman con un sacco di soldi la mattina dopo la rapina al Taco Bell. Una quarta testimone, che ha ricevuto 5.000 dollari per la sua testimonianza, ha affermato di aver visto Inman guidare l’auto della vittima. Tuttavia, un uomo che era accanto a lei in quel momento ha asserito che era troppo buio perché qualcuno potesse identificare il conducente.

Diversi testimoni avevano detto alla difesa che Brown aveva ammesso di aver commesso l'omicidio. Tuttavia, quando gli avvocati di Inman hanno tentato di presentare tali testimoni al processo, il giudice Buster McConnell ha impedito loro di testimoniare. Con il passamontagna in loro possesso e consapevoli che Inman stava sostenendo al processo che Brown era l’assassino, i pubblici ministeri hanno nascosto alla difesa la prova che la polizia aveva trovato un altro passamontagna fatto in casa nell’auto di Brown quando questi fu arrestato per possesso di droga e di armi fuori da un supermercato Adel nel settembre 2000. Brown fu anche accusato dell’omicidio di due persone durante un’altra rapina a mano armata in un supermercato Adel mesi dopo l’omicidio del Taco Bell, omicidi dei quali si è dichiarato colpevole.

Avendo nascosto con successo queste prove, il procuratore distrettuale Bob Ellis - successivamente condannato al carcere dopo aver mentito all'FBI sul fatto di aver costretto una donna a compiere atti sessuali con lui con la minaccia di accuse penali - ha poi detto alla giuria che non c’era “un barlume di prova” che Brown fosse coinvolto nell’omicidio.

La prova che Brown era stato arrestato con una maschera simile “sarebbe stata una prova indipendente, affidabile e ammissibile che collegava Hercules Brown all'omicidio, corroborando la teoria della difesa dell’errore di identità”, ha scritto la giudice Kristina Cook Graham. La cattiva condotta dell’accusa, ha sentenziato, “dimostra l’iniquità del processo contro il signor Inman e mina la fiducia della Corte nel risultato del processo e nella relativa condanna, giustificando la concessione dell’habeas corpus”.

 

Gli ostacoli al proscioglimento

 

Christina Cribbs, avvocato senior del Georgia Innocence Project, ha criticato aspramente gli ostacoli che hanno sistematicamente ritardato il proscioglimento di Inman. “Nonostante tutte le informazioni convincenti che dimostrano che lo Stato ha condannato l’uomo sbagliato, c’è voluto un enorme lavoro di squadra, durato quasi un decennio, per correggere questa evidente ingiustizia e liberare un uomo innocente dalla prigione”, ha detto. “Semplicemente lo Stato non può e non deve richiedere così tanto tempo per correggere le condanne sbagliate e ingiuste in Georgia”.

I procuratori e i tribunali hanno ripetutamente ritardato il proscioglimento di Inman nonostante le prove schiaccianti della sua innocenza. Anche se il test del DNA del Georgia Bureau of Investigation nel 2011 ha escluso Inman e ha coinvolto Brown, i procuratori si sono opposti e il giudice McConnell ha respinto la richiesta di Inman di un nuovo processo. Poi, nel 2014, la Corte Suprema della Georgia ha rifiutato di prendere in considerazione l’appello di Inman.

Nel 2018, di fronte a un nuovo giudice, il Georgia Innocence Project e lo studio legale Troutman Pepper di Atlanta hanno presentato una nuova petizione sostenendo che Inman era innocente. L'ufficio del procuratore generale della Georgia si è opposto alla petizione e si è mosso per respingerla. Quando il tribunale ha negato la sua istanza per respingere la petizione, i procuratori statali hanno depositato un appello interlocutorio per cercare di impedire a Inman di presentare le sue prove alla corte. La Corte Suprema della Georgia ha confermato la sentenza del tribunale, e con una notevole serie di valutazioni concordanti, due giudici hanno sollecitato l’ufficio del procuratore generale della Georgia a porre fine alla sua opposizione a concedere a Inman un nuovo processo.

Il giudice capo Harold Melton ha scritto che le prove che collegano Brown all’omicidio “sollevano alcune questioni preoccupanti” e ha esortato l’accusatore generale a “riesaminare attentamente questo caso al fine di garantire che la giustizia sia veramente servita”.

Il giudice David E. Nahmias ha scritto: "Tutti coloro che sono coinvolti nel nostro sistema di giustizia penale dovrebbero temere la condanna e l'incarcerazione di persone innocenti. Durante il mio decennio di servizio in questa Corte, ho esaminato oltre 1.500 casi di omicidio in varie forme. In quei casi, i tribunali di prova, le corti di habeas e questa Corte attraverso la revisione in appello hanno occasionalmente concesso nuovi processi ad imputati che sembravano non essere colpevoli dei crimini di cui erano stati condannati. Della moltitudine di casi in cui un nuovo processo è stato negato, il caso di Inman è quello più preoccupante, con una persona innocente condannata a scontare il resto della sua vita in prigione.

“Questo è, in breve, un caso che il procuratore generale e il suo staff di alto livello dovrebbero rivedere - personalmente e prima che la procedura vada troppo oltre. Il Procuratore Generale dovrebbe decidere se è davvero nell'interesse della giustizia che lo Stato della Georgia continui a lottare per bloccare l’esibizione delle prove relative a quanto rivendicato da Inman e a invocare difese procedurali per impedire un'udienza sul merito di quelle rivendicazioni - e in effetti se lo Stato dovrebbe continuare a resistere agli sforzi di Inman per ottenere un nuovo processo. Nessuno può dire con certezza quale sarebbe l’esito di un nuovo processo, ma con le nuove prove che sono state scoperte rispetto al processo originale di Inman - incluso tra l’altro il DNA di Hercules Brown, e non di Devonia Inman, sulla maschera fatta in casa trovata nell’auto rubata della vittima - non c'è dubbio che un nuovo processo sarebbe molto diverso da quello in cui Inman è stato dichiarato colpevole.

 

“Lasciate che sia fatta giustizia”

 

Ciononostante, durante il rinvio, l’ufficio del procuratore generale ha continuato ad opporsi alla richiesta di liberazione di Inman e ha aspettato l'intero periodo di 30 giorni nel quale avrebbe potuto presentare un appello prima di annunciare che non avrebbe contestato il proscioglimento da parte del tribunale. Con il caso restituito ai procuratori locali, l’ufficio del Procuratore Distrettuale del Circuito giudiziario di Alapaha si è mosso per cancellare le accuse contro Inman, mettendo fine alla sua odissea attraverso il sistema giudiziario della Georgia, durata 23 anni. (Pupa)

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(1) La Taco Bell è una catena di ristoranti statunitense.

3) IN MISSISSIPPI DOPO DAVID NEAL COX ANCHE BLAYDE GRAYSON CHIEDE DI ESSERE GIUSTIZIATO

 

Nella stragrande maggioranza dei casi i condannati a morte non vogliono essere giustiziati, tuttavia in Mississippi due condannati hanno chiesto di essere messi a morte. Uno di essi, David Neal Cox, è stato accontentato il 17 novembre scorso, l’altro, Blayde Nathataniel Grayson, attende una risposta dalla Corte Suprema del suo stato.

Blayde Nathataniel Grayson ha scritto in una lettera inviata il 3 dicembre u. s. ai giudici della Corte Suprema del Mississippi: “Chiedo che la mia esecuzione sia portata a termine senza indugio”.

Ad agosto del 1997 Grayson fu condannato a morte per aver ucciso a coltellate la 78-enne Minnie Smith mentre svaligiava la sua casa nel maggio del 1996.

“Signore e signori io rinuncio ai miei appelli e chiedo alle corti della nostra nazione di fare il loro gravoso dovere,” ha scritto Grayson. “Per favore portate a termine la giustizia nel mio interesse, nell’interesse della famiglia delle mia vittima e della mia stessa famiglia che hanno aspettato per più di 25 anni!!!”

Sta ora alla Corte Suprema del Mississippi decidere se accogliere o respingere la richiesta suicida di Blayde Nathataniel Grayson.

Ricordiamo che il Mississippi ha portato a termine la prima esecuzione dopo nove anni mettendo a morte il 17 novembre u. s. David Neal Cox. Anche costui aveva chiesto di essere giustiziato (1).

Prima dell’esecuzione di Cox il Mississippi aveva compiuto 6 esecuzioni nel 2012. Vi sono oltre 30 condannati a morte in questo stato.

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(1) Vedi n. 288.

4) ESECUZIONI E CONDANNE A MORTE NEGLI USA AI MINIMI STORICI NEL 2021

Negli Stati Uniti d’America il movimento abolizionista ha ottenuto notevoli risultati: il numero dei cittadini favorevoli alla pena capitale diminuisce, esecuzioni e condanne a morte diminuiscono, aumenta il numero degli stati abolizionisti.

 

Nel 1999, 279 persone furono condannate a morte negli Stati Uniti e 98 prigionieri furono giustiziati. Quell’anno vide il maggior numero di esecuzioni da quando la pena capitale era stata ripristinata nel 1976.

Le cose sono cambiate: nel 2021, le persone condannate a morte sono state 18 e i prigionieri giustiziati sono stati 11. Si è avuto il numero di esecuzioni più basso dal 1988.

E quando la Virginia ha messo fuori legge la pena capitale a marzo, dopo aver giustiziato più prigionieri di qualsiasi altro stato, si è avuta una maggioranza di 26 stati che hanno bandito la pena di morte o imposto una moratoria sul suo utilizzo.

I numeri indicano un continuo declino del desiderio dell’America di mettere a morte gli assassini.

Da un sondaggio Gallup risulta che il sostegno del pubblico alla pena di morte è al minimo. Mentre l’80% degli intervistati nel 1994 sosteneva la pena capitale, quest’anno solo il 54% si è dichiarato “favorevole alla pena di morte per una persona condannata per omicidio”.

“C’è una tendenza nazionale consistente ad allontanarsi dalla pena di morte”, ha affermato Robert Dunham, direttore esecutivo del Death Penalty Information Center (DPIC). Dunham ha citato due fattori principali: “Vi è stato un cambiamento di paradigma sulla punizione in generale, un cambiamento sociale rispetto alla punizione eccessiva, e c’è stata una crescente consapevolezza dei difetti della pena di morte, in particolare”, che si tratti dell’errata condanna degli imputati, delle disparità razziali nel suo utilizzo o dell’alto costo del processo e degli appelli.

Da una ricerca del DPIC risulta che dal 1976, 186 prigionieri sono stati scagionati dopo essere stati condannati a morte. “Ora sappiamo che per ogni 8,3 esecuzioni c’è un esonero”, ha detto Dunham. “Questo è un tasso di fallimento spaventoso. Se si verificasse in qualsiasi altra politica pubblica, non sarebbe tollerato”.

Dunham ha aggiunto: “E’ indiscutibilmente vero che sono state giustiziate persone innocenti, e la loro innocenza non è mai stata scoperta”.

Il DPIC ha constatato che la pena di morte sta diventando geograficamente isolata, con solo 3 stati - Alabama, Oklahoma e Texas - che hanno la maggioranza sia delle condanne a morte che delle esecuzioni dal 1976.

Nel 2021, il Texas e il Governo federale, che hanno giustiziato 13 prigionieri durante gli ultimi 6 mesi dell’amministrazione Trump, hanno eseguito entrambi 3 condanne, mentre l’Oklahoma 2 e il Missouri, l’Alabama e il Mississippi una ciascuno. Non ci sono state esecuzioni a ovest del Texas per il settimo anno consecutivo.

Riferendosi alla Virginia, il primo stato del Sud ad abolire la pena di morte, e allo Utah, dove l’anno prossimo sarà preso in considerazione un disegno di legge bipartisan per l’abolizione, Dunham ha affermato che “uno dei grandi sviluppi in entrambi questi stati è che gli accusatori sostengono l'abolizione tanto quanto i familiari delle vittime di omicidio”. In Virginia, la figlia di un vicesceriffo ucciso ha detto che i membri della famiglia vengono nuovamente traumatizzati dal processo di appello e non trovano conforto quando ha luogo un’esecuzione, come è accaduto per l’assassino del caporale Eric Sutphin.

“Stiamo vedendo sempre più familiari affermarlo”, ha detto Dunham, “e sempre più pubblici ministeri che ascoltano”.

Ci sono continue prove di disparità razziale nella pena capitale. Delle 18 persone condannate a morte quest’anno, 6 erano Nere e quattro Latino americane. Anche la razza della vittima è rilevante. Secondo il rapporto: 14 dei 18 casi riguardavano vittime Bianche e nessuna persona Bianca è stata condannata a morte per un omicidio che non avesse coinvolto almeno una vittima Bianca.

Dal 1976, il 55% dei giustiziati sono stati Bianchi, il 34 % Neri e l'8,4 % Ispanici, mentre il 75% delle vittime è stato di Bianchi, rispetto al 16% di Neri e al 7% di Ispanici.

Anche la menomazione intellettuale gioca il suo ruolo. Il DPIC ha rilevato che delle 11 persone giustiziate nel 2021, 10 avevano 1 o più disabilità significative, tra cui malattie mentali, lesioni cerebrali, disabilità intellettiva o traumi infantili cronici gravi.

Dunham ha sottolineato un’altra osservazione del DPIC: la metà delle persone nel braccio della morte in America sono state mandate dall'1,2% delle contee degli Stati Uniti.

“Quello che ci dicono i numeri”, ha detto Dunham, “è che la percentuale di imposizione delle condanne a morte non ha niente a che fare con i tassi di omicidi né con la gravità degli omicidi che si verificano in un luogo. Ha a che fare con chi deve decidere se perseguire la pena di morte. Quindi uno dei maggiori contributori al calo in queste contee anomale e aggressive è la riforma dei Pubblici Ministeri".

I Pubblici Ministeri di Filadelfia, Los Angeles e altre grandi giurisdizioni hanno dichiarato che non chiederanno più la pena capitale.

Quattro contee in Texas - Harris, Dallas, Tarrant e Bexar - e la contea di Oklahoma City in Oklahoma, hanno portato a termine il 20% di tutte le esecuzioni dal 1976. La contea di Oklahoma, dove si trova Oklahoma City, ha portato a termine 42 esecuzioni, più del doppio di quelle portate a termine in qualsiasi altra contea degli Stati Uniti.

“Ciò ci dice che questi sono valori anomali”, ha osservato Dunham. “Ci dice anche quanto questi valori anomali distorcano il sistema”.

Il movimento per la giustizia sociale - in particolare dopo la morte di George Floyd (1) e mentre è cresciuta la consapevolezza dello squilibrio razziale nel sistema giudiziario - si è unito all’attenzione dei cittadini verso stati come la Carolina del Sud e l’Arizona che continuano a spingere per le sentenze capitali anche se i tribunali statali tendono a non infliggerle”, ha dichiarato Dunham.

Nella Carolina del Sud, i pubblici ministeri hanno cercato due volte di programmare le esecuzioni senza prima ottenere i farmaci letali e i pubblici ministeri in Arizona hanno cercato di accelerare il processo di appello per giustiziare i prigionieri prima che i farmaci scadessero. “È questo tipo di condotta estrema”, ha detto Dunham, “che sta avendo effetti a lungo termine sulla visione pubblica della pena di morte. Anche le persone che sostengono la pena di morte in astratto stanno perdendo fiducia nella possibilità di metterla in pratica correttamente.” (Anna Maria)

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(1) Ricordiamo che George Floyd, un afroamericano disarmato, arrestato e ammanettato, morì il 25 maggio del 2020 a Minneapolis mentre giaceva ansimante per mancanza di respiro con il collo bloccato a terra dal ginocchio di un poliziotto.

5) APPELLO IN FAVORE DI CHARLES RABY CONDANNATO A MORTE IN TEXAS

La nostra corrispondente Cinzia Wood - email: salviamouninnocente@libero.it - ci ha chiesto di pubblicare il suo seguente appello:

 

Charles Raby, arrestato nel 1992 e nel braccio della morte in Texas dal 1994, è stato condannato per l'omicidio della nonna di un suo amico, un crimine che non ha commesso. Raby ha rilasciato una falsa confessione per evitare che la sua fidanzata venisse incarcerata e suo figlio affidato ai servizi sociali, confessione poi ritrattata.

Durante il processo non è stato difeso adeguatamente e i risultati degli esami sotto le unghie della vittima sono stati definiti inconcludenti, testimonianza falsa dato che, in realtà, i test mostravano che il DNA trovato sotto le unghie della donna non apparteneva a Raby. Inoltre nessuna prova fisica lo colloca sulla scena del delitto.

I suoi attuali avvocati hanno lottato per fargli concedere un nuovo processo che, purtroppo, è stato negato. Per questo Charles ha bisogno di far conoscere il suo caso a quante più persone possibile, di poter dimostrare la sua innocenza, ottenere giustizia e salvarsi la vita. Per conoscere la storia di Charles Raby visitate il sito: www.savecharlesdraby.com

6) IN GIAPPONE IMPICCATI TRE UOMINI: SI TRATTA DELLE PRIME ESECUZIONI DOPO IL 2019

 

La pena di morte continua ad essere prevista in Giappone ma le esecuzioni sono piuttosto rare

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L’ingresso del Ministero della Giustizia del Giappone

Il 21 dicembre u. s. in Giappone sono stati impiccati tre condannati a morte. Si tratta delle prime esecuzioni che il Paese del Sol Levante ha effettuato dopo il 2019 e le prime da quando è primo ministro Fumio Kishida.

Uno dei giustiziati, il 65-enne Yasutaka Fujishiro, uccise sette persone tra cui sua zia e i suoi vicini di casa nel 2004.

Gli altri due, Tomoaki Takanezawa, di 54 anni, e Mitsunori Onogawa, di 44 anni, uccisero due impiegati in una sala da gioco nel 2003.

“Questi sono episodi estremamente brutali, che prendono vite preziose per motivi egoistici. Penso che siano terribili non solo per le vittime che hanno perso la vita, ma anche per le famiglie in lutto”, ha dichiarato il ministro della Giustizia Yoshihisa Furukawa in una conferenza stampa il 17 dicembre.

Tutte le esecuzioni in Giappone sono effettuate per impiccagione. I prigionieri vengono spesso informati che saranno giustiziati poche ore prima che l’esecuzione abbia luogo. Le loro famiglie di solito vengono informate dell'esecuzione solo dopo che questa è stata portata a termine.

L'uso e il modo in cui vengono eseguite le condanne a morte in Giappone hanno a lungo suscitato la reazione dei gruppi per i diritti e degli attivisti che lavorano per abolire la pena di morte.

“La recente nomina del primo ministro Fumio Kishida sembrava offrire una possibilità di progresso per i diritti umani in Giappone. Ma l'odiosa ripresa delle esecuzioni di oggi è un'accusa schiacciante della mancanza di rispetto del diritto alla vita da parte di questo governo”, ha detto in risposta alle esecuzioni Chiara Sangiorgio, consulente di Amnesty International per la pena di morte. “Dopo due anni senza esecuzioni, la loro ripresa rappresenta un'opportunità persa per il Giappone di fare passi da tempo attesi verso l’abolizione della crudele pratica della pena di morte”.

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Il primo Ministro del Giappone Fumio Kishida parla ai reporter il 17 dicembre

Tra le democrazie sviluppate il Giappone è uno dei pochi paesi che continua ad usare la pena di morte. Amnesty International ha ripetutamente chiesto al Giappone di stabilire un’immediata moratoria ufficiale delle esecuzioni come primo passo verso l’abolizione.

Il Giappone ha resistito alle richieste di cambiamento e molti in questo paese sono favorevoli alla pena capitale.

“L’abolizione della pena di morte è una questione importante che riguarda i fondamenti del sistema penale giapponese” ha dichiarato l’autorità governativa Seiji Kihara in una conferenza stampa. “Non è facile decidere riguardo alla pena di morte, ma considerando che certi crimini si verificano ancora non ritengo che sia appropriato abolire la pena capitale” (Pupa)

7) MESSO A MORTE IN IRAN L’OPPOSITORE HAIDAR GHORBANI

 

Si è parlato moltissimo nel mondo del caso dell’oppositore iraniano Haidar Ghorbani arrestato l’11 ottobre del 2016 e impiccato a Sanandaj nella provincia del Kurdistan il 19 dicembre scorso.

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Haidar Ghorbani

L’agenzia ufficiale iraniana IRNA il 19 dicembre ha diffuso a notizia che in quel giorno a Sanandaj, nella provincia del Kurdistan, è stato messo a morte il 48-enne Haidar Ghorbani colpevole di complicità nell’omicidio di 3 cittadini curdi e reo dell’appartenenza al Partito Democratico del Kurdistan Iraniano (KDPI), un’organizzazione politica fuori legge.

Saleh Nikbakht, avvocato di Ghorbani, ha dichiarato al Kurdistan Human Rights Network (KHRN) che il suo cliente è stato impiccato alle 4:00’, ora locale, nella prigione centrale di Sanandaj. Ha aggiunto che i funzionari della prigione non hanno informato né lui né la sua famiglia prima dell’esecuzione. Un gruppo di civili si è riunito davanti alla casa di Ghorbani a Kamyaran per esprimere le proprie condoglianze.

L'avvocato di Ghorbani ha detto al KHRN: “Dopo molto tempo di silenzio, Heydar Ghorbani mi ha chiamato il giorno prima alle 19:53’ dalla prigione di Sanandaj. Sperava ancora che la sua condanna a morte sarebbe stata annullata e non sembrava avere la minima premonizione dell’esecuzione. La sentenza è stata eseguita segretamente senza informare né la sua famiglia, né me".

Uno dei parenti di Ghorbani ha detto a Iran Human Rights: “Ci hanno detto di venire a visitare Heydar […]. Stavano mentendo e lo hanno giustiziato stamattina. Ci hanno portato a vedere una tomba che hanno detto essere di Heydar. Lo hanno seppellito loro stessi nel cimitero di Beheshte Mohammadi e non ci hanno dato il suo corpo”.

L’avvocato Nikbakht ha affermato che tre mesi fa aveva presentato alla Corte Suprema la richiesta di nuovo processo ai sensi dell’articolo 477 del codice di procedura penale iraniano. La Corte Suprema aveva chiesto in una lettera al Dipartimento di Giustizia della provincia del Kurdistan di riesaminare il caso, e di informare il tribunale e la famiglia di Ghorbani dell’esito. Nikbakht ha continuato: “La condanna a morte di Heydar Ghorbani è stata eseguita mentre non avevamo ancora ricevuto alcuna risposta dal Dipartimento di Giustizia della provincia del Kurdistan. Considerando i plateali errori del processo, nonché le petizioni di oltre mille civili a Kamyaran e di oltre 50 religiosi e imam sunniti alla Guida Suprema della Repubblica Islamica per revocare la condanna a morte di Heydar Ghorbani, speravamo che la Corte Suprema avrebbe ribaltato la sentenza”.

In una precedente intervista con il KHRN, Nikbakht aveva espresso preoccupazione per la possibile esecuzione del suo cliente.

Aveva detto: “La condizione per commettere il crimine di insurrezione armata è l’appartenenza a un gruppo armato e l’uso di armi contro la Repubblica islamica. Il mio cliente non ha mai confessato di aver posseduto o usato un’arma, e non ci sono prove che suggeriscano il contrario anche nelle circostanze difficili e dolorose che ha vissuto”.

Heydar Ghorbani era nato nel 1973 ed era originario del villaggio di Bezush presso la città di Kamyaran. L'11 ottobre 2016 fu arrestato, assieme al cognato Mahmoud Sadeghi, dalle forze di sicurezza mentre tornava a casa dal lavoro. Lo hanno interrogato e torturato per diversi mesi nel centro di detenzione del Ministero dell'Intelligence a Sanandaj al fine di ottenere le note “confessioni forzate”, che spesso vengono mandate in onda sui media nazionali, e altrettanto frequentemente costituiscono l’unica prova in processi carenti di prove concrete. Nel marzo 2018 il canale “Press TV” della televisione statale iraniana ha mandato in onda le confessioni di Ghorbani ottenute con la forza. Il 7 ottobre 2019, Ghorbani è stato condannato a 90 anni di carcere e 200 frustate. Nel febbraio 2020 la Prima Sezione della Corte rivoluzionaria islamica di Sanandaj ha condannato a morte Ghorbani con l’accusa di insurrezione armata per l’appartenenza al Partito Democratico del Kurdistan iraniano (KDPI)”. Il 5 agosto 2020, la 27° sezione della Corte Suprema ha confermato la sentenza e un mese dopo ha respinto l’appello per un nuovo processo.

8) NELLA GIORNATA MONDIALE DEI DIRITTI UMANI CONDANNATO L’IRAN

 

Il 10 dicembre di ogni anno si celebra la Giornata Mondiale dei Diritti Umani ricordando la proclamazione della Dichiarazione Mondiale dei Diritti Umani avvenuta il 10 dicembre del 1948. Dato il pessimo record dell’Iran per quanto riguarda le violazioni di tali diritti, quest’anno nella Giornata Mondiale si è denunciato in primo luogo il paese degli ayatollah.

 

Il 10 dicembre di ogni anno si celebra la Giornata Mondiale dei Diritti Umani, uno degli eventi più significativi del calendario delle Nazioni Unite con cui si ricorda la proclamazione della Dichiarazione Mondiale dei Diritti Umani avvenuta il 10 dicembre del 1948.

Quest’anno la Giornata Mondiale ha riguardato in particolar modo l’Iran. Molti il 10 dicembre hanno fatto appello alla comunità internazionale affinché adotti misure concrete per ritenere il regime iraniano responsabile delle sue crescenti violazioni dei diritti mani.

Diana Eltahawy - vice direttrice di Amnesty International per il Medio Oriente e il Nord Africa - ha dichiarato che l’Iran “soffre di una crisi sempre più grave dei diritti umani, con centinaia di persone - anche minorenni - nel braccio della morte a seguito di processi iniqui, e migliaia di perseguitati o detenuti arbitrariamente solo per aver esercitato pacificamente i propri diritti”. Questa situazione è alimentata da un’aspettativa di impunità da parte di Teheran, che a sua volta è anche conseguenza del silenzio dei politici occidentali su questioni chiave.

La risposta della comunità internazionale alle abusive elezioni presidenziali di giugno del regime iraniano è un ottimo esempio di quel silenzio. La Resistenza iraniana ha condannato l'Unione Europea per aver inviato una delegazione a partecipare all'insediamento di Ebrahim Raisi. Questa mossa è stata un’affermazione della legittimità di Raisi, sebbene la maggior parte degli elettori iraniani avesse boicottato le elezioni per protesta.

Amnesty International ha giudicato la nomina di Raisi come prevaricante sulla volontà del popolo iraniano, dichiarando che Raisi è “asceso alla presidenza invece di essere indagato per crimini contro

l'umanità per omicidio, sparizione forzata, e tortura”. Questo è stato un “triste segno che l’impunità regna sovrana in Iran” (1).

Il 7 dicembre, circa 100 eurodeputati hanno rilasciato una dichiarazione esortando i propri governi e l'UE nel suo insieme a ritenere formalmente Teheran responsabile dei gravi crimini contro l’umanità commessi nell'estate del 1988, sottolineando che Raisi era un membro della “commissione della morte” di Teheran, che ha svolto un ruolo di primo piano in quel massacro. Per circa tre mesi, egli fu uno dei quattro funzionari che interrogarono i prigionieri politici, concentrandosi su quelli affiliati all’Organizzazione dei Mojahedin del popolo iraniano (MEK), ed emise condanne a morte per coloro che si rifiutarono di rinnegare le loro affiliazioni. A livello nazionale, circa 30.000 prigionieri politici furono uccisi in quel periodo.

In conferenze organizzate dalla Resistenza iraniana, i docenti di giurisprudenza sostennero che il massacro del 1988 non fu solo un crimine contro l'umanità, ma anche un caso di genocidio, basato su una fatwa che etichettava i sostenitori del MEK come nemici di Dio, con l'obiettivo di annientare tutti i sostenitori di un’interpretazione moderata e democratica dell'Islam. Nel momento attuale il fondamentalismo teocratico del regime sostiene un sistema di “giustizia” che è ancora ampiamente definito dalla brutalità mostrata nel periodo del massacro del 1988.

Ciò è stato confermato di recente, quando Hamid Noury, un ex funzionario carcerario iraniano e servitore della Commissione per la morte di Raisi, ha parlato in sua difesa a un processo condotto in un tribunale svedese. Noury è stato arrestato nel 2019 dopo aver visitato il paese scandinavo e in seguito è stato incriminato per crimini di guerra e omicidio di massa per il suo ruolo nel massacro. Il processo è iniziato ad agosto e dovrebbe concludersi il prossimo aprile. Sono già state prodotte testimonianze di circa due dozzine di sopravvissuti alla strage, ognuno dei quali ha riferito di aver avuto interazioni dirette con l’imputato. Nonostante i suoi tentativi disperati di negare la responsabilità di quel particolare crimine, Noury ha riconosciuto apertamente molte delle violazioni dei diritti umani, inclusa la punizione per il dissenso e la violazione delle regole con mesi di isolamento e fustigazioni orribilmente brutali. A un certo punto ha descritto il sistema di quelle punizioni come un “sistema sacro”, i cui principi rimangono in vigore ancora oggi.

Il 7 dicembre gli Eurodeputati hanno ribadito la loro aspettativa che il processo Noury avvii un'indagine più ampia sulle violazioni dei diritti umani in generale e sul massacro del 1988 in particolare. Il movimento di Resistenza iraniano ha ripetutamente esortato le Nazioni Unite ad aprire una commissione d’inchiesta con l’obiettivo di preparare il terreno per il processo contro Raisi, il leader supremo del regime Ali Khamenei, e contro altri suoi collaboratori presso la Corte Penale Internazionale.

Questi appelli sono diventati più imperativi dopo l’elezione del “macellaio del 1988” a presidente, che ha stimolato un aumento delle violazioni dei diritti umani. Nei cinque mesi precedenti le elezioni presidenziali fittizie di giugno, l’Iran ha infatti registrato una media di 26,6 esecuzioni al mese, ma tra luglio e novembre la media è salita a 35,6 evidenziando l'accelerazione degli sforzi della magistratura per intimidire il pubblico e reprimere il dissenso. Questi sforzi sono stati evidenti anche nella risposta del regime a varie proteste negli ultimi sei mesi, alcune delle quali sono state suscitate direttamente dalla scelta di Raisi, mentre altre si sono concentrate su questioni come la cattiva gestione delle risorse idriche e dell'economia da parte del governo.

Nei giorni scorsi, le proteste guidate dai contadini di Isfahan hanno portato al ferimento di 100 persone e all'arresto di 300, quando le forze di sicurezza hanno aperto il fuoco sulla folla con proiettili “non letali”. Diverse vittime sono state accecate in almeno un occhio dopo essere state colpite da armi da fuoco a distanza ravvicinata, e il pubblico iraniano ha risposto rapidamente con una campagna sui social media che ha visto attivisti che indossavano bende sugli occhi per esprimere solidarietà e richiamare l'attenzione sugli abusi.

Attacchi simili ai manifestanti sono stati segnalati anche in altre regioni e Raisi ha avuto un ruolo in tutte queste atrocità. Prima di diventare presidente, Raisi fu per oltre due anni capo della magistratura e, a partire da novembre 2019, supervisionò la peggiore repressione del dissenso. In risposta a una rivolta spontanea a livello nazionale a quell’epoca, le forze di sicurezza aprirono il fuoco sui manifestanti, uccidendo 1.500 persone. Da allora in poi, per mesi, la magistratura procedette a una campagna di tortura sistematica contro i sospetti partecipanti.

Anche se stanno emergendo altri soprusi, la repressione della rivolta del novembre 2019 non sembra ancora essere finita. Ciò è stato reso particolarmente evidente qualche settimana fa, quando un attivista di 48 anni di nome Abbas Daris è stato condannato a morte, mentre suo fratello, il 28enne Mohsen Daris, è stato condannato all’ergastolo. Le sentenze riguardano l’'uccisione di un agente di sicurezza che si trovava sulla scena della protesta nel 2019 a Mahshahr, ma le prove fisiche indicano che la morte della vittima fu un caso di fuoco amico da parte di un altro poliziotto, mentre le condanne dei fratelli si basavano su false confessioni estorte attraverso la tortura.

Esperti dei diritti umani delle Nazioni Unite, incluso il relatore speciale sulla situazione dei diritti umani in Iran, hanno rilasciato varie dichiarazioni e rapporti che esprimono preoccupazione per questo fenomeno e una lunga lista di altre irregolarità nel sistema di giustizia penale del regime iraniano. Questi esperti hanno anche chiesto l'immediata sospensione delle esecuzioni in Iran, in particolare di quelle che conseguono a processi ingiusti.

Il regime iraniano ha mantenuto a lungo il suo status di paese con il più alto numero di esecuzioni pro capite in tutto il mondo e il secondo più alto numero di esecuzioni dopo la Cina. Da giugno, il tasso di esecuzioni è cresciuto in modo esponenziale.

Nel 2020 sono state eseguite almeno 255 esecuzioni in tutto l'Iran, e nel 2021 quel numero supera le 330. Queste cifre sono solo stime e il numero reale di omicidi sanzionati dallo stato è quasi certamente molto più alto. Teheran mantiene uno stretto riserbo sui procedimenti legali e solo una frazione delle esecuzioni di ogni anno viene resa nota dal regime. Gli altri casi noti sono confermati da reti di attivisti con fonti interne al sistema carcerario, ma non vi è alcuna garanzia che si venga a conoscenza di ogni impiccagione.

La persistente segretezza del regime è senza dubbio il prodotto dell'incapacità della comunità internazionale di sanzionarla. Come ha sottolineato la conferenza della Resistenza iraniana, il regime dovrebbe essere costretto ad agire in modo diverso dalle potenze mondiali, che dovrebbero subordinare tutte le relazioni economiche e diplomatiche con il regime ad un cambiamento del suo comportamento malvagio.

In poche parole: gli Stati del mondo che non intervengono sono complici dei crimini iraniani! (Grazia)

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(1) Sull’elezione di Ebrahim Raisi vedi numeri 284 e 285

9) PENA DI MORTE NEL MONDO: LE ESECUZIONI IN UN ANNO SCESE DA 1.500 A 483

 

Mario Marazziti - esponente della Comunità di Sant’Egidio da molti anni impegnata contro la pena di morte - il 5 dicembre, Giornata internazionale del volontariato, ricorda le attività messe in atto contro la pena capitale dalla sua associazione e fa un bilancio sostanzialmente positivo dei risultati ottenuti dal movimento abolizionista.

 

«La pena di morte è una pandemia che ha accompagnato l'uomo fin dai tempi del codice di Hammurabi. Ora però sta perdendo carica virale ed è sempre più lungo l'elenco dei Paesi che rifiutano questo strumento barbaro, che ormai a livello di comunità internazionale è considerato al pari di crimini come le torture o la schiavitù»

 

Mario Marazziti, della Comunità di Sant’Egidio, cofondatore della Coalizione mondiale contro la pena di morte, dopo anni di lotte vede finalmente segnali positivi, «ma c'è ancora molto da fare. In tutto il mondo ci sono almeno 32 mila persone nei bracci della morte. E oggi 5 dicembre, Giornata internazionale del volontariato, vorrei ringraziare le migliaia di persone che scrivono ai detenuti condannati a morte. Noi come Comunità in 20 anni abbiamo messo in contatto oltre 15 mila volontari con persone chiuse nei bracci della morte in 80 Paesi in tutto il mondo. Scrivere ai detenuti è un importante atto di generosità».

 

Perché?

«I rapporti epistolari sono molto complicati, ma umanizzano la condizione terribile di chi vive nei bracci della morte. Le lettere che arrivano dall'esterno spesso rappresentano l'unico scambio umano che hanno queste persone. Talvolta da questi rapporti hanno preso il via mobilitazioni che hanno permesso di ribaltare condanne inflitte a persone innocenti».

 

Quali sono i Paesi in cui è ancora alto il numero delle esecuzioni?

«Sicuramente Paesi come l'Iran, o Stati arabi come Iraq, Arabia Saudita, che comunque registrano un calo. In Egitto, purtroppo, sono triplicate da un anno all'altro».

 

Poi c’è il capitolo Cina, si parla di migliaia di esecuzioni ogni anno, con organi poi espiantati e venduti...

«Cina, Corea del Nord e Vietnam non forniscono dati, ma si pensa che i morti siano tantissimi, anche se ci sono segnali di attenuazione del fenomeno. In Cina, per esempio, è stata recentemente tolta alle corti locali la competenza per le pene capitali e si stima che questa misura da sola abbia ridotto il numero delle esecuzioni del 30%».

 

Negli Usa, invece, come è la situazione?

«Siamo ai minimi degli ultimi 20 anni, anche se nei sei mesi finali della presidenza Trump nello Iowa sono state eseguite 13 condanne, un’escalation senza precedenti nella storia del Paese».

 

Dati complessivi a livello mondiale?

«La situazione è nettamente migliorata. Nel 1977 i Paesi abolizionisti erano 16, oggi quelli che per legge o di fatto l'hanno abolita sono 144. E tra 55 Paesi mantenitori nel 2020 l'hanno usata davvero solamente in 18. Le esecuzioni registrate negli ultimi 5 anni sono diminuite tre volte, scendendo nel mondo a 483 da più di 1.500, anche se mancano i dati di alcuni Paesi, come la Cina».

 

Che cosa ha determinato questo calo?

«Sicuramente l'impegno e l'opera di sensibilizzazione di soggetti importanti come l’Unione Europea e la Chiesa, ma anche la mobilitazione di associazioni, enti e comunità. Nel 2001 Sant'Egidio lanciò il movimento Città per la vita, partendo con l'adesione di 58 città. Oggi sono 2.446, comprese capitali di Stati che ancora non hanno abolito la pena di morte, come Seul (Corea del Sud) e Dakar (Senegal)».

10) 26 DICEMBRE 1862: 38 IMPICCATI PER ORDINE DI ABRAMO LINCOLN

 

Abramo Lincoln, un presidente degli Stati Uniti per molti versi avanzato, non riuscì ad evitare di ordinare l’esecuzione di 38 condannati a morte in un solo giorno.

 

Il 26 dicembre del 1862 furono impiccati 38 Nativi Americani Dakota nella più grande esecuzione di massa nella storia degli Stati Uniti. Le esecuzioni furono ordinate dal presidente Abramo Lincoln e furono portate a termine a Mankato in Minnesota.

Da notare: il Proclama di Emancipazione di Lincoln, per la liberazione degli schiavi, entrò in vigore sei giorni dopo, il 1° gennaio 1863.

Le impiccagioni dei Dakota furono causate del conflitto tra i Dakota e i coloni. L’autore nativo americano Mark Charles ha scritto per Native News Online (1):

Nell’autunno del 1862, dopo che gli Stati Uniti non riuscirono a rispettare i loro obblighi di trattato con il popolo Dakota, guerrieri Dakota fecero irruzione in un insediamento americano, uccisero 5 coloni e rubarono dei viveri. Iniziò un conflitto armato tra il popolo Dakota, i coloni e l’esercito statunitensi. Dopo più di un mese, diverse centinaia di guerrieri Dakota si arresero e il resto fuggì al nord nella regione che oggi è il Canada. Coloro che si arresero furono rapidamente processati in tribunali militari e 303 di loro furono condannati a morte.

I processi dei Dakota sono stati condotti ingiustamente per vari motivi. Le prove erano scarse, il tribunale era di parte, gli imputati erano immersi in procedimenti sconosciuti condotti in una lingua straniera. Più precisamente, né la Commissione militare né le autorità di appello riconobbero che stavano affrontando le conseguenze di una guerra combattuta con una nazione sovrana e che gli uomini che si erano arresi avevano diritto ad un trattamento in conformità con tale status.

Dal momento che si trattava di processi militari, le esecuzioni dovevano essere ordinate dal presidente Abramo Lincoln.

303 esecuzioni costituivano un genocidio. Il presidente Lincoln perciò modificò i criteri di quali accuse giustificavano una condanna a morte. Secondo i suoi nuovi criteri, solo 2 dei guerrieri Dakota sarebbero stati condannati a morte. Quel numero sembrava troppo esiguo, e Abramo Lincoln era preoccupato per una rivolta dei coloni americani bianchi in quella zona. Quindi invece di ordinare nuovi processi, cambiò soltanto i criteri per infliggere la pena di morte. Alla fine, 38 uomini Dakota risultarono condannati a morte.

Il 26 dicembre 1862, per ordine del presidente Lincoln, e con migliaia di coloni americani bianchi a guardare, ebbe luogo la più grande esecuzione di massa nella storia degli Stati Uniti.

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Da un resoconto del New York Times delle impiccagioni:

Proprio al momento annunciato – alle 10 del mattino - una compagnia, senza armi, entrò negli alloggi dei prigionieri per scortarli fino al luogo dell’esecuzione. I condannati non offrirono resistenza e sembravano persino desiderosi di incontrare il loro destino. Si scontrarono l’uno contro l’altro, mentre si precipitavano fuori della porta, lanciando un guanto di sfida delle truppe, poi salirono i gradini della piattaforma preparata per le esecuzioni.

Ognuno prese la sua posizione come se avesse provato il programma. In piedi sulla piattaforma, formarono un quadrato. Ognuno era sotto il proprio cappio fatale. I loro berretti vennero abbassati sopra gli occhi, e il cappio stretto intorno al loro collo. Molti di loro sentendosi a disagio, fecero seri sforzi per allentare la corda, e alcuni ci riuscirono parzialmente.

Il segnale per compiere l’esecuzione era di 3 rulli di tamburo. Essendo tutte le cose pronte, fu battuto il primo rullo. I poveri disgraziati fecero sforzi frenetici per afferrarsi le mani l’un l’altro, che fu un'agonia vederli. Ognuno gridava il suo nome, perché i suoi compagni sapessero che era lì. Il 2° rullo risuonò. La vasta moltitudine degli spettatori rimase senza fiato in questa solenne occasione.

Ancora una volta il tocco doloroso ruppe la quiete della scena.

Clic! La piattaforma discendendo lasciò i corpi di 38 esseri umani penzolanti nell'aria. La maggior parte morì all'istante; alcuni lottarono violentemente. Una delle corde si ruppe e fece cadere il suo fardello con un pesante e sordo tonfo sulla piattaforma sottostante. Fu portata una nuova corda e il corpo fu messo di nuovo al suo posto.

Era uno spettacolo terribile da vedere. 38 esseri umani sospesi nell'aria, sulla riva del bellissimo fiume Minnesota; sopra, il cielo sorridente, limpido, blu; sotto e intorno, le migliaia di persone silenziose, messe a tacere in un silenzio mortale dalla scena agghiacciante davanti a loro, mentre le baionette alla luce del sole aggiungevano importanza all'occasione.

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(1) Native News Online è un giornale dei Nativi americani.

11) QUANDO VISITIAMO GESÙ IN PRIGIONE

 

Il nostro amico Antonio Landino ci propone una sua originale recensione del libro di Dale Recinella “Quando visitiamo Gesù in prigione”. Antonio scrive con impeto, e parla con cognizione di causa per aver vissuto sulla sua pelle la dura esperienza del carcere.

 

Ancora una volta, Dale Recinella supera se stesso. Anzi, Fratello Dale, così come lo chiamano i suoi assistiti. Con l’impeccabile e certosina traduzione di Maria Grazia Guaschino, ed edito da EDI, ci pregiamo di presentare Quando visitiamo Gesù in prigione, il cui titolo è già emblematico, ma nient’affatto usurpato (Matteo 25:36).

L’Autore – più che scrittore, in quanto Cronista – ci accompagna (in una sorta di full immersion) nei meandri della Conoscenza dell’Altro, alla ricerca – come un contemporaneo Diogene – di un barlume di Ecce Homo, teso all’ineluttabile certezza di una Fede che, purtroppo – dall’altra parte delle sbarre e sotto molti versi anche da questa – non giunge affatto palese, ma appare, si manifesta e si realizza, a volte, come un privilegio quasi indifendibile e conseguentemente trascurabile, con buona pace di chi ne è stato privato. Spaziando consapevolmente tra il mistico ed il laico, in un cognitivo Status Quo dove ormai tecnicamente nulla c’è da perdere ed altrettanto da guadagnare, egli ci appronta – con inappuntabili delucidazioni e deduzioni, con le sue consuete e mai dome propositive velleità e volenterose doti di umanità, generosità ed attenzione verso le altrui fragilità e necessità – un deciso ed estemporaneo confronto de visu in un Universo per lui non affatto misconosciuto, dove spesso il rifiuto ad emendarsi sorge spontaneo e la morte si profila ed appare come l’unico estremo traguardo raggiungibile. Elargisce, anzi regala tutto questo con discrezionalità e pazienza, senza alcun velato pessimismo di fondo, ma come una quieta, pacata ammissione.

Il fondo del viale è dietro il Confine. Reminiscenze, ricordi, rimpianti, affetto negato, scelte sbagliate e promesse mancate, permeate da un congruo sottofondo di autonullità esistenziale, con tutto un corollario di soprusi, angherie, vessazioni, umiliazioni, privazioni coatte. Evanescenti residui di un Passato che non concede alcuna tregua e che, se non proprio da comprendere, rimane perlomeno da esorcizzare... nel lasciarsi esistere, perché VIVERE è certamente un’altra storia. Eppure, forse qualcosa di recuperabile può essere ancora salvata, forse Il Passato non è stato del tutto completamente sbagliato, forse qualcuno può scrollarsi di dosso quel malcelato senso di colpa che lo opprime; forse, anche oltre ogni possibile mancata occasione di Redenzione nel cosiddetto “mondo libero”. Ed ecco

che prende Titolo e Forma il Cronista, ovviamente attingendo a piene mani nel fluttuante mercato delle Anime Perse... o presunte tali.

A Fratello Dale piace crederlo, parteciparne e scriverne e – leggendolo – non riusciamo a pensare che non piaccia anche a noi. Ci si imbarca, che ogni volta pare lo Stige, per provare a fornire un passaggio, in cerca di un approdo non del tutto impensato. Dove si va?

E’ un Viaggio duro, teso, cupo, a volte claustrofobico e che – in modo non affatto ridanciano – ci innesca e ci insinua nel sottobosco incandescente – ma paradossalmente spento – di chi si è visto stampigliare addosso una “data di scadenza”, come se fosse un genere di qualche genere non più rientrabile nel novero degli esseri umani, e che presto andrà a male. Con testimonianze dirette, opinioni illustri, didascalie mentali e citazioni dotte e corroboranti, la sua più che ventennale e sapiente Opera, che lo ha portato a dedicarsi praticamente senza sosta a tale Vocazione di volontariato tra le più sofferte e nascoste, ci illumina – tra il Sacro ed il profano – e ci conduce (quasi trascina) verso un baratro tetro, asfissiante, circumnavigandoci tra i brandeggianti miasmi e la foschia più avversa come un novello Caronte, per infine farci approdare al periplo e riemergere in Noi stessi, ben consapevole che tutti – prima o poi – torniamo a casa. La Casa del Padre.

Come un Diario di bordo – che non può e non deve mancare sul comodino degli addetti ai lavori, dei neofiti, dei volenterosi e di chiunque cerchi almeno qualche spunto su cui meditare – è consigliabile assumerlo in piccole dosi da centellinare, assaporare ed assimilare come essenziale promemoria. Un’autentica pietra miliare, unica nel suo genere.

Il fondo del viale, è dietro le imposte. Quando le chiudiamo, ci autocostruiamo le nostre sbarre mentali; ci barrichiamo “dentro” e ci incarceriamo dietro le nostre false sicurezze, nel nostro piccolo effimero quotidiano, nella pseudo-certezza di essere al riparo, al sicuro, quanto è vero che esiste un Dio che vede e provvede... ebbene, allora, siamo tutti prigionieri, relegati nell’Altrove. A volte ce ne illudiamo così tanto, che quasi lo crediamo davvero. Il Cronista, invece, lo sa per certo. Poiché c’è stato, c’è tornato e ci andrà ancora. DOVE?

In un piccolo posto indefinibile, che esiste in un preciso punto qualsiasi. Al di là del Muro.

Tutti noi potremmo malauguratamente precipitarci, magari esserne inglobati, entrare a farne parte e sbatterci contro la testa, dentro le classiche “quattro mura”; persino impantanarci dentro quell'abisso di espiazione, nell’abietta forzata imposta privazione di Qualcosa in cui Credere, di ciò che a volte si dubita che esista... quando si fa fatica a ricordare, a fronte di ogni limite da subire. Ma le incognite non hanno limiti. E – certamente e fortunatamente – neanche il Cronista, che ricerca e persegue da tempo domande e risposte, in un percorso estremo ma mai fuorviante, pensoso e che fa pensare. Con forza caparbia ed estrema lucidità, scansando deliberatamente la filosofia spicciola ed il senno di poi, al di là da qualsiasi apologia, scevro da ogni moralismo e qualunquismo di maniera, si presta e ci presta l’apodittica realtà del suo Modus Vivendi et Operandi... ed infatti ci invita – ancora una volta resi più edotti, complici e partecipi – al desco del nichilismo. Cos’altro dire?

Probabilmente, il miglior Fratello Dale di sempre.

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Quando visitiamo Gesù in prigione edito da EDI (Editrice Domenicana Italiana) può essere richiesto al Comitato Paul Rougeau versando i 16 euro più 1,28 euro per le spese di spedizione. Si può anche acquistare in libreria.

12) NOTIZIARIO

IRAN. Perseguitati i partecipanti ai funerali di Haidar Ghorbani. I servizi segreti iraniani hanno arrestato molte personalità curde che assistettero ai funerali del prigioniero politico Haidar Ghorbani messo a morte il 19 dicembre u. s. a Sanandaj (vedi articolo qui sopra). Tra di esse anche Hassan Ghorbani, fratello del giustiziato. I servizi segreti hanno inoltre sottoposto a interrogatori più di 150 persone nella città di Kamyaran per la stessa ragione. Si è saputo inoltre che è stato arrestato il teologo Mirza Mohammad Rahmani, che stigmatizzò l’esecuzione di Heidar Ghorbani durante il funerale.

 

IRAN. Un’esecuzione per ogni giorno dell’anno. Più di 365 detenuti sono stati messi a morte in Iran nel 2021 suscitando preoccupazioni per il peggioramento della situazione dei diritti umani nel paese dopo che Ebrahim Raisi è diventato presidente. Si ritiene inoltre che vi siano state molte altre esecuzioni portate a termine in segreto senza la presenza di pubblico. Almeno 131 esecuzioni sono conseguite a reati di droga, e almeno 182 esecuzioni hanno punito gli autori di omicidi. Almeno 16 donne sono state giustiziate. 12 prigionieri politici sono stati messi morte. Quattro dei condannati giustiziati erano minorenni al momento del crimine loro contestato.

 

 

Questo numero è aggiornato con le informazioni disponibili fino al 31 dicembre 2021

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