top of page

FOGLIO  DI COLLEGAMENTO  INTERNO

DEL COMITATO PAUL ROUGEAU

Numero 163  -  Settembre 2008

SOMMARIO:

 

1) Caro Fernando, vuoi essere il nostro corrispondente dal braccio?     

2) Kenneth Foster finalmente in regime di detenzione normale

3) Riprende la discussione sulla moratoria alle Nazioni Unite      

4) Troy Davis, probabile innocente, si salva in extremis, almeno per                     ora           

5) Una lettera di Troy Davis ai suoi sostenitori                                        

6) La Corte Suprema ribadisce la sentenza Kennedy v. Louisiana          

7) Il nostro amico Bill Coble di nuovo condannato a morte                     

8) Forse torturata una scienziata pakistana scomparsa per 5                              anni                       

9) Sistema informatico spionistico americano in crisi da                                        gigantismo                   

10) Richiesta di corrispondenza per Billy Galloway                       

11) Notiziario: Iran, Iraq, Italia, Maryland, Usa                             

 

 

1) CARO FERNANDO, VUOI ESSERE IL NOSTRO CORRISPONDENTE DAL BRACCIO?

 

Dopo la positiva svolta della vicenda di Kenneth Foster, il quale ha ricevuto la grazia dal Governatore del Texas il 30 agosto 2007 ed è stato trasferito in un carcere normale, il Comitato Paul Rougeau non aveva più un corrispondente privilegiato dal braccio della morte né un detenuto per così dire ‘adottato’ quale ideale successore di Paul Rougeau. A fine settembre abbiamo proposto a Fernando Eros Caro detenuto nel carcere di San Quentin in California di essere adottato come nostro nuovo corrispondente.

 

Numerosi articoli di questo Foglio di Collegamento sono stati scritti negli ultimi anni dal nostro caro amico Kenneth Foster che fu ‘adottato’ dal Comitato Paul Rougeau come corrispondente privilegiato dal braccio della morte nel dicembre del 2002.

Kenneth, per così dire, era l’ultimo successore di Paul Rougeau il quale, prima di essere ‘giustiziato’ dallo stato del Texas il 3 maggio del 1994, ci aveva chiesto di continuare la nostra opera in favore di altri condannati a morte.

Dopo Paul, fu il dolcissimo Joe Cannon a ricevere assistenza dal Comitato e poi, dal 1998 al 2000, il fiero ‘guerriero africano’ Gary Graham. 

Purtroppo le storie di Joe e di Gary finirono tragicamente come quella di Paul, con la loro esecuzione.   

Non così per fortuna la storia di Kenneth Foster che ha avuto una felice e quasi insperata svolta il 30 agosto 2007 quando Kenneth, a meno di sei ore del momento stabilito per ricevere l’iniezione letale, ha ricevuto la grazia dal governatore del Texas Rick Perry (v. n. 152).

Il provvedimento di clemenza ci ha privato del nostro corrispondente dal braccio della morte. Infatti Kenneth è stato trasferito in un carcere normale e non è stato più in grado, da un lato, di scrivere del ‘braccio’ e non ha avuto più bisognoso, dall’altro, di una speciale assistenza quale condannato alla pena capitale.

Per rispettare la volontà di Paul Rougeau, il Comitato si è messo alla ricerca di un altro condannato a morte da ‘adottare’. La ricerca è stata lunga e laboriosa. Non che mancassero detenuti bisognosi di assistenza, ma il prescelto doveva avere particolari requisiti per rendere fruttuosa l’adozione e la corrispondenza con lui.

Come abbiamo scritto nell’annuncio comparso nel n. 155, doveva essere una persona sincera, capace di stabilire un rapporto schietto con noi, un rapporto onesto e paritario. Doveva essere un prigioniero che sa osservare, elaborare e comunicare la propria esperienza e quella dei compagni di sventura. Ed anche un condannato con un caso ‘forte’ cioè con concrete possibilità di risoluzione positiva della sua vicenda giudiziaria, per il quale un eventuale aiuto economico per la difesa legale abbia una qualche proba­bilità di rivelarsi efficace.

Sono state avanzate da corrispondenti di detenuti del braccio della morte una decina di candidature. Nessuna di esse però corrispondeva ai requisiti da noi stabiliti.

Poi il nostro amico e formidabile compagno di lotta sul fronte abolizionista Marco Cinque ha discretamente candidato Fernando Eros Caro, nativo americano condannato a morte in California, suo amico fraterno. Fernando, in una lunga corrispondenza con Marco dal braccio della morte di San Quentin, si è rivelato una persona squisita nonché un pittore di grande talento (*).

Anche se ci è stato impossibile approfondire adeguatamente il caso giudiziario di Fernando Caro, ci fidiamo del suo avvocato Ron Perring che ci scrive: “Sì, Fernando mi ha detto che vi posso riferire sul suo caso. Ma per adesso, dal momento che il procedimento è in una fase molto delicata, non voglio che ‘trapeli’ nessuna informazione. Vi prego di essere pazienti e di ritenere che ciò sia nel suo migliore interesse, so che il suo interesse è la vostra più grande preoccupazione. Quando verrà il momento, sarò più che lieto di informarvi. Posso dire, comunque, che le cose stanno andando bene e che sono assai speranzoso di poter aiutare Fernando. Sono sicuro che lui vi ringrazia per il vostro interessamento”.

La seconda fase del processo per duplice omicidio cui fu sottoposto Fernando nel 1982 è stata annullata nel 2000 per motivi procedurali. Pertanto la sua condanna a morte per il momento è nulla e l’accusa ha chiesto la ripetizione della fase processuale di punishment per ripristinarla. Fernando sostiene che la sua vicenda giudiziaria sta attraversando una fase cruciale in cui lui potrebbe addirittura conseguire il completo proscioglimento dalle accuse.

Il Consiglio direttivo del Comitato, ritenendo all’unanimità che la candidatura di Fernando fosse la più fondata tra quelle avanzate, ha deciso di rompere gli indugi dopo oltre un anno di riflessione e il 27 settembre ha proposto a Fernando l’adozione da parte del Comitato quale corrispondente dal braccio della morte. Pertanto Grazia Guaschino gli ha scritto una lettera di cui riportiamo qui appresso un’ampia sintesi. Nel prossimo bollettino vi daremo conto della risposta di Fernando.

“Caro Fernando, mi chiamo Grazia Guaschino, e faccio parte del direttivo del Comitato Paul Rougeau, un’organizzazione abolizionista italiana senza scopo di lucro. Vivo a Torino. Sono una buona amica di Marco Cinque, che tu conosci molto bene. Adoro i tuoi disegni, che Marco ha fatto pubblicare in Italia su svariati libri! La nostra organizzazione si batte per l’abolizione della pena di morte, in particolare negli USA, [...] Pubblichiamo un bollettino mensile, che viene inviato a tutti i nostri soci e simpatizzanti, sia attraverso una mailing list in Internet che per posta. Viene letto da circa 350 persone. In questo bollettino scriviamo articoli sulle problematiche della pena capitale e aggiorniamo i nostri lettori sulla pena di morte negli USA. Fino all’anno scorso pubblicavamo anche lettere scritte da Kenneth Foster, un condannato a morte in Texas, che aveva accettato di scrivere per noi degli articoli, in modo da costituire una voce dall’interno del braccio della morte. In questi articoli lui ci dava una visuale della sua vita laggiù e in generale delle condizioni di vita nel braccio della morte; scriveva anche dei suoi sentimenti e dei sentimenti di alcuni suoi compagni di prigionia. Nell’agosto 2007 fortunatamente Kenneth fu risparmiato, perché la sua condanna a morte fu commutata. Egli è rimasto nostro amico, ma naturalmente fu spostato in un’altra città e in un altro carcere, non è più un condannato a morte e non può più scrivere articoli per noi. Abbiamo allora cominciato a pensare a un nuovo detenuto da scegliere quale nostro corrispondente, e dopo lunghe meditazioni, anche a causa della nostra amicizia con Marco Cinque, abbiamo deciso che TU potresti divenire il nostro nuovo corrispondente. Ti piacerebbe fare ciò? Dovresti scrivermi ogni tanto, se possibile una volta al mese, un articolo. Io tradurrei i tuoi scritti in italiano ed essi verrebbero pubblicati sul nostro bollettino. Naturalmente ti spediremmo una copia del bollettino stesso. In cambio della tua amicizia e della tua collaborazione, ti aiuteremmo a portare avanti la tua battaglia per la libertà e per la vita anche con l’impiego di alcuni fondi raccolti tra i nostri soci e simpatizzanti. Non possiamo prometterti grossi aiuti finanziari, perché il nostro gruppo è molto piccolo, ma […] cercheremmo di restare in contatto con il tuo avvocato nel tentativo ci essere d’aiuto in alcune fasi del tuo iter giudiziario. Soprattutto, noi potremmo pubblicizzare le numerose e forti iniziative che organizza Marco Cinque in tuo favore. Marco potrà confermarti che siamo un gruppo serio ed impegnato e che facciamo del nostro meglio per aiutare i nostri amici in difficoltà. Per favore fammi sapere che  cosa decidi. […] ”

________________________

(*) V.  http://vids.myspace.com/index.cfm?fuseaction=vids.individual&VideoID=41639965

 

 

2) KENNETH FOSTER FINALMENTE IN REGIME DI DETENZIONE NORMALE

 

Adam Weiss, amico e corrispondente di Kenneth Foster, nel messaggio che riportiamo qui sotto, annuncia che per la prima volta, dopo 12 anni e dopo l’inferno del braccio della morte, Kenneth è stato tolto dall’isolamento. Egli si trova nella McConnell Unit di Beeville in Texas in cui fu trasferito a fine agosto 2007, subito dopo la commutazione della sua condanna a morte da parte del governatore Perry.

 

6 settembre. Negli ultimi 12 anni Kenneth Foster è stato confinato nella sua cella per almeno 22 ore al giorno, prima in isolamento nel braccio della morte per 11 anni e poi, per un altro anno, segregato nella sezione più restrittiva disponibile nella McConnell Unit. Sono felice di annunciare che finalmente, dopo un anno dalla commutazione della sua condanna a morte, gli è stato assegnato il livello G2 e posto nel regime normale dell’Unità. Gli sono consentite FINALMENTE visite a contatto e ha avuto la prima di esse oggi con sua nonna. Il nonno di Kenneth mi ha detto che le espressioni di gioia di Kenneth sono state indescrivibili. Kenneth ha inoltre un incarico e lavora nelle cucine. Vi manderò altri particolari quando li conoscerò. I migliori saluti a tutti da Adam

 

 

3) RIPRENDE LA DISCUSSIONE SULLA MORATORIA ALLE NAZIONI UNITE

 

Dopo la Risoluzione sulla moratoria della pena di morte approvata all’ONU il 18 dicembre del 2007, la questione della moratoria verrà certamente sollevata di nuovo durante la 63-esima sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite in corso a New York. Vi è il pericolo di un’acutizzazione della spaccatura tra paesi abolizionisti e paesi mantenitori della pena capitale che potrebbe restringere le possibilità di dialogo, ritardando il cammino abolizionista.

 

La famosa Risoluzione sulla moratoria della pena di morte approvata in seduta plenaria dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite alla fine della 62-esima sessione dell’Assemblea, il 18 dicembre 2007, costituisce un passaggio molto significativo a livello di principio lungo la strada che porta all’abolizione della pena capitale. Essa tuttavia potrà dare i suoi frutti positivi nella pratica soltanto se accompagnata da un lavoro intenso e discreto di persuasione nei riguardi dei paesi che mantengono la pena di morte.

Non sono mancati molteplici e forti segnali di ostilità dei paesi mantenitori nei riguardi dell’iniziativa per la moratoria. Se qualcuno poteva ancora nutrire dubbi in proposito, a dissolverli ha provveduto un documento inviato da 58 paesi mantenitori al Segretario dell’ONU all’inizio dell’anno, in cui si respinge ai mittenti la Risoluzione del 18 dicembre 2007 e si promette battaglia nelle successive sessioni dell’Assemblea Generale (v. n. 157).

La presenza di una così acuta e profonda spaccatura tra paesi rende dunque quanto mai necessaria un’azione di recupero e ricucitura.

Vedremo che cosa accadrà nella 63-esima sessione che si è appena aperta, preceduta da un Rapporto del Segretario Generale dell’ONU sull’implementazione della Risoluzione del 18 dicembre 2007, il quale, pur rilevando la prosecuzione del trend abolizionista in atto da decenni, non riesce ad accreditare alcuna ricaduta positiva nella pratica della Risoluzione in quanto tale (*).

Il Rapporto fa una panoramica sull’uso della pena nel mondo e fornisce dati statistici in merito sia riguardo ai paesi mantenitori che a quelli abolizionisti, esamina in particolare le moratorie in atto e gli sviluppi del fenomeno verificatisi dopo la 62-esima sessione. Rileva che non si vi è stata in nessun caso la reintroduzione della pena di morte in paesi che l’avevano abolita. Per contro i passi degli stati verso l’abolizione sono stati piuttosto limitati in confronto a quanto accade solitamente nel corso di un anno:  un solo paese, l’Uzbekistan, ha abolito la pena di morte per tutti i reati. Passi positivi verso l’abolizione o avverso il ripristino della pena capitale, o nel consolidamento della legislazione abolizionista interna o internazionale sono avvenuti in: Honduras, Federazione Russa, Polonia, Lettonia, Cile, Cuba, Guatemala, Trinidad e Tobago.

Il Rapporto fa cenno seccamente in poche righe, come ad una nota stridente, al documento dei 58 stati che chiedono di mettere a verbale la loro “persistente obiezione riguardo ad ogni tentativo di imporre una moratoria nell’uso della pena di morte o la sua abolizione in contraddizione con gli accordi esistenti sotto la legge internazionale” (v. n. 157).

Nell’ultimo capitolo intitolato “Conclusioni”, Ban Ki-moon sottolinea “la tendenza consolidata e da lungo tempo in atto verso l’abolizione universale della pena di morte già rilevata nei precedenti rapporti del Segretario Generale ai Comitati ONU per gli Affari Sociali ed Economici e per i Diritti Umani” e dichiara “che stabilire una moratoria nell’applicazione della pena di morte è il passo essenziale verso la definitiva abolizione per legge di tale forma di punizione.”

Il rapporto termina con le parole: “Anche se persistono differenze tra gli Stati membri riguardo all’ammissibilità dell’uso della pena di morte, […] un ulteriore lavoro può essere utilmente fatto riguardo alle specifiche restrizioni nell’uso della pena capitale, come la proibizione dell’esecuzione di determinate categorie di persone o la proibizione della tortura o di altri trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti nell’applicazione della pena di morte, e anche sulle condizioni di detenzione nei bracci della morte.”

Il rapporto di Ban Ki-moon, dunque, non fa che ribadire la posizione prevalente delle Nazioni Unite sulla pena di morte negli ultimi decenni, indicando le modalità tradizionali della pressione abolizionista. Sarebbe stato pressoché identico se non ci fosse stata la risoluzione per la moratoria.

La scarsa incidenza nella pratica della risoluzione per la moratoria potrebbe essere seguita da gravi errori di strategia del fronte abolizionista.

Notizie circolate negli ultimi giorni riguardano una progettata iniziativa dell’Unione Europea per far approvare di nuovo una risoluzione sulla moratoria nella corrente 63-esima sessione dell’Assemblea Generale dell’ONU. Ci si proporrebbe di ottenere una maggioranza di 110 paesi a favore invece che di 104 come è avvenuto nel 2007.

A noi questa iniziativa sembra rischiosa e inopportuna. Rischiosa perché se per caso non aumentasse il numero di voti a favore (o addirittura diminuisse) si tratterebbe di uno scacco del fronte abolizionista che indebolirebbe il significato della precedente risoluzione. Inopportuna perché l’eventuale aumento di qualche punto percentuale della maggioranza a favore della risoluzione non ne cambierebbe sostanzial­mente la portata ma accrescerebbe l’irritazione e l’ostilità dei paesi mantenitori restringendo i già limi­tati spazi di dialogo sul tema e, in definitiva, allontanando l’abolizione universale della pena di morte.

____________________

(*) Ricordiamo che la Risoluzione sulla moratoria adottata nella 62-esima sessione, al paragrafo 4, impegna il Segretario Generale dell’ONU a monitorare l’applicazione della medesima risoluzione ed a  riferire in merito nel corso della 63-esima sessione programmata per l’autunno del 2008. In settembre, poco prima dell’inizio della 63-esima sessione è stato pertanto diffuso un rapporto di 18 pagine del Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon sulle “Moratorie nell’uso della pena di morte” (datato 15 agosto 2008).

 

 

4) TROY DAVIS, PROBABILE INNOCENTE, SI SALVA IN EXTREMIS, ALMENO PER ORA

 

Soltanto l’ultima opzione, un intervento della Corte Suprema degli Stati Uniti, ha evitato in extremis che Troy Anthony Davis subisse l’iniezione letale il 23 settembre. Si era palesata una radicale difformità di vedute tra i sostenitori del condannato, che propendono per la sua innocenza, e l’apparato dello stato della Georgia assolutamente convinto della giustezza della sua esecuzione. L’esecuzione è sospesa in attesa di sapere se la Corte Suprema vorrà esaminare il suo ricorso. In caso affermativo, la vita di Troy Davis rimarrà appesa al tenue filo di speranza che la decisione della corte sia favorevole per lui. 

 

Il caso di Troy Anthony Davis, afro-americano condannato a morte in Georgia, si è sgretolato per la dissoluzione delle prove testimoniali che furono usate contro di lui nel processo del 1991 (v. nn. 151, 152,  Notiziario, 154, Notiziario, 155, 158). Tuttavia, dopo essere arrivato molto vicino all’esecuzione il 16 luglio 2007, egli vi è giunto di nuovo il 23 settembre scorso e le speranze che egli scampi l’iniezione letale sono assai tenui.

Per salvare Davis Amnesty International USA si è mobilitata allo spasimo, sollecitando l’impegno degli abolizionisti negli Stati Uniti e in tutto il mondo. Anche noi ci siamo più volte mobilitati in suo favore, l’ultima volta il 16 settembre.

Amnesty ha reso noto che per chiedere clemenza per Troy Davis si sono attivate 100 mila persone con  lettere e petizioni. Il Consiglio d’Europa, il Parlamento Europeo, note personalità e autorità morali di tutto il mondo sono intervenuti per chiedere la commutazione della sentenza di morte, tra di essi il Papa, l’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu, l’ex presidente Jimmy Carter, il reverendo Al Sharpton, noto attivista per i diritti civili dei Neri.

Il 17 marzo la Corte Suprema della Georgia aveva respinto a stretta maggioranza il ricorso di Troy Davis pendente da quasi un anno (v. n. 158). Il 3 settembre Amnesty International USA ha parlato di un ‘terrificante sfoggio di ingiustizia’ quando l’Attorney General (Ministro della Giustizia) della Georgia ha firmato l’ordine di esecuzione di Troy Davis nonostante il fatto che vi fossero ancora dei ricorsi in sospeso e che rimanessero forti dubbi sulla sua  colpevolezza. L’esecuzione doveva avvenire tra il 23 e il 30 settembre. Essa è stata poi fissata per le 7 di sera del giorno 23.

Contestualmente Amnesty ha dichiarato che, dal momento che Troy Davis non ha avuto modo di fruire della giustizia di cui ha diritto, stava al Board of Pardons and Paroles (Commissione per le Grazie) della Georgia prevenire l’ingiusta esecuzione del condannato.

Il giorno 12 la Commissione per le Grazie formata da cinque membri ha tenuto un’accurata udienza sul caso di Davis, ascoltando di nuovo i testimoni a carico, gli avvocati difensori e i testimoni indicati da loro, lo stesso Davis e i parenti dell’agente Mark Allen MacPhail, asserita vittima di Davis.  Già il 16 luglio del 2007 la stessa commissione aveva tenuto un’udienza sul caso e al termine di essa aveva sospeso per 90 giorni l’esecuzione del condannato che era stata fissata per il giorno seguente. La ragione allora addotta per la sospensione era la necessità di esaminare in maniera più approfondita i testimoni inizialmente a carico che hanno cambiato la loro versione.

La Commissione, che non è tenuta a fornire informazioni sul proprio lavoro né le motivazioni delle sue decisioni, al termine dell’udienza del 12 settembre ha rigettato la richiesta di clemenza del condannato.

Nonostante ciò gli sforzi di Amnesty International Usa e dagli abolizionisti di tutto il mondo si sono di nuovo concentrati sulla Commissione per le Grazie, chiedendole di ritornare sulla decisione presa.

La mattina di lunedì 22, vigilia dell’esecuzione, mentre era in corso una conferenza stampa a sostegno di Davis, la Commissione per le Grazie, per bocca della portavoce Scheree Lipscomb, ha fatto sapere che non intendeva cambiare la decisione già presa. Costei ha dichiarato che la revisione del caso di Davis da parte del Bord è durata più di un anno con l’ascolto dei testimoni presentati dalla difesa, il controllo delle prove e l’ascolto del medesimo Davis.

“Dopo un’esaustiva revisione di tutte le informazioni disponibili sul caso di Troy Davis e dopo aver considerato tutte le possibili ragioni per concedere clemenza, il Board ha deciso che la clemenza non deve essere data,” ha dichiarato la Lipscomb aggiungendo che il Board non commenta i casi capitali ma che è stata fatta un’eccezione perché il caso in questione ha ricevuto una “tale estesa pubblicità.”

Insomma via via si è instaurata e palesata una radicale difformità di vedute tra i sostenitori di Davis e l’apparato dello stato della Georgia perfettamente convinto della giustezza della sua esecuzione.

Anche i parenti del poliziotto Mark Allen MacPhail che fu ucciso a Savannah nel 1986 si sono detti sicuri della colpevolezza del condannato. La madre di MacPhail, che ora ha 74 anni, ha dichiarato di essere “disgustata” dal dilagare del supporto per Davis. “Per me è lacerante vedere il nome di mio figlio trascinato nel fango a causa di tutto questo.”  Anneliese MacPhail ha affermato di non aver nessun dubbio sulla colpevolezza di Davis, aggiungendo: “Spero che martedì sia tutto finito e che io possa trovare un po’ di pace”.

Anche la Corte Suprema della Georgia lo stesso giorno ha rifiutato un ricorso di Troy Davis (così come aveva fatto il 17 marzo scorso). Rimaneva solo una tenue speranza: un ricorso pendente alla Corte Suprema degli Stati Uniti.

Una risposta della massima corte non arriva che due ore prima del momento stabilito per l’esecuzione: viene accordata una sospensione dell’esecuzione in attesa della decisione di esaminare o meno il ricorso di  Davis.

Si precisa che la sospensione decadrà automaticamente se la corte deciderà di non esaminare il ricorso, se invece la corte esaminerà il ricorso la sospensione rimarrà in effetto finché il caso non sarà stato deciso. Si prevede che la corte decida se esaminare o meno il ricorso il successivo lunedì 29. Ma il 29 settembre non accade nulla.

Il 23 settembre, quando è giunto l’ordine di sospensione dalla Corte Suprema federale, Troy Davis aveva già dato l’ultimo addio a 25 tra parenti e amici che erano venuti a visitarlo. Aveva rifiutato un pasto speciale ma non aveva consumato neanche il vitto normale della prigione. Aveva subito un’ispezione fisica e aveva avuto il permesso di fare una doccia. Gli avrebbero offerto un sedativo un’ora a prima dell’esecuzione.

Si aspettavano due pullman di dimostranti a favore di Troy Davis nell’area appositamente riservata ad una certa distanza dalla Prigione Diagnostica e di Classificazione della Georgia dove doveva avvenire l’esecuzione. Manifestazioni erano state indette in concomitanza dell’esecuzione in nove città della Georgia.  Una protesta specifica era stata fatta nei riguardi del Rainbow Medical Associate, l’azienda sanitaria privata che provvede allo Stato due infermieri e due medici in occasione delle esecuzioni, in violazione dell’etica medica. L’azienda riceve un compenso di 4.000 dollari se l’esecuzione procede regolarmente, 6.000  se l’esecuzione ritarda per più di due ore. Dal momento che l’esecuzione di Davis non ha avuto luogo, il 23 settembre la Rainbow Medical ha lucrato solo 2.000 dollari.

Grande è stata la gioia del condannato, di sua sorella Martina Correia e di tutti i suoi sostenitori per l’intervento della Corte Suprema. Ma la vita di Troy Davis rimane attaccata ad un filo: in qualunque momento può arrivare la comunicazione che la Corte Suprema non intende rivedere ulteriormente il suo caso consentendo la sua esecuzione.

Il 30 settembre la Corte Suprema federale non ha ancora fatto sapere niente in merito alla decisione di esaminare o meno il ricorso pendente di Troy Davis. L’attesa e l’ansia si fanno spasmodiche.

L’applicazione pura e semplice delle leggi federali e statali e dei precedenti della Corte Suprema non fornisce una solida base alla speranza in un pronunciamento favorevole per Troy Davis. In particolare l’Atto Antiterrorismo e per il Rafforzamento dell’Efficacia della pena di Morte approvato dal Congresso sotto la presidenza Clinton nel 1996 impedisce di accogliere successivi appelli di habeas corpus a livello federale e la famosa sentenza Herrera v. Collins del 1993 (v. n. 148) stabilisce che nuove prove di innocenza emerse dopo il processo non costituiscono di per sé un motivo sufficiente per annullare una sentenza capitale o fermare un’esecuzione (suggerendo che in questi casi un rimedio potrebbe semmai consistere nella concessione della grazia da parte del potere esecutivo.)

5) UNA LETTERA DI TROY DAVIS AI SUOI SOSTERNITORI

 

Pubblichiamo volentieri una lettera scritta da Troy Davis ai suoi sostenitori subito dopo la sospensione dell’esecuzione ordinata dalla Corte Suprema federale il 23 settembre con sole due ore di anticipo sul momento fissato per l’iniezione letale. Ovviamente la gratitudine di Troy va anche ai numerosi soci e simpatizzanti del Comitato che hanno partecipato agli appelli in suo favore.

 

Voglio ringraziare tutti voi per i vostri sforzi e per la vostra dedizione alla bontà dell’uomo e ai diritti umani. Da un anno a questa parte ho provato tante e tali emozioni, gioia, tristezza, e fiducia senza limite. E’ grazie a tutti voi se oggi sono vivo. Guardo mia sorella Martina e sono meravigliato dell’amore che lei prova per me e naturalmente mi preoccupo per lei e per la sua salute, ma lei mi dice che è la sorella maggiore e che non si tirerà indietro dalla lotta per salvarmi la vita e per provare al mondo che sono innocente del tremendo crimine che mi è stato attribuito.

Vedo la posta che mi arriva da tutto il mondo, da luoghi che non avrei mai sognato di conoscere, da persone che parlano lingue e manifestano culture e religioni che potevo a malapena sperare di conoscere un giorno. Sono sopraffatto dalle emozioni che riempiono il mio cuore di gioia traboccante e travolgente.

Non posso rispondere a tutte le vostre lettere, ma le leggo tutte, non posso vedervi tutti ma posso immaginare i vostri volti, non posso sentirvi parlare ma le vostre lettere mi conducono negli angoli remoti del mondo, non posso toccarvi fisicamente ma posso sentire il vostro calore in ogni giorno della mia vita.

Perciò grazie, e ricordate che mi trovo in un luogo in cui l’esecuzione può solo distruggere la mia componete materiale; ho fede in Dio, nella mia famiglia e in tutti voi e, grazie a ciò, da un po’ di tempo mi sento libero; qualsiasi cosa accada in un futuro prossimo o più lontano, occorre accelerare il Movimento per porre fine alla pena di morte, per cercare la vera giustizia, per denunciare un sistema che non è in grado di proteggere l’innocente.

Ci sono ancora così tanti Troy Davis! La lotta per porre fine alla pena di morte non è vinta o persa a causa mia, ma in virtù della nostra forza di andare avanti e di salvare ogni persona innocente in prigionia in qualsiasi parte del mondo. Dobbiamo smantellare questo sistema ingiusto in ogni città, in ogni stato e in ogni paese.

Non vedo l’ora di battermi al vostro fianco, non importa se sarò presente fisicamente o in spirito, un giorno annuncerò: “MI CHIAMO TROY DAVIS e SONO LIBERO!”

Non smettete mai di lottare per la giustizia e vinceremo!     Troy Davis

 

 

6) LA CORTE SUPREMA RIBADISCE LA SENTENZA KENNEDY V. LOUISIANA

 

Pubblichiamo un brillante articolo di Claudio Giusti per dar conto della felice conclusione della polemica e delle azioni legali causate dalla sentenza della Corte Suprema USA del 25 giugno che proibisce la pena di morte per lo stupro dei bambini (v. n. 162).

 

Il 25 giugno scorso la Corte Suprema degli Stati Uniti (Scotus), con la sentenza Kennedy v. Louisiana, ha ribadito la sua trentennale politica che prevede la pena di morte solo per l’omicidio aggravato.

Il 1° ottobre la medesima corte ha confermato la propria decisione respingendo un’istanza di riaudizione avanzata dalla Louisiana e confermando che la pena di morte è sproporzionata per ogni crimine contro l’individuo nel quale la vittima non viene uccisa. La Scotus ha solo leggermente modificato le opinioni sia di maggioranza che di minoranza includendovi un riferimento al Codice Penale Militare che originariamente mancava.

Ricordiamo che la causa riguardava la legge della Louisiana (1995) che comminava la pena capitale per il reato di stupro di un minore di dodici anni ed era facile prevederne l’esito (anche se non ci si aspettava una misera maggioranza di 5 a 4) perché già nel 1977, con Coker v. Georgia, la Corte Suprema aveva deciso, basandosi sulla dottrina dell’evolving standard of decency, che lo stupro non può essere un reato capitale.

Già allora secondo la Corte la pena di morte, privilegio dei neri del Sud (*), era sproporzionata al delitto e un chiaro invito a trasformarlo in omicidio (punito allo stesso modo). Per noi abolizionisti è inoltre evidente che per tali reati aumenta a dismisura l’arbitrarietà della pena di morte, perché è già impossibile stabilire, pur in presenza di un fatto obbiettivo come un cadavere, quale omicidio sia capitale.

Possiamo affermare che la legge della Louisiana (e quelle dei cinque stati che l’hanno seguita) è dettata dalla moda della lotta alla pedofilia e dal desiderio di puntellare le sorti di una sempre più traballante pena capitale. Non per nulla sono passati vent’anni prima che qualcuno si preoccupasse della sorte dei bambini americani e più di quaranta dall’ultima esecuzione per stupro non seguito da omicidio.

La sentenza Kennedy ha causato le furiose doglianze dei forcaioli e l’imbarazzato commento del candidato democratico alla presidenza Barak Obama che ha borbottato qualcosa su di una legge “well crafted” (da un giurista ci si attendeva ben altro che la richiesta di una legge ‘ben scritta’). La polemica sarebbe terminata con una serie di mugugni (come per Atkins e Roper), se non fosse stato per un blogger che ha fatto notare come Congresso e Presidente abbiano, nel 2006, prodotto una nuova versione del Codice Penale Militare in cui è prevista la pena di morte per lo stupro di un minore. Linda Greenhouse ha riportato la notizie sul New York Times e si è scatenata una furiosa diatriba il cui succo è che la Scotus non si può permettere di decidere “evolving standard of decency” diversi da quelli del Congresso.

Si è chiesto a gran voce un rehearing (riaudizione) della causa e, lo scorso 8 settembre, la Scotus ha preso l’inusuale decisione di consentire agli Stati e al Governo federale la presentazione di nuove memorie legali sull’argomento.

Ma le speranze forcaiole sono state mal riposte.

In effetti nessuno dei partecipanti alla prima discussione si è degnato di citare anche solo di sfuggita l‘Uniform Code of Military Justice (UCMJ). Non l’hanno fatto né i favorevoli alla legge né i contrari, come del resto non lo ha fatto il giudice della Corte Suprema Alito nella sua dissenting opinion.

La ragione sta nel fatto che, da quando con Trop v. Dulles (1958) la Scotus decise che l’interpretazione dell’Ottavo Emendamento della Costituzione (**) non poteva essere letterale, ma collegata all’“evolving standard of decency that marked the progress of a maturing society”, non è mai accaduto che qualcuno citasse il Codice Penale Militare. 

Nelle 27 opinioni, che hanno preceduto la sentenza Kennedy, in cui la Corte Suprema ha utilizzato l’evolving standard of decency, l’UCMJ non esiste. Non è citato nemmeno in Coker, quando lo stupro di una donna era un reato capitale per il diritto militare e tale è rimasto, per trent’anni, fino al 2006, quando è stato sostituito proprio dalla disposizione che oggi si è cercato di utilizzare come grimaldello per l’allargamento dell’utilizzo della pena capitale.

The whole stuff was a complete waste of time

Claudio Giusti

____________________________________

(*) Dal 1930 (primo anno di statistica federale) al 1967 ci sono state 3.859 esecuzioni. Il decennio peggiore è stato il primo, con 1.676 esecuzioni di cui 199 nel solo 1935. I neri erano il 54% del totale e il 90% dei 455 uccisi per stupro (97% al Sud).

(**) Che proibisce le pene crudeli e inusuali.

 

 

7) IL NOSTRO AMICO BILL COBLE DI NUOVO CONDANNATO A MORTE

 

Billie Wayne Coble, seguito da alcune socie del Comitato, è da 18 anni nel braccio della morte del Texas. Ha avuto l’eccezionale fortuna di vedersi annullare nel 2007 la fase di punishment del processo capitale cui fu sottoposto nel 1990. Tuttavia ciò non è bastato a questo veterano del Vietnam di limitate capacità mentali per scampare dal braccio della morte. Rapidamente riprocessato, Coble è stato ancora condannato a morte e questa volta secondo le nuove procedure a prova di intervento da parte delle corti federali.

 

Bill Coble è seguito da alcune socie del Comitato Paul Rougeau e particolarmente dalle sorelle Laura e Stefania Silvia che hanno aggiustato, tradotto e fatto pubblicare alcuni suoi articoli in questo Foglio di Collegamento (v. nn.141, 149, 150), articoli vivaci e molto ingenui che denotano altresì un precario stato mentale dell’autore.

Veterano del Vietnam, Billie Wayne Coble, che ora ha 59 anni, nel 1989 compì una strage uccidendo gli ex suoceri Robert e Zelda Vicha e il loro figlio Bobby, un poliziotto. Rapì quindi la ex moglie Karen e fuggì con lei in auto inseguito dalla polizia, concludendo la folle corsa con un grave incidente.

Stefania e Laura si sono mobilitate in favore di Bill quando fu fissata la sua esecuzione per il 30 agosto 2006. Quella volta l’esecuzione fu sospesa e lui scampò l’iniezione letale. Un anno dopo, il 14 agosto del 2007, giovandosi di una sentenza emessa nel frattempo dalla Corte Suprema federale, Coble ottenne l’annullamento della condanna a morte ricevuta nella fase di punishment (*) del processo del 1990 in quanto le procedure allora in vigore in Texas non consentivano alla giuria di valutare adeguatamente le attenuanti che possono evitare una sentenza di morte (v. n. 152).

L’entità della strage compita da Coble unita al fatto che una delle sue vittime era un poliziotto, lasciavano però temere che a breve venisse ripetuta la fase di punishment del processo e che l’accusa si impegnasse al massimo per ottenere una nuova condanna a morte per lui.

Così è stato. Nonostante la preoccupazione e l’impegno degli amici del detenuto (le sorelle Silva si sono perfino premurate dell’acquisto di un vestito nuovo per il processo) e degli avvocati difensori, Alex Calhoun e Russ Hunt Jr., dopo otto giorni di testimonianze il 4 settembre la giuria ha discusso il tempo minimo necessario per emettere una nuova sentenza di morte per Bill!

La procedura ora in vigore nella fase di punishment del processo capitale in Texas, inattaccabile da parte delle corti federali, prevede che la giuria debba rispondere a tre domande: 1) se il delitto fu deliberato, 2) se il colpevole costituisce una continua minaccia per la società e 3) se vi sono sufficienti attenuanti per infliggere l’ergastolo senza possibilità di uscita sulla parola invece della pena di morte.

L’assurdità stessa del delitto compiuto da Bill Coble dimostra un alterato stato mentale e una carica di passionalità tali da costituire un’attenuante del suo comportamento, ma purtroppo il processo si è svolto in Texas e nello stato più forcaiolo del mondo certi argomenti non possono essere compresi.

La difesa di Coble si è sforzata invece di dimostrare che il prigioniero si è ravveduto nel corso della lunga detenzione e non è più una minaccia per la società. Lo ha fatto chiamando a testimoniare quattro detenuti od ex detenuti del braccio della morte e in particolare tale Martin Draughon, ex condannato a morte suo compagno di prigionia per molti anni.

Draughon ha detto che Bill  ha lavorato con lui al giornale del carcere, era servizievole e benvoluto da tutti nel braccio della morte e dimostrava di essere una persona pacifica.

L’accusa ha avuto buon gioco nello screditare agli occhi della giuria i testimoni, condotti in aula nelle divise carcerarie con i polsi e le caviglie incatenate, facendogli dichiarare i motivi delle loro condanne.

In favore di Bill Coble ha anche testimoniato suo figlio Gordon Wayne, costui ha ricordato che il padre si mostrava affettuoso e cameratesco con lui e non lo picchiava come invece fecero i patrigni. Durante la testimonianza del figlio, Bill, fino ad allora impassibile, si è commosso profondamente, sì da causare una breve interruzione del processo.

Dal canto suo l’accusa ha portato due dozzine di testimoni ben imbeccati che hanno dipinto con veemenza l’imputato come una persona sgradevole, un guardone, un molestatore e un violento.

La sorte dell’imputato è stata suggellata dalle testimonianze di due ‘esperti’.

Il dottor Richard E. Coons, psichiatra forense, ha dichiarato che Coble è un ‘sociopatico’ che rimane violento.

La parola ‘sociopatico’ è quella che suggella la sorte di innumerevoli condannati a morte: nel gergo texano suona in pratica come l’attestazione ‘scientifica’ che una persona è intrinsecamente perversa e quindi irrecuperabile, che costituisce quindi inesorabilmente una continua minaccia per la società.

Invano gli avvocati difensori Calhoun e Hunt hanno tentato vigorosamente di impedire la testimonianza di Coons, contestando le credenziali del dottore e la sua capacità di predire il futuro.

L’anziano psichiatra Ralph Hodges, che ha vantato in aula ben 51 anni di esperienza professionale, ha affermato di conoscere Bill Coble fin da quando era un ragazzo, di averlo visitato a 15 anni di età quando era ricoverato in istituto insieme ad un fratello e ad una sorella; il dottore avrebbe rilevato che Bill già a quell’età dimostrava una personalità ‘sociopatica’ con ‘prognosi non buona a lungo termine’. 

____________________  

(*) Quella in cui la giuria sceglie tra la condanna a morte e la massima pena detentiva.

 

 

8) FORSE TORTURATA UNA SCIENZIATA PAKISTANA SCOMPARSA PER 5 ANNI

 

Aafia Siddiqui è una ricercatrice pakistana di scienze del comportamento vissuta a lungo negli USA, sospetta di legami con i vertici di al-Qaeda. Dopo essere scomparsa per cinque anni è stata ‘ritrovata’ il 17 luglio in Afghanistan ed a partire dal 4 settembre è sotto processo a New York per tentato omicidio. Le sue pessime condizioni psichiche rendono plausibili i sospetti della sua avvocatessa che ritiene che essa sia stata imprigionata in segreto e torturata. Suo figlio di 11 anni è ancora sotto interrogatorio in prigione in Afghanistan.

 

Aafia Siddiqui, scomparsa nel marzo del 2003 dalla casa dei genitori a Karachi insieme ai suoi tre figli di pochi anni, è stata ritrovata in Afghanistan in seguito ad una segnalazione anonima il 17 luglio scorso. Era assieme al figlio più grande che ora ha 11 anni. Sospetta di legami con i vertici di al-Qaeda è stata subito arrestata dalla polizia afgana e messa a disposizione degli Americani.

Secondo la versione del governo USA, quando soldati statunitensi e agenti dell’FBI sono andati ad interrogarla,  la donna avrebbe preso un fucile ai militari e avrebbe fatto fuoco, senza ferire nessuno ma rimanendo ferita all’addome da due colpi sparati in risposta da un Americano. 

Ora è sotto processo in una corte di New York per la sparatoria (non sono state mosse contro di lei accuse di terrorismo, almeno per ora). I dubbi sollevati dal racconto abbastanza strano delle circostanze del suo ferimento si sommano ai più forti dubbi che sollevano le dichiarazioni del governo americano di non aver saputo mai nulla di lei negli ultimi cinque anni fino al 17 luglio scorso.

Il Washington Post riporta che il 4 settembre si è tenuta un’udienza davanti al giudice distrettuale federale Richard M. Berman per incriminare la Siddiqui di tentato omicidio e di uso di armi da fuoco, accuse che possono comportare l’ergastolo. All’imputata non è stato però dato il permesso di accedere alla corte perché, secondo la sua avvocatessa, anche a causa delle gravi ferite che le deturpano l’addome, non si è voluta sottoporre ad un’umiliante perquisizione intima a nudo prima di uscire dalla cella. Per la stessa ragione la detenuta non può incontrasi con i suoi difensori legali.

Elizabeth Fink, che difende la Siddiqui, ha chiesto una approfondita valutazione psichiatrica della sua cliente cha sta malissimo sul piano psichico e appare non essere in grado di sostenere il processo. A fine agosto aveva tentato invano di far ricoverare la propria assistita in ospedale, sostenendo che era a rischio di morte.

La Fink delinea un’ipotesi allucinante: Aafia Siddiqui sarebbe stata rapita nel 2003 dai servizi segreti americani o pachistani e detenuta in segreto per cinque anni subendo torture che ne hanno compromesso la sanità mentale. Il ‘ritrovamento’ della donna a luglio in Afghanistan sarebbe stato una messa in scena.

Le osservazioni fatte sulla Siddiqui dal personale del carcere metropolitano di New York, nel quale ella è detenuta in durissime condizioni, confermano che la prigioniera sta molto male, piange sempre ed è in uno stato paranoide: chiede che il proprio vitto sia dato a suo figlio incarcerato in Afghanistan che lei ritiene stia morendo di fame.

“Anche se le sue preoccupazioni che il figlio venga affamato e torturato appaiono alquanto paranoidi in superficie, è possibile che esse rappresentino un accurato ritratto dell’esperienza della stessa signora Siddiqui nella detenzione precedente,” ha messo per iscritto uno psicologo della prigione. “Inoltre, anche se l’esposizione della signora ad eventi traumatici è sconosciuta, la Malattia da Stress Post Traumatico e altre patologie […] acute non possono essere escluse.”

Tutto ciò ci addolora, e ci indigna profondamente anche nell’ipotesi che la Siddiqui e suo figlio undicenne (incarcerato in Afghanistan e sotto interrogatorio dell’FBI) siano effettivamente dei terroristi attuali o potenziali. Per analogia con parecchi casi del genere, siamo inoltre autorizzati a pensare che i sospetti di terrorismo contro la donna possano essere del tutto infondati o almeno drasticamente ridimensionabili (*).

Aafia Siddiqui è ben conosciuta negli Stati Uniti dove ha vissuto per 12 anni, studiando, mettendo su famiglia e diventando una ricercatrice in scienze del comportamento presso prestigiosi centri di ricerca, come il MIT e l’università Brandeis. Qui i suoi parenti e conoscenti affermano che la sua figura non ha nulla in comune con quella di una terrorista. Tra l’altro studiava l’apprendimento dei bambini e il governo americano la dipinge come un’esperta in armi chimiche e batteriologiche.

________________________

(*) Ad es. Salim Ahmed Hamdan, l’autista di bin Laden che secondo il governo americano meritava un minimo di 30 anni di reclusione per gravi reati di terrorismo è stato condannato a soli 5 anni di carcere già scontati, v. n. 162, Notiziario, v. anche i casi dei 5 inglesi, n. 116, di al-Masri, nn. 134, 147, e di al-Haj qui sotto nel Notiziario.

9) SISTEMA INFORMATICO SPIONISTICO AMERICANO IN CRISI DA GIGANTISMO

 

Il TIDE, un mastodontico e mal funzionante sistema informatico del governo degli Stati Uniti, contiene le schede di oltre 400 mila persone definite ‘sospetti terroristi’. L’enormità del dato sottolinea la tendenza a considerare ‘terrorista’ chiunque nel mondo si opponga alla visione politica degli USA.

 

 

Un complesso articolo di Robert O’Harrow Jr. comparso il  3 settembre nel Washington Post parla dell’incompetenza, della confusione, dei litigi degli addetti al sistema informatico governativo TIDE, soggetto ad andare completamente in tilt per periodi che arrivano fino a due ore e restio a rispondere agli utilizzatori: sembra  che i programmi per interrogare il data base funzionino assai male.

Poco interessa sapere dei contrasti tra gli operatori del TIDE e delle ingenti risorse impiegate invano per far funzionare decentemente il mastodontico sistema, quello che stupisce, leggendo l’articolo, è l’indifferenza con cui l’autore riporta che il Terrorist Identities Datamart Environment creato subito dopo l’11 settembre 2001 contiene i dati relativi a 450 mila ‘sospetti terroristi’ sparsi nel mondo (*).

Il numero enorme di persone spiate non si può spiegare se non col fatto che il governo americano per ‘sospetti terroristi’ intenda genericamente le persone o i gruppi che in qualche modo in qualsiasi luogo si oppongano alla visione politica statunitense.

Forse non avete mai immaginato che ci fossero al mondo tanti ‘terroristi’, individuati e schedati, ma neanche tanti oppositori della politica USA! (**)

Purtroppo, se la Costituzione e le leggi americane tutelano, sia pure fino ad un certo punto, i diritti dei cittadini statunitensi permettendo loro in qualche caso perfino di contestare lo spionaggio effettuato ai loro danni (come è avvenuto ad es. in Maryland, v. n. 162) niente e nessuno protegge da arbitrarie interferenze i cittadini non americani nel mondo.

Ci domandiamo come tutto questo si possa conciliare con la fruizione della libertà individuale e collettiva che è a fondamento dei diritti umani.

Ripassiamo alcuni articoli della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (che dovrebbe valere per tutti, non solo per gli Americani):

Art. 1 – Tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti […]

Art. 3 – Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona.

Art. 12 – Nessun individuo potrà essere sottoposto ad interferenze arbitrarie nella sua vita privata, nella sua famiglia, nella sua casa, nella sua corrispondenza […]. Ogni individuo ha diritto di essere tutelato dalle leggi contro tali interferenze o lesioni.

Art. 18 - Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, e la libertà di manifestare isolatamente o in comune, in pubblico o in privato, la propria religione o il proprio credo nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell’osservanza dei riti.  

Art. 19 - Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espres­sione; questo diritto include la libertà di sostenere opinioni senza condizionamenti e di cercare, ricevere e diffondere in­formazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo ai confini.

Art. 20 - Ogni individuo ha diritto alla libertà di riunione e di asso­ciazione pacifica. […]

____________________

(*) V.  http://www.nctc.gov/docs/Tide_Fact_Sheet.pdf

(**) Abbastanza espliciti, attivi e riconoscibili da poter essere individuati dagli Americani.

 

 

10) RICHIESTA DI CORRISPONDENZA PER BILLY GALLOWAY

 

Cari amici,  ho ricevuto tramite il mio corrispondente Peter una richiesta di corrispondenza da parte del suo nuovo vicino di cella nel braccio della morte della Polunsky Unit in Texas, Billy Galloway.

Billy desidererebbe molto avere un corrispondente italiano, uomo o donna. Forse tra di voi c’è qualcuno che ultimamente ha pensato di iniziare una corrispondenza con un detenuto e non sa chi scegliere.

Se decideste di scrivere a Billy, questo è il suo recapito:

Mr. Billy Galloway # 999349

Polunsky Unit

3872 F.M. 350 South

Livingston, Texas 77351    USA

Ricordate che alla Polunsky Unit le regole sulla corrispondenza sono molto severe e non è permesso di inviare assolutamente nulla al detenuto se non la lettera stessa, fotografie e ritagli e articoli di giornali e riviste.

Grazie a chi volesse scrivere a Billy!

Elena Gaita

 

 

11) NOTIZIARIO

 

Iran. Obbligatoria la pena di morte per apostasia. Il 25 settembre si è appreso che il Parlamento iraniano ha approvato definitivamente, con 196 voti a favore, 7 contrari, 2 astenuti, una legge ispirata alla sharia che rende obbligatoria l’inflizione della pena di morte agli apostati maschi, mentre le donne che abbandonano l’Islam avranno l’ergastolo. In precedenza la pena di morte per apostasia era facoltativa. Altri punti della stessa legge prevedono la pena capitale per maghi, astrologhi e omosessuali.

 

Iran. 130 condannati a morte erano minorenni all’epoca del reato. Un comunicato di Human Rights Watch del 25 settembre rende noto che in Iran sono detenuti 130 giovani condannati a morte per reati commessi nella minore età. Un centinaio di minorenni all’epoca del reato sarebbero detenuti nei bracci della morte dell’Arabia Saudita. L’organizzazione per i diritti umani denuncia un minimo di 32 esecuzioni di minori all’epoca del reato a partire dal 2005. 26 di esse hanno avuto luogo in Iran, 2 in Arabia Saudita, 2 in Sudan, 1 in Pakistan e 1 nello Yemen. Almeno uno dei giustiziati aveva solo 13 anni al momento del crimine. In Sudan, Pakistan e Yemen vigono leggi che proibiscono la pena di morte per i minorenni.

 

Iraq. Rinnovate pressioni per l’impiccagione di Alì il Chimico. Il 7 settembre si è saputo che il primo ministro iracheno Nouri Al Maliki ha di nuovo chiesto agli Americani che lo detengono la consegna di Ali Hassan Al Majid, detto Alì il Chimico, cugino di Saddam Hussein, e di altri due coimputati eccellenti, Sultan Hashim e Hussain Rasheed. I tre furono condannati a morte dal Tribunale Speciale Iracheno nel 2007, in un processo che non raggiunse il livello della decenza, per le responsabilità da loro avute nella Campagna Anfal contro i Curdi del 1988 (v. n. 150). I detenuti dovrebbero esser trasferiti in una prigione del Ministero degli Interni appositamente preparata per ospitare gli esponenti del regime di Saddam, provvista di una sala attrezzata per le esecuzioni. La mossa di Maliki conseguirebbe anche ad una petizione sottoscritta da parenti delle vittime della Campagna Anfal (i promotori dicono che tale petizione ha raccolto in un anno 180 mila firme). Al Maliki potrebbe così procedere all’impiccagione dei tre pur mancando la ratifica dell’ordine di esecuzione di Sultan Hashim e Hussain Rasheed da parte del presidente Jalal Al Talabani (v. n. 154, 156, 157, Notiziario). Secondo il regolamento del Tribunale Speciale i tre dovevano essere impiccati tassativamente entro un mese dal 4 settembre 2007, data della conferma della sentenza.

Italia. Prosegue con difficoltà il processo per la ‘rendition’ di Abu Omar.  L’unico processo che è stato avviato nel mondo per perseguire l’estesa pratica della ‘extraordinary rendition’ attuata dai servizi segreti americani in violazione dei diritti umani e della legalità internazionale (v. n. 160) è proseguito in settembre nonostante l’opposizione del generale Nicolò Pollari, il più importante imputato italiano. Pollari, direttore del Sismi nel 2003 all’epoca del rapimento dell’imam Abu Omar da parte della CIA, ha chiesto di bloccare il processo in attesa della decisione della Corte costituzionale sul conflitto di attribuzione tra poteri in merito al segreto di Stato sollevato dal governo italiano. Secondo il giudice monocratico Oscar Magi “non ci sono ragioni ostative a procedere oltre”. Il giudice ha ricordato che non c’è segreto di Stato sulla vicenda in sé, ma solo su alcuni atti e documenti.  Il giudice Magi ha deciso che una ventina di testimoni, dal numero 45 al numero 65, saranno sentiti a porte chiuse. Si tratta di agenti segreti e il giudice ha accolto la richiesta di tutelare la riservatezza delle loro deposizioni. Nell’udienza del 24 settembre la difesa di Pollari ha chiesto che Condoleezza Rice, segretario di Stato USA, sia sentita come testimone. Evidentemente Pollari (che ne frattempo ha fatto carriera diventando consigliere di stato) non ci sta a fare da capro espiatorio di colpe che devono essere ricondotte prima di tutto al governo italiano e a quello statunitense.

Maryland. L’ACLU vuole sapere se sono stati spiati altri gruppi di oppositori. Il 30 settembre la sezione del Maryland dell’ACLU (Unione Americana per le Libertà Civili) ha inoltrato una richiesta ufficiale di informazione pubblica per sapere se la polizia dello stato ha spiato ed infiltrato in questi anni altre organizzazioni (pacifiste, abolizioniste, femministe, animaliste) che in qualche modo si oppongono alla politica ufficiale dello Stato, oltre alle due di cui si è avuta conferma in luglio: la “Campagna per mettere fine alla pena di morte” ed il  “Patto di Resistenza di Baltimora”, un gruppo che si opponeva alla guerra in Iraq. (v. n. 161). La richiesta dell’ACLU riguarda 32 organizzazioni di opposizione grandi o piccole.

 

Usa. Ampia liberalizzazione dei comportamenti degli agenti dell’FBI. Nell’ambio del ‘diluvio di cambiamenti nell’intelligence’ apportati dall’amministrazione Bush negli ultimi mesi prima della scadenza (v. n. 162), il 12 settembre sono state rese note le nuove regole (non del tutto definite) per i 12 mila agenti dell’FBI che diverranno operative dopo l’approvazione dell’Attorney General (Ministro della Giustizia) Michael B. Mukasey. Le nuove regole, che liberalizzano enormemente il comportamento di ogni singolo agente, costituiscono una vera rivoluzione mai verificatasi da molti anni. Per esempio gli agenti d’ora in poi potranno interrogare all’interno degli Stati Uniti persone implicate in casi di interesse estero non solo senza mandato ma anche senza chiedere l’approvazione dei supervisori. Avranno mano libera negli interventi di ordine pubblico e potranno infiltrare manifestazioni e gruppi di opposizione. Potranno essere monitorate senza autorizzazione conversazioni tramite microspie portate dagli agenti, con eccezione di quelle coinvolgenti pubblici ufficiali e giudici nonché prigionieri federali. La rivoluzione avviene nonostante il fatto che l’FBI sia stato in questi anni al centro di uno scandalo per il modo disinvolto con cui usava le ‘lettere per la sicurezza nazionale’ per avere informazioni su privati cittadini dalle banche e dalle compagnie telefoniche. “Si tratta del conferimento di un potere straordinariamente grande ad un’agenzia che non ha provato di usare il proprio potere in modo conveniente” ha dichiarato Michael German consulente dell’ACLU.

 

Usa. Giornalista in precarie condizioni dopo sei anni di detenzione a Guantanamo. Un articolo di Robert Fisk su Independent del 25 settembre narra la storia di Sami al-Haj, un cameraman di Al Jazeera detenuto per quasi sei anni a Guantanamo, dove è arrivato dopo essere stato vittima di una ‘rendition’ alla frontiera del Pakistan che lo ha fatto passare per le orrende prigioni delle basi USA di Bagram e di Kandahar in Afghanistan. Al-Haj sostiene che gli Americani si convinsero che egli era estraneo al terrorismo ma continuarono a tormentarlo in più di 200 interrogatori affinché diventasse una loro spia. Rifiutò per etica professionale. Riportiamo un brano dell’articolo: “Sami al-Haj cammina con difficoltà con le sue stampelle di metallo: circa sei anni nell’incubo di Guantanamo hanno avuto le loro conseguenze sul giornalista di Al Jazeera il quale, ora che è al sicuro in un albergo nella piccola città norvegese di Lillehammer, è un paradigma di dignità e di vergogna. Gli Americani gli dissero di essere spiacenti quando quest’anno lo liberarono – dopo i pestaggi che sostiene di aver patito, l’alimentazione forzata, le umiliazioni e gli interrogatori da parte degli agenti segreti britannici, americani e canadesi – ed ora spera che un giorno potrà camminare senza le stampelle.”

 

 

Questo numero è aggiornato con le informazioni disponibili fino al 1° ottobre 2008

bottom of page