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FOGLIO  DI COLLEGAMENTO  INTERNO

DEL COMITATO PAUL ROUGEAU

 

Numero  132  -  Settembre / Ottobre 2005

Il presente numero doppio, che ha il massimo di pagine consentito dai nostri standard, recupera una mancata uscita a settembre dovuta ad un evento eccezionale. Nel mese scorso, infatti, il nostro staff si è completamente dedicato a scrivere lettere in varie lingue dirette ai Presidenti dei Paesi africani che mantengono la pena capitale, da consegnare  il 10 ottobre, Giornata Mondiale Contro la Pena di Morte  (v. nono articolo )

 

SOMMARIO:

 

1) Fissata la data di esecuzione per il nostro amico Tony Ford 

2) Un punto su cui occorre prendere posizione!  

3) Come aiutare in extremis Tony Ford   

4) Chiesta la data di esecuzione per Orso Che Corre

5) Terzo annullamento della sentenza di morte per Johnny Penry

6) Annullata la condanna a morte di James Mitchell in Oklahoma

7) Spasmodica mobilitazione per Frances Newton: uccisa

8) Victor Saldaño a rischio di suicidio      

9) 10 ottobre: Giornata mondiale contro la pena di morte         

10) Ripresa delle esecuzioni capitali in Iraq         

11) Primo processo, senza giustizia per Saddam Hussein, e per il                           mondo          

12) Corte Suprema: conferma per  Roberts e stop per la Miers   

13) Ma come la pensa veramente il Chief justice John Roberts?  

14) Il giudice Roberts, la ragazzina e la patatina fritta    

15) Torture negate, torture ufficiose, torture ufficiali      

16) Pena di morte sfruttata a fini elettorali           

17) Ho dovuto spiegare a mia figlia il braccio della morte           

18) Cosmetici di origine cinese? No, grazie…        

19) A tutti i corrispondenti dei detenuti: procuratevi testi poetici!          

20) Notiziario: Iran, Usa

 

 

1) FISSATA LA DATA DI ESECUZIONE PER IL NOSTRO AMICO TONY FORD

 

Cari amici, oggi vi inoltro una lettera importante scritta dal mio fratello e mentore Tony Ford, a cui è stata fissata la data di esecuzione per il 7 dicembre prossimo. Questo ci ha resi tutti molto tesi perché il caso legale di Tony è molto forte e perché lui si è dedicato alla lotta per i prigionieri da quando si trova nel braccio della morte. Tony ed io siamo amici intimi da quasi 8 anni e vi confesso che l’approssimarsi della sua deliberata uccisione mi rende tristissimo. Ma certo le sue parole vi sapranno dire di più.

Se vi ricordate, alcuni mesi fa ho fatto un’indagine sulle vostre opinioni riguardo alla resistenza da opporre in occasione dell’esecuzione. Ci sono stati buoni riscontri al mio sondaggio. Se pongo domande è perché so che prima o poi dobbiamo affrontare questi problemi. Il momento adesso è venuto.

Tony protesterà contro il suo omicidio e molti di noi saranno al suo fianco. Ho detto a tutti i miei fratelli che se loro opporranno resistenza io resisterò con loro. Ho amato pacificamente quelli che sono voluti andare senza resistere. Tony non seguirà senza resistere, e perciò io sarò con lui sostenendolo allo stesso modo. Amici miei, avrete altre notizie della nostra protesta e questo è il lato della lotta che molti non vedono mai. Ve le riporterò di prima mano e chiederò il vostro aiuto. Infatti questa protesta è solo il preludio di altre che verranno, ma verrete a sapere del resto più avanti. Le condizioni di vita qui sono divenute pressoché insopportabili ed è arrivato per noi il momento di agire.

Per ora, vi lascio alle le parole di Tony. Ci sarà altro. Che Dio ci assista. Kenneth.

 

 

2) UN PUNTO SU CUI OCCORRE PRENDERE POSIZIONE!

 

Mi sono sempre proposto, nel caso fosse stata fissata per me la data dell’esecuzione, di protestare in qualche modo contro la mia uccisione voluta dallo stato. Ho stabilito così poco dopo essere arrivato nel braccio della morte nel 1993. Non avevo però deciso come protestare.

Nel corso degli anni, ho visto numerosi fratelli mettere in atto vari tipi di protesta contro la loro esecuzione. Le proteste più rilevanti sono state quella di Ponchai Wilkerson, che lottò fisicamente fino alla fine e che sputò dalla bocca una chiave da manette mentre era già legato al lettino dell'esecuzione; quella di Shaka Sankofa (Gary Graham), che lottò fisicamente e chiamò i fratelli, le sorelle e tutti i progressisti alle armi per impedire la sua uccisione da parte dello stato, lottando tutto il tempo fisicamente per respingere l’attacco brutale da parte delle guardie carcerarie, che cercavano di estrarlo dalla sua cella e infine quella di Emerson “Giovane Leone” Rudd, che rifiutò di essere portato al suo omicidio pacificamente, e così fu colpito con il gas, picchiato fino a perdere quasi conoscenza e trasportato a forza dalla Polunsky Unit alla Casa della morte. Tutti questi sforzi furono compiuti con grande coraggio, e realizzati dopo una lunga preparazione e profonde meditazioni. Purtroppo questi comportamenti sono citati raramente dai media, che sono la via di comunicazione con la maggior parte della gente e plasmano l’opinione pubblica di questo paese. Invece le azioni di questi fratelli devono essere conosciute ed esse devono essere ricordate per quello che realmente furono – un rifiuto completo e totale del sistema che si impegnò ad ucciderli nel nome della giustizia.

Come loro, anch’io rifiuto totalmente e completamente la condanna a morte che mi è stata inflitta!

La mia condanna è giunta a seguito delle falsità e dei trucchi messi in atto dall’avvocato dell’accusa Jamie Esparsa, del distretto di El Paso, che mi fece portare fino ad El Paso incatenato braccia e gambe. Si trattò di un viaggio di 12 ore con pochissime fermate. Non mi lamentai, né chiesi che allentassero le manette. Non volevo favori da coloro che mi stavano portando ad un processo-farsa. Tuttavia, sia detto a loro credito, gli sceriffi che vennero a prendermi in consegna furono molto professionali e condiscendenti, anche se non domandai alcun trattamento speciale. Nella prigione, ero circondato da 12 guardie. Non erano ostili nei miei confronti, anche se il loro posizionamento intorno a me era chiaro. Se avessi cercato di manifestare qualsiasi forma di ostilità, sarei stato picchiato e rapidamente sottomesso. Non ci fu violenza. La mia maggiore preoccupazione era di comunicare con il mio avvocato. Una cosa che non potei fare per due giorni, perché fui messo in isolamento e mi furono tolti anche il telefono e il televisore, affinché non potessi sapere cosa stavano dicendo di me. Finalmente, quando potei chiamare il mio avvocato, lo informai di che cosa stava accadendo, e lui ottenne di farmi togliere le restrizioni.

Il giorno della sentenza fui condotto in tribunale incatenato mani e piedi davanti ai familiari delle vittime, ai media e in mezzo a molte guardie. Questa era chiaramente una scena ad effetto costruita a fini politici. Dopo la condanna pensai sempre più alle circostanze in cui mi ero trovato e al modo in cui l’accusa e tanti altri avevano voluto far credere che io ero un criminale molto violento che meritava la morte. Ho così cercato di dimostrare loro che sono il contrario di ciò che credono. Non sono come loro pensano. Se mi conoscessero, lo capirebbero facilmente.

Nella vita arriverà un momento in cui dovremo prendere una posizione, per dimostrare alla gente chi siamo e come difendiamo ciò in cui crediamo. Questa posizione non dovrà sempre essere drammatica, ma il punto rimane lo stesso. La posizione che assumeremo richiederà una lotta da parte nostra.

I leader del passato ci hanno dimostrato che si può prendere posizione con un’azione passiva, oppure con un’azione aggressiva. Ognuna di queste scelte ha effetto in specifiche situazioni. Dal momento che si pensa che si trovino nel braccio della morte gli individui più violenti, credo che se io opponessi una resistenza violenta alla mia esecuzione, non solo mi danneggerei, ma danneggerei anche il movimento abolizionista del quale faccio parte attivamente. Inoltre, poiché molte persone che fanno parte del movimento abolizionista hanno avversione per la violenza, io credo che costituirebbe un tradimento nei loro confronti se mi comportassi in modo violento. Tuttavia, scartare la violenza non significa che non si debba dimostrare attivamente l’opposizione alla pena di morte. Non agire VISIBILMENTE contro la pena di morte, credo aiuti solo ad incrementare la percezione che le persone qui nel braccio della morte, e quelle che si battono fuori di qui, alla fine accettano il risultato finale. Pertanto, la posizione che io prenderò contro l’omicidio voluto dallo stato del Texas, sarà di RESISTERE PASSIVAMENTE. Il fratello Kevin Cooper, che si trova nel braccio della morte in California, ha detto ad un giornalista: “E’ una consuetudine distorta e marcia che la gente che vuole ucciderti ritenga che tu – noi - si partecipi volentieri alle azioni che porteranno al tuo – nostro – assassinio”. E questa è esattamente la mia opinione. Perciò non collaborerò volontariamente ad alcun atto che dia l'impressione che io accetti l’azione ingiusta che viene perpetrata, il cui unico scopo è di togliermi la vita. Credo che per la mia vita valga la pena combattere. Resisterò passivamente non soltanto per dimostrare questo, ma anche per aggiungere la mia voce alle molte voci che ritengono che l’omicidio sanzionato dallo stato non sia soltanto sbagliato ma debba essere abolito. Vi ringrazio per aver letto le mie parole. 

Per sempre unito a voi con forza nello spirito, Tony Egbuna “al-Husain” Ford  

 

 

3) COME AIUTARE IN EXTREMIS TONY FORD

 

Potete scrivere a: Mr.Tony Ford #999025 – 3872 FM 350 South – Livingston, TX 77351 – USA per comunicargli affetto e coraggio.

Potete inoltre versare un contributo di qualsiasi entità, per le investigazioni a discarico condotte sotto la supervisione del noto ed affidabile avvocato Richard Burr, sul Conto corrente 112829 presso la Banca Popolare Etica - Sede di Padova - Intestato:"Associazione Nazim Hikmet" - ABI 05018 - CAB 12100 – Causale: “pro Tony Ford”

Invitiamo infine tutti coloro che sono collegati ad Internet a sottoscrivere la robusta petizione in favore di Tony che si trova all’indirizzo:  http://www.petitiononline.com/alivefo/petition.html

Per avere informazioni aggiornate sul caso di Tony Egbuna Ford e conoscere altre forme di mobilitazione consultate il sito: www.tonyford.de

 

 

4) CHIESTA LA DATA DI ESECUZIONE PER ORSO CHE CORRE

 

In California c’è il più grande braccio della morte degli Stati Uniti, che ‘ospita’ oltre 640 detenuti. Tuttavia in questo stato particolarmente avanzato, dal 1978 in poi si sono avute non più di 11 esecuzioni capitali (dato da confrontare con quello del Texas che ha ucciso nello stesso periodo 351 prigionieri).

La moderazione della California nell’eseguire le sentenze di morte sembra essersi drammaticamente interrotta, si profilano infatti nel giro di alcuni mesi le esecuzioni di tre condannati a morte che hanno esaurito gli appelli. Questo fatto può essere forse spiegato come una fluttuazione statistica ma ci induce ad aumentare la vigilanza e a raddoppiare l’impegno.

La ‘data’ più vicina è quella già fissata per Stanley William che ha un appuntamento con la morte per il 13 dicembre. La data più lontana dovrebbe collocarsi tra febbraio e marzo per Michael Angelo Morales. La pubblica accusa ha chiesto di fissare per il 17 gennaio l’esecuzione di Clarence Ray Allen, il cui nome indiano è Orso Che Corre.

Orso Che Corre è un nativo americano ben conosciuto in Italia soprattutto per merito del suo portavoce Marco Cinque. Egli si è dimostrato nel corso degli anni persona dolcissima e sensibile, capace di un autentico scambio spirituale con grandi e piccini. Non pochi bambini delle scuole elementari e medie sono suoi affezionati nipotini adottivi.

Prepariamoci ad una forte mobilitazione in favore di Orso Che Corre nel caso in cui la sua esecuzione venga effettivamente fissata per il 17 gennaio.

Costringeremo il governatore della California Arnold Schwarzenegger a confrontarsi con il suo cuore e con la sua coscienza e a concedere la grazia ad Orso Che Corre.

Dopo tutto Clarence Ray Allen ha 76 anni ed è molto malato, il diabete gli rende difficile l’uso delle gambe, è quasi cieco e i suo cuore ha subito due infarti. Ha passato oltre un quarto di secolo in carcere e ha dimostrato ad abundantiam di essere profondamente cambiato e di essersi ravveduto.

 

 

5) TERZO ANNULLAMENTO DELLA SENTENZA DI MORTE PER JOHNNY PENRY

 

Il caso di John Paul Penry sta a cuore agli Italiani e particolarmente alla Comunità di Sant’Egidio, non solo perché è un caso ‘miliare’ nello sviluppo della normativa della pena di morte negli Stati Uniti ma soprattutto per i suoi risvolti umani.

Ricordiamo che Penry, condannato a morte in Texas nel 1979, essendo un ritardato mentale – dopo la famosa sentenza Atkins v. Virginia emessa dalla Corte Suprema USA a giugno del 2002 - non potrebbe essere sottoposto ad esecuzione capitale. Tuttavia per i conservatori che sostengono la pena di morte, l’entità del suo evidente ritardo mentale non sarebbe tale da evitargli di ‘pagare il prezzo ultimativo’ per aver ucciso una giovane donna appartenente ad una famiglia molto in vista della cittadina di Livingston.

Pur essendo stata annullata la sua condanna a morte nel 1989 – con una sentenza storica della Corte Suprema – perché durante la fase di punishment del processo il ritardo mentale ed altre attenuanti non furono adeguatamente presentati alla giuria, Penry fu di nuovo processato e condannato a morte nel 1990. Di nuovo senza dare adeguato risalto alle attenuanti. La Corte Suprema nel 2001 finì pertanto con l’annullare una seconda volta la sentenza di morte. Il Texas non si dette per vinto e processò per la terza volta a furor di popolo Johnny, ormai divenuto chiaramente una persona mite e mansueta, rassegnata ad accettare di buon grado una condanna a vita per scontare il suo delitto.

Nel bel mezzo del terzo processo giunse la sentenza Atkins v. Virginia che mandò letteralmente in tilt la giudice presidente Elisabeth Coker, la quale – evidentemente ansiosa di pervenire comunque ad una terza sentenza capitale per Penry – chiese alla giuria di considerare implicitamente la questione del ritardo mentale nell’emettere il verdetto. Insomma - secondo la giudice - un verdetto di morte avrebbe significato ipso facto che la giuria negava l’esistenza del ritardato mentale. E fu un verdetto di morte.

Il terzo pasticcio nel processare Penry ha avuto come conseguenza il terzo annullamento della sua condanna a morte. Anzi, questa volta i suoi avvocati non hanno dovuto percorrere la trafila degli appelli fino ad arrivare alle corti federali. Ci ha pensato la (peraltro famigerata) Corte Criminale d’Appello del Texas a decidere – a stretta maggioranza - che anche l’ultima condanna a morte di Johnny è da ritenersi nulla. La decisione di tale corte consegue ad una del tutto insolita udienza ‘didattica’ tenutasi all’interno un’università texana (v. n. 123) ed è stata resa nota il 5 ottobre scorso. Con grande gioia degli amici della Comunità di Sant’Egidio i quali, dopo aver perso Dominique Green il 26 ottobre 2004, sono decisi ad impegnarsi al massimo per evitare che - nella prevedibile ulteriore ripetizione della fase di punishment del processo di Johnny - venga di ancora e per la quarta volta emessa una sentenza di morte.

 

 

6) ANNULLATA LA CONDANNA A MORTE DI JAMES MITCHELL IN OKLAHOMA

 

Le amiche Emanuela e Laura ci hanno fatto conoscere James, un trentenne detenuto nel braccio della morte dell’Oklahoma, in cerca di amicizie e certamente bisognoso di un sostengono fermo ed affidabile che lo aiuti a percorrere una strada di recupero e di riscatto.

Proveniente da una famiglia e da un ambiente degradati, James Lawrence Mitchell III, che aveva accumulato numerosi precedenti penali, è stato facile preda dell’accusa che lo ha incriminato dell’omicidio di Charita Rahawn Frerene di tre anni, figlia della sua convivente, avvenuto a Oklahoma City il 23 luglio 2000.  Il pubblico accusatore è poi riuscito a far condannare a morte James Mitchell il 4 marzo del 2003 in base ad una testimonianza a dir poco inconsistente, resa alla giuria con l’acquiescenza del Giudice presidente incapace di svolgere il suo ruolo.

Durante il processo fu erroneamente permesso ai giurati di ascoltare una testimonianza ‘per sentito dire’. Infatti il detective William Edwards riferì che il fratellastro della vittima, Kyree Rogers, gli aveva dichiarato che Mitchell prese la sorellina per le caviglie e la sbatté diverse volte per terra. In seguito, testimoniando a sua volta durante il processo, Kyree (4 anni all’epoca dell’omicidio) negò recisamente di aver fatto quella dichiarazione al detective.

Il 14 settembre scorso la Corte Criminale d’Appello dell’Oklahoma ha annullato la condanna a morte inflitta a Mitchell ed ha ordinato un nuovo processo per l’omicidio della bimba, cancellando completamente il capo di imputazione di abuso sessuale del quale l’imputato era stato parimenti dichiarato colpevole con una pena di 1.000 anni di carcere.

Ci congratuliamo con James, sperando che in un nuovo più giusto processo non venga più condannato a morte. Ci congratuliamo anche con Emanuela e Laura impegnate in una difficile corrispondenza che assume a tratti le caratteristiche di un’assistenza sociale all’intera famiglia del prigioniero.

 

 

7) SPASMODICA MOBILITAZIONE PER FRANCES NEWTON: UCCISA

 

Dal 2000 - quando fu messo a morte Shaka Sankofa - non si era verificata in Texas e in tutti gli Stati Uniti una mobilitazione comparabile a quella che c’è stata per salvare dall’iniezione letale Frances Newton, la prima donna nera ad essere ‘giustiziata’ in Texas dall’epoca della Guerra civile.

Frances Newton è stata uccisa come programmato il 14 settembre. La volta precedente l’aveva scampata: il 1° dicembre 2004, due ore prima dell’iniezione letale, il governatore Rick Perry, su proposta della Commissione per le Grazie, aveva ordinato di sospendere l’esecuzione per tre mesi onde consentire ulteriori indagini.

Questa volta nulla è stato lasciato intentato, sia sul piano strettamente legale, sia a livello civile e politico, per ottenere almeno un provvedimento di clemenza nei confronti di questa donna accusata di aver ucciso il marito e due figlioletti nel 1987 allo scopo di intascare un premio assicurativo. Sono scesi in campo in favore di Frances Newton editorialisti, personaggi illustri della politica, della cultura e della religione, tra di essi tutti i leader neri progressisti. Perfino organizzazioni importanti politicamente neutrali come l’Associazione degli Avvocati Americani e Amnesty International hanno insistito fino all’ultimo sulla dubbia colpevolezza della condannata.

Tuttavia sia le corti statali e federali, sia la Commissione per le Grazie, sia il Governatore, questa volta sono stati compatti ed irremovibili e non hanno alzato un dito per evitare l’uccisione della donna, pur in presenza di dubbi residuali sulla sua colpevolezza.

Soprattutto tra i poveri, tra i neri, tra i ‘liberal’ più radicali, che giuravano sull’assoluta innocenza di Frances ed accusavano ‘il sistema’ di razzismo e plateale ingiustizia, il dolore e la delusione sono stati, oltre che profondi, brucianti.

Frances Newton è stata l’undicesima donna ad essere ‘giustiziata’ negli Usa dalla ripresa delle esecuzioni nel 1977, su un totale di 982 persone messe a morte. In Texas le esecuzioni di donne sono state 3 su un totale di 349.

 

 

8) VICTOR SALDAÑO A RISCHIO DI SUICIDIO

 

Stefano Argentino Storino della Comunità di Sant’Egidio ci fa sapere che Victor Saldaño, detenuto nel braccio della morte del Texas, sta attraversando un periodo di totale sconforto. Ha minacciato di togliersi la vita e intende rinunciare agli appelli, chiedendo di essere ucciso. Dice di non sopportare più la vita nel braccio della morte. Vi invitiamo a fare un piccolo sforzo e a scrivergli al seguente indirizzo per offrirgli conforto e amicizia.

 

Mr. Victor Saldaño  #  999203

Allan B. Polunsky Unit

3872 FM 350 South

Livingston  73351 TX - USA

9) 10 OTTOBRE: GIORNATA MONDIALE CONTRO LA PENA DI MORTE

 
Il 10 ottobre di ogni anno si celebra nel mondo la Giornata contro la Pena di Morte. La Coalizione Mondiale contro la Pena di Morte (http://www.worldcoalition.org ) ha deciso di dedicare la ricorrenza di quest’anno al tema dell’abolizione della pena capitale nei Paesi africani.

Molte attività sono state organizzate in varie parti del mondo.  Al fine di contribuire nel nostro piccolo a questo importante evento, il Comitato Paul Rougeau ha consegnato, a Roma, in quel giorno, lettere di sensibilizzazione alle ambasciate e ai consolati dei Paesi africani che ancora mantengono la pena capitale.

Abbiamo preparato una lettera per ciascun paese africano che mantiene la pena di morte (scritta in francese, inglese o italiano a seconda del paese). Le lettere - che hanno la stessa struttura - sono state adattate a ciascuna situazione nazionale, ricordando i rispettivi specifici problemi e apportando piccole variazioni per tener conto che ad es. un paese è a maggioranza islamica, e' abolizionista di fatto ecc.

Le 38 lettere dirette ai presidenti/re dei paesi africani sono state sottoscritte per via telematica da un numero variabile di persone oscillante da un minimo di 444 ad un massimo di 467.

Con una settimana di anticipo tutte le rappresentanze diplomatiche dei paesi interessati presenti in Italia sono state preavvertite della consegna delle lettere che sarebbe avvenuta il 10 ottobre.

Il 10 ottobre 27 lettere sono state consegnate a mano a 25 ambasciate e a 2 consolati (Algeria, Burkina Faso, Burundi, Camerun, Congo, Congo - repubblica democratica, Egitto, Eritrea, Etiopia, Ghana, Guinea, Guinea Equatoriale, Kenya, Liberia, Libia, Marocco, Mauritania, Mali, Niger, Nigeria, Sierra Leone, Sudan, Tanzania, Togo, Tunisia, Uganda, Zambia, Zimbabwe).

L'evento ha suscitato un discreto interesse nei funzionari che hanno preso in consegna i messaggi impegnandosi a inoltrarli al loro presidente/re, a volte con lettera di accompagnamento.

11 lettere (Benin, Botswana, Rep. Centrafricana, Ciad, Guinea equatoriale, Gabon, Malawi, Ruanda, Somalia, Somaliland, Swaziland) sono state spedite per posta prioritaria ai destinatari che non avevano né ambasciata né consolato funzionanti in Italia (in due di questi casi le rappresentanze pur essendo presenti almeno con una targa sono risultate non funzionanti il 10 ottobre e nei giorni precedenti).

Riportiamo come esempio il testo della lettera alla Somalia:

 

 “Sua Eccellenza Abdullahi Yusuf Ahmed

 Capo di Stato del Governo di Transizione della Somalia

 Mogadiscio  Somalia

Lettera inviata il 10 ottobre 2005

                                                                                  Giornata Mondiale Contro la Pena di morte

Eccellenza,

siamo lieti di rivolgerci a Lei e a tutto il popolo della Somalia.

Vogliamo assicurarle la nostra preoccupazione e la nostra solidarietà nello sforzo la Somalia sta facendo per uscire da un terribile clima di guerra civile e di instabilità che ha causato estese violazioni dei diritti umani e gravi sofferenze per tutta la popolazione.

Scriviamo dall’Italia per chiedervi con grande umiltà di fare tutto il possibile perché si arrivi al più presto all’abolizione della pena di morte in Somalia e, nel frattempo, venga mantenuta una rigorosa moratoria delle esecuzioni capitali.

Siamo coscienti di scrivervi da un luogo privilegiato in cui sono assicurati più largamente che altrove i mezzi di sussistenza, la libertà, la sicurezza e la pace, molto spesso a scapito di altri popoli non altrettanto fortunati.

Cerchiamo tuttavia impegnarci per un cambiamento dell’attuale stato di cose mentre continuiamo a sperare nell’avvento di un’era di libertà, di giustizia e di pace in cui le relazioni tra i singoli e tra le nazioni saranno regolate dal rispetto dei diritti umani e dalla solidarietà, anziché dai rapporti di forza, dalla violenza e dalla sopraffazione.   

Crediamo che siano sempre valide le solenni parole contenute nel Preambolo alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 10 dicembre 1948: “…il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, eguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo”

Ci permettiamo perciò di chiedervi di abolire la pena di morte che offende la dignità della persona e mina il godimento del primo e fondamentale dei diritti umani: il diritto alla vita. Una profonda e convinta affermazione del diritto alla vita è senz’altro una condizione per lo sviluppo di tutti gli altri diritti. 

La pena di morte, che ha accompagnato la storia dell’umanità nel corso dei millenni, non deve avere più posto in una moderna e civile organizzazione giuridica. Nella seconda metà del Settecento, per merito dell’italiano Cesare Beccaria, nacque l’idea abolizionista. Ormai i paesi che mantengono la pena di morte nei loro ordinamenti sono una minoranza e quelli che la applicano effettivamente sono ancora di meno. Ciò dimostra che si allarga la comprensione del fatto che la pena di morte, originata dalla paura e dal desiderio di vendetta, non serve a combattere la criminalità e ad elevare la moralità di un paese.

I gravissimi problemi che affliggono il Somalia – pensiamo all’instabilità del paese, allo scarso controllo del territorio, alla carenza di sicurezza per i cittadini, alle violazioni dei diritti umani, ai rifugiati e agli sfollati, alle carenze alimentari e sanitarie di una parte rilevante della popolazione - non rendono il problema della pena di morte secondario e trascurabile.

Eccellenza, amici della Somalia, vi esortiamo a compiere con coraggio un passo di grande significato: abolite la pena di morte per far avanzare la Somalia verso un ideale universale di civilizzazione, per dare un segnale di speranza nella piena affermazione dei diritti umani, per promuovere l’immagine del Paese nel mondo ed accrescere la cooperazione e la solidarietà internazionale.

Ringraziandola in anticipo di una Sua risposta che accoglieremo con gioia, Le inviamo i più rispettosi ossequi”

 

E’ stato un lavoro molto impegnativo e importante e siamo molto soddisfatti di essere riusciti a portarlo felicemente a termine. Un pensiero particolare, per l’impegno profuso, va a Christian, Donata, Filippo, Giovanni, John, Laura, Lorenza, Margherita D., Margherita L., Marina, Pasquale, Simone. Terremo informati i nostri lettori delle eventuali risposte che ci auguriamo di ricevere. (Grazia)

 

 

10) RIPRESA DELLE ESECUZIONI CAPITALI IN IRAQ

 

Il portavoce del governo iracheno Leith Kubba, ha annunciato che Ahmad al-Jaf, Uday Dawud al-Dulaimi e Jasim Abbas, sono stati impiccati alle 10 del 1° settembre a Baghdad. “Nonostante tutte le condanne degli stati che vogliono che noi aboliamo la pena di morte, credo che la pena capitale ci aiuti a scoraggiare alcuni criminali”, ha dichiarato Kubba.

I tre uomini ‘giustiziati’, appartenenti al gruppo armato Ansar al-Sunna, erano stati condannati a morte il 22 maggio scorso nella città di al-Kuta a sud est di Baghdad, per rapimento, uccisione di poliziotti e stupro di donne.

Puntuali - e fermamente respinte al mittente dal governo iracheno - sono giunte le proteste dell’Unione Europea e delle Nazioni Unite per la ripresa delle esecuzioni.

Almeno altre 50 persone sono state condannate a morte di recente in Iraq e si temono a breve altre esecuzioni. E’ più che probabile che la pena di morte diventi parte integrante di un universo penale smisurato e crudele, noto per le sistematiche torture e le estese violazioni dei diritti processuali ai danni di migliaia e migliaia di persone detenute in condizioni inaccettabili.

Risultano così definitivamente vanificate le illusioni che aveva creato la sospensione della pena di morte in Iraq da parte del Governatore americano Paul Bremen nel 2003 subito dopo la deposizione di Saddam Hussein.

Nonostante le proteste del Regno Unito, dell’Europa e dell’ONU, la nuova autorità irachena aveva ripristinato la pena capitale l’8 agosto del 2004, con grande enfasi. Si è trattato uno dei primi atti istituzionali del governo iracheno di Ayad Allawi. All’inizio dello scorso mese di ottobre la pena di morte è stata estesa in Iraq a chiunque provochi, pianifichi o finanzi atti di terrorismo. Sulle pressioni del mondo civilizzato hanno evidentemente preso il sopravvento la violenta cultura del paese e l’influenza americana.

 

 

11) PRIMO PROCESSO, SENZA GIUSTIZIA PER SADDAM HUSSEIN, E PER IL MONDO

 

A pochi giorni dal molto discusso referendum sulla Costituzione in Iraq, il 19 ottobre è stato dato strategicamente il via al primo processo a carico di Saddam Hussein, la cui istruttoria era terminata a metà luglio.

Di una serie di crimini compiuti nella città di Dujayl a partire dal 1982, sono accusati, oltre a Saddam Hussein, sette suoi ex collaboratori: Awad Hamed Bandar, ex presidente del Tribunale Rivoluzionario iracheno, Barzan Ibrahim Hasan, vice capo della Polizia segreta nel 1982, Taha Yassin Ramadan, fratellastro di Saddam ed ex vice presidente dell’Iraq, e quatto esponenti del partito Baath di Dujayl all’epoca dei fatti: Abdullah Kadhem Ruwayyid e suo figlio Mizhar Abdullah Ruwayyid, Ali Dayim Ali e Mohammed Azzawi Ali.

La zona in cui si è riunito il Tribunale Speciale è stata posta sotto assedio per ragioni di sicurezza. La TV ha mostrato solo uno su cinque giudici presenti, il curdo Rizgar Mohammed Amin, presidente del Tribunale, che ha interrogato gli imputati. Degli altri quattro giudici viene tenuta rigorosamente segreta l’identità per ragioni di sicurezza.

Come mostrato anche dai nostri telegiornali, in un’aula attrezzata scenograficamente con vistose gabbie-recinto bianche, la prima udienza ha visto Saddam Hussein e i sette coimputati sfidare apertamente il Tribunale Speciale. Gli accusati si sono rifiutati persino di fornire le proprie generalità. Saddam, dichiarando di ritenersi tuttora il Presidente dell’Iraq, ha detto: “Io non rispondo a questa sedicente corte”.

Tutti gli imputati, a cominciare da Saddam, si sono dichiarati non colpevoli.

Il processo, dopo tre ore utilizzate per esporre i capi di imputazione, è stato subito chiuso ed aggiornato al 28 novembre. Motivi del rinvio sono stati la necessità per il Tribunale di esaminare quattro mozioni della difesa – che contesta gravi violazioni dei diritti degli imputati – ed anche  l’assenza di alcune decine di testimoni, terrorizzati per le possibili rappresaglie. La difesa aveva chiesto una sospensione di tre mesi.

Abbiamo denunciato ripetutamente il modo inaccettabile con cui si è preparato il processo contro l’ex dittatore iracheno (v. ad es. nn. 119, 120, 122, 124, 127). Saddam, catturato dagli Americani il 14 dicembre 2003 e passato illegalmente dagli Americani agli Iracheni, è stato sottratto alla giurisdizione della Nazioni Unite che sole avrebbero avuto l’autorità e la possibilità di processarlo in modo giusto ed esauriente. A fine ottobre 2004 l’ONU ha declinato la richiesta di partecipare alla formazione dei giudici e degli accusatori del tribunale speciale iracheno che doveva processare Saddam, per evitare di dargli una parvenza di regolarità. Un portavoce di Kofi Annan in quella occasione ha affermato che “le regole del tribunale speciale non raggiungono un minimo standard di giustizia.”

A Saddam non è mai stato accordato il diritto ad una difesa legale degna di questo nome. Gli si dovrebbe riconoscere il diritto sacrosanto alla difesa ed anche la possibilità di contrattaccare, se lo ritenesse opportuno. Solo così si potrebbe fare chiarezza su avvenimenti gravissimi e assai oscuri nella storia dell’Iraq e del mondo intero.

Dovrebbero essere contestate a Saddam Hussein tutte le violazioni dei diritti umani di cui si è reso responsabile. Invece le imputazioni contro di lui sono state accuratamente selezionate. Sono state escluse tutte quelle per cui l’imputato eccellente potrebbe dire fino a che punto gli Stati Uniti e altri paesi occidentali furono coinvolti nei misfatti commessi. Sembra che per evitare accuse di rimbalzo (e ce ne sarebbero tante, tutte motivate), gli stessi Stati Uniti abbiano imbeccato la corte irachena sui crimini per i quali processare l’ex dittatore iracheno.

Si è deciso di spezzettare gli addebiti contro Saddam in accuse parziali, e di sottoporlo a diversi procedimenti (si parla di 11 gruppi di accuse). Gli addebiti sui quali si è imbastito il primo processo, pur riguardando un episodio assai circoscritto, sono di una di gravità tale da comportare, secondo la nuova legislazione irachena, una condanna a morte. L’esecuzione di una sentenza capitale per impiccagione deve avvenire a norma di legge entro 30 giorni dal respingimento dell’appello.

In concreto il primo processo giudica le responsabilità degli otto imputati nelle esecuzioni sommarie di 146 Sciiti a Dujayl, una città a nord di Baghdad, in risposta ad un attentato fallito del 1982 contro la vita di Saddam.

Alla difesa del dittatore non è stato permesso di avere colloqui privati con l’imputato, e, nonostante il governo iracheno sbandieri ai media che Saddam è difeso da una schiera di avvocati, in realtà solo uno di costoro ha avuto accesso all’ultimo momento ai documenti processuali. Inoltre voci ricorrenti asseriscono che durante l’occupazione del palazzo di Saddam da parte delle forze armate americane, le carte più compromettenti, comprovanti precedenti alleanze americane con il dittatore, siano state accuratamente cercate, trovate e fatte sparire.

Il processo è quindi una farsa. L’avvocato d’ufficio, Khalil al-Dulaimi, ha dichiarato che questo processo deve considerarsi nullo in quanto egli non ha avuto assolutamente il tempo necessario di esaminare la montagna di documentazione che riguarda i primi capi di imputazione, premessa indispensabile alla preparazione di una difesa decente. All’avvocato non è stata neppure notificata la decisione di avviare il processo così presto. Sembra che il neo-governo iracheno abbia grandissima fretta di processare Saddam per un solo crimine di alto profilo, di trovarlo colpevole, di condannarlo a morte e di giustiziarlo quanto prima. Ciò troncherebbe la serie di processi ipotizzati che prima o poi coinvolgerebbero inevitabilmente anche le attuali autorità irachene, il cui passato è tutt’altro che immacolato, e, più ancora, il governo degli Stati Uniti.

Potrebbe stupire questa nostra denuncia delle ingiustizie perpetrate contro l’ex dittatore, dal momento che comunque Saddam è effettivamente reo di gravissimi crimini contro l’umanità. Ma noi siamo in ogni caso contrari alla negazione dei diritti civili e ci opponiamo alla pena di morte, anche per un personaggio come Saddam.

Ci turba inoltre la grandissima ipocrisia con cui si sbandiera questo ingiusto processo contro un imputato che, per di più, negli ultimi due anni ha subito umiliazioni tremende, maltrattamenti e scherno.

Tanto varrebbe che entrassero nella cella di Saddam e lo freddassero senza neppure processarlo, almeno si eviterebbe una sadica messinscena, irrispettosa dell’imputato e delle sue vittime.

Invece, colmo dei colmi, si simula un perbenismo e un garantismo di facciata.

A questo proposito rileviamo un’ulteriore squallida ambiguità nelle dichiarazioni rilasciate nella prima metà di ottobre dall’attuale presidente iracheno Jalal Talabani (lo stesso che in settembre aveva diffuso alla stampa  la “buona notizia” di una asserita ‘confessione’ di Saddam).

Leggiamo la trascrizione di un tratto dell’intervista rilasciata da Talabani il 5 ottobre a Radio Free Europe, che si commenta da sé.

Domanda: “Lei firmerà un mandato di esecuzione se Saddam Hussein verrà condannato a morte?”

Risposta di Talebani: “No. Sono un uomo che si sente obbligato dalla sua firma e dai suoi principi morali. Sono uno degli avvocati che ha firmato un documento internazionale contro la pena di morte che ha fatto il giro del mondo. Ho anche un accordo con il Comitato internazionale della Croce Rossa di non applicare la pena di morte. Questa è la ragione per cui non posso infrangere i miei obblighi morali da quando sono diventato il presidente della repubblica irachena. Questo non significa tuttavia che io proibirò di eseguire la condanna a morte. E’ possibile che io sia assente [dal mio ufficio] un giorno particolare e che i restanti colleghi del Consiglio di Presidenza [intendendo i Vice presidenti Ghazi Ajil al-Yawar e Abdil Abd al-Mahdi] possano decidere. La decisione [sull’esecuzione] non è nelle mani del presidente della repubblica. E’ nelle mani del Consiglio di Presidenza, dei suoi tre membri. Ma accade a volte che uno di loro sia assente.”  (Grazia)

 

 

12) CORTE SUPREMA: CONFERMA PER  ROBERTS E STOP PER LA MIERS

 

Prima ancora che venisse colmato il vuoto creatosi il 1° luglio nella Corte Suprema con le dimissioni della Giudice Sandra Day O’Connor, si è resa necessaria la sostituzione del Chief justice (Giudice presidente) William Rehnquist: ottantenne e malato ma sempre attivo, Rehnquist era deceduto all’improvviso il 3 settembre.

Il presidente Bush ha subito deciso di nominare Chief justice il giudice John Roberts da lui in precedenza designato quale successore alla giudice O’Connor (v. n. 131).

Roberts superato un difficile esame da parte del Senato, che ha ratificato con 78 voti contro 22 la sua nomina, è stato ufficialmente insediato il  29 settembre in modo da poter presiedere la Corte Suprema dall’apertura della sessione autunnale stabilita per il 3 ottobre.

Rimanendo di nuovo scoperto il seggio della O’Connor, Bush ha designato a sorpresa l’avvocatessa Harriet Miers, in quel momento Consigliere legale della Casa Bianca. La Miers - che non compariva nell’elenco dei possibili candidati fatto dai commentatori politici - pur non avendo esperienza come giudice ha potuto contare del grande vantaggio di essere amica personale di George W. Bush (il quale è stato in passato anche un suo importante cliente privato.)

Harriet Miers, texana di Dallas, ha 60 anni. Ha percorso una carriera certamente brillante come avvocato civilista (tra i suoi clienti vi furono oltre a George W. Bush, anche la Microsoft e la Walt Dysney) ma vuota sul versante penale.

La conferma senatoriale della Miers – che sarebbe stata la seconda donna  a far parte della Corte suprema attuale e la terza a entrarvi nella storia degli Stati Uniti – è apparsa subito meno probabile di quanto lo sia stata quella di Roberts. In molti – anche tra gli ultraconservatori - obiettavano che la Miers non ha esperienza come giudice e non ha accumulato una sufficiente quantità di dichiarazioni e di atti ufficiali per consentire al Senato di valutare la sua personalità prima del conferirle a vita e senza riserve l’incarico di giudice nella Corte suprema. Si rimproveravano inoltre ad Harriet Miers alcune mancanze nella condotta da lei tenuta come avvocato (in un’occasione le fu sospesa la licenza), i sui errori di sintassi, situazioni imbarazzanti in cui più volte si è cacciata suscitando anche l’ilarità di suoi irrispettosi detrattori, numerosi episodi di smaccata adulazione nei confronti di George W. Bush.

Dando sicuramente una bruciante delusione al presidente Bush, larghe fasce dell’attivismo conservatore si sono rifiutate di impegnarsi in una campagna di appoggio della ratifica della nomina di Harriet Miers ed anzi hanno remato decisamente contro con una fastidiosa pressione in Internet.

Alla fine numerosi senatori sia repubblicani che democratici hanno finito per porsi di traverso alla nomina di Harriet Miers chiedendo con insistenza che venisse reso pubblico il carteggio intercorso negli anni tra la Candidata e il Presidente. Lo stesso presidente del Senato Arlen Specter il 27 ottobre ha scritto una lettera ultimativa alla Miers: la conferma sarebbe avvenuta solo se lei fossa stata capace di convincere il Senato sulla sua futura totale indipendenza da Bush nell’esame dei casi presentati alla Corte Suprema (a cominciare dai tre casi riguardanti le detenzioni a Guantanamo attualmente pendenti.).

Lo stesso giorno si è saputo che la Miers - anziché preparasi per un difficilissimo cimento in Senato - ha preferito mollare. Bush ha subito ritirato la sua nomina riservandosi di scegliere al più presto un altro personaggio. Questa volta stando più attento al gradimento dei conservatori!

Alla fine saranno comunque due i membri nominati da George W. Bush nella Corte Suprema USA nell’arco di sei mesi e ad 11 anni dalla precedente modifica della composizione della massima corte statunitense. Entrambi i nuovi membri saranno rigorosamente di fede repubblicana e conservatrice e condivideranno i principi di filosofia istituzionale di George W. Bush (‘I giudici devono interpretare fedelmente la Costituzione e la legge anziché legiferare dalla cattedra’). Dato che andranno a sostituire due giudici conservatori, è probabile che gli equilibri all’interno della massima corte per quando riguarda la pena di morte rimangano immutati.

Ma potrebbero anche peggiorare, dato che uno dei membri uscenti, Sandra Day O’Connor, dimostrava una certa indipendenza di giudizio votando e in qualche caso con i giudici più progressisti (v. n. 131).

 

 

13) MA COME LA PENSA VERAMENTE IL CHIEF JUSTICE JOHN ROBERTS?

 

John Roberts, nuovo ‘Chief justice’ degli USA, ha cinquant’anni ed è probabile che rimarrà a capo del massimo organo giudiziario statunitense per svariati decenni. Avrà sicuramente un apprezzabile e duraturo influsso sulla vita e sulla storia degli Stati Uniti e, di conseguenza, del mondo intero. E’ quindi comprensibile che i commentatori si impegnino al massimo per capire come la pensi e, di conseguenza, per prevedere quali saranno le sue prese di posizione.

Vogliamo qui delineare la figura del giudice Roberts tenendo particolarmente presente la pena di morte, a completamento dell’analisi che abbiamo iniziato nel precedente n. 131.

Nel corso del mese di settembre, durante le audizioni in vista della conferma senatoriale, per effetto delle domande incalzanti dei senatori Durbin, Leahy e Feingold, John Roberts ha chiaramente riaffermato alcuni stereotipi tipici dei conservatori che sostengono la pena di morte.

Tanto per cominciare ha ribadito la sua contrarietà al prolungarsi degli appelli dei condannati alla pena capitale. Secondo lui, la consapevolezza che rimangono ai condannati a morte un gran numero di occasioni di ricorso porterebbe oltre tutto le corti ad infliggere sentenze di morte con minore prudenza.

Nel 1981 – lavorando nell’amministrazione Reagan – Roberts aveva addirittura manifestato una totale contrarietà agli habeas corpus federali. Oggi precisa che la sua opposizione si riferiva alla situazione di allora, corretta a suo dire dall’Atto Antiterrorismo e per il Rafforzamento dell’efficacia della Pena di Morte del 1996 (che ha limitato fortemente, nel numero e nel tempo, le possibilità di avanzare appelli di habeas corpus nelle corti federali.) 

Nel 1993 – in qualità di Vice avvocato generale (Deputy solicitor) del Governo federale - aveva sostenuto l’opportunità che la Corte Suprema respingesse il ricorso di Leo Herrera, condannato a morte in Texas, il quale, giunto alla soglia dell’esecuzione, pretendeva che fossero esaminate alcune prove di innocenza venute recentemente in luce. Rispondendo ai senatori, Roberts ha affermato in modo insistente e ripetitivo che nel caso Herrera v. Collins la Corte Suprema non fu chiamata a decidere sulla liceità costituzionale di sottoporre ad esecuzione un individuo potenzialmente innocente, bensì a porre un limite ai ricorsi prodotti dalla difesa pur di rimandare sine die l’esecuzione (“La Costituzione dà diritto ad un prigioniero di esigere una revisione giudiziaria delle… nuove prove, invece di cercare di ottenere il proscioglimento nell’ambito dell’istituto della clemenza? Secondo le nostre vedute, la Costituzione non riconosce al prigioniero un tale diritto”).   

Herrera sosteneva di essere innocente perché il delitto a lui ascritto fu commesso da suo fratello (nel frattempo deceduto) come risultava da una dichiarazione giurata di costui e dalla testimonianza di un suo nipotino. Roberts ha detto che per parlare seriamente di innocenza a quello stadio dell’iter giudiziario si sarebbe dovuta portare una prova ben più consistente, per esempio l’esito di  un test del DNA. (Leo Herrera fu ‘giustiziato’ un mese dopo il respingimento del suo ricorso alla Corte Suprema).

Roberts  – pur essendo convinto che nei casi capitali le corti debbano procedere con eccezionale cautela - ritiene che per diminuire la probabilità di mettere a morte degli innocenti la ricetta sia essenzialmente quella di dotare gli accusati di reati capitali di buoni avvocati difensori. Il rischio dell’errore è insito in ogni attività umana e, a suo avviso, non si potrà mai evitare del tutto.

Come abbiamo riferito nel numero 131, il fatto che siano stati esonerati ben oltre 100 condannati a morte dal 1977 in poi, portò Roberts a dire nel 2001 che ciò gli suggerisce, di primo acchito, che ‘il sistema funziona’.

A detrimento della reputazione del nuovo Giudice Capo della Corte Suprema USA per quanto riguarda la protezione diritti umani, c’è infine la sentenza del 15 luglio della Corte di Appello federale del Circuito del Distretto di Columbia, da lui presieduta, che approvò la detenzione senza accusa e senza processo di centinaia di sventurati cittadini stranieri nel lager di Guantanamo.

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(1)  E’ questa una materia attualissima dal momento che è in gestazione al Congresso lo Streamlined Procedures    Act con cui si intende dare un ulteriore drastico taglio agli habeas federali (v. n. 131)

 

 

14) IL GIUDICE ROBERTS, LA RAGAZZINA E LA PATATINA FRITTA

 

Il neo Giudice Capo della Corte Suprema USA, John Roberts, che prende il posto del defunto giudice William Rehnquist, preoccupa non poco a causa della sua mentalità rigida e conservatrice dimostrata dai suoi precedenti in qualità di giudice federale: potrebbe condizionare negativamente il godimento dei diritti umani negli USA, per decenni.

Pur riservandoci di esprimere un giudizio più preciso quando Roberts ricoprirà effettivamente la carica per la quale è stato scelto da Bush, non possiamo nascondere la nostra apprensione, suscitata da alcune sentenze da lui firmate in passato. Una di queste sentenze, pur non essendo costata per fortuna la vita a nessuno, riguarda un caso assurdo, che sarebbe davvero ridicolo se non avesse inflitto sofferenza e oltraggio ad una ragazzina di dodici anni.

Narriamo prima il fatto. Il 23 ottobre 2000, Ansche Hedgepeth, di 12 anni, mentre aspettava una compagna di scuola all’interno di una stazione della metropolitana di Washington, aprì un pacchetto di patatine fritte e ne mangiò una. Sennonché in quel periodo il Distretto di Columbia aveva stabilito di applicare la cosiddetta “tolleranza zero” per i reati commessi all’interno delle stazioni della metropolitana e uno dei reati previsti era quello di consumare cibo all’interno delle stazioni. Bene, Ansche, dopo aver mangiato la patatina, si vide bloccare la strada da un poliziotto che la avvertì che l’avrebbe arrestata, cosa che fece subito. Ammanettò Ansche con le mani dietro la schiena, un collega la perquisì e perquisì il suo zaino scolastico, poi le tolsero i lacci delle scarpe (è previsto in caso di arresto) e la fecero sedere sul sedile posteriore di una vettura della polizia in un compartimento chiuso. Fu condotta in un centro di detenzione per minorenni e schedata (le furono prese le impronte digitali e scattate le foto segnaletiche). Ansche, umiliata e terrorizzata, pianse per tutto il periodo di questo vergognoso trattamento. Tre ore dopo l’arresto, la ragazzina fu restituita alla madre.

La mamma di Ansche sporse querela contro la polizia e il Distretto di Columbia, con l’accusa di aver violato il Quarto e Quinto Emendamento della Costituzione. Questi emendamenti affermano rispettivamente che nessun cittadino può essere discriminato (i minorenni venivano arrestati in caso di violazione dei regolamenti nelle stazioni della metro, mentre agli adulti veniva notificata una contravvenzione) e che non si può privare arbitrariamente un cittadino della sua libertà di movimento.   

La Corte distrettuale non diede ragione alla ragazzina che perse la causa. Il fatto che i minorenni non fossero soggetti alla stessa regola dei maggiorenni – fu affermato - era giustificato perché costoro sono raramente in possesso di documenti di identità e sono inclini a mentire sui propri dati identificativi. La Corte affermò inoltre che la violazione della libertà individuale di movimento non è perseguibile se si tratta di un arresto conseguente ad un reato. Infatti, era evidente, Ansche aveva commesso il “reato”.

Nonostante questa sentenza, la “tolleranza zero” per le infrazioni commesse nella metropolitana fu annullata, così come l’ordine di intervenire in maniera brutale da parte della polizia, proprio in seguito alla pubblicità negativa di questo incidente.

Il problema, al di là del danno psicologico subito da una dodicenne per un simile trattamento, è che, avendo perso la causa, il procedimento penale a carico di Ansche non è stato annullato, e questo fa sì che lei si ritrovi con una fedina penale sporca. Se le verrà domandato, in varie occasioni della vita, se è mai stata arrestata, Ansche dovrà rispondere affermativamente e sarà poi difficile spiegare che fu arrestata per aver mangiato una patatina fritta.

Mangiare una patatina fritta può essere considerato un comportamento abbastanza rilevante da privare un individuo di diritti garantiti dalla Costituzione?

Ansche si appellò alla Corte federale d’Appello del Circuito del Distretto di Columbia contro la sentenza che le dava torto. Il giudice che presiedeva allora la corte era proprio il nostro John Roberts. Bene, il 26 ottobre 2004 in una dissertazione di diciotto pagine, Roberts soppesò tutte le obiezioni dell’avvocato accusatore dei poliziotti e dello stato di Columbia, e giunse al verdetto definitivo pronunciando questa sentenza, che riportiamo testualmente:

“Nessuno è molto contento dei fatti che hanno condotto a questa querela. Una ragazzina dodicenne fu arrestata, perquisita e ammanettata. I lacci delle sue scarpe furono rimossi e lei fu trasportata nel compartimento posteriore di un’auto senza vetri ad un riformatorio per minorenni, e trattenuta fino alla consegna alla madre circa tre ore più tardi – il tutto per aver mangiato una patatina fritta all’interno di una stazione della metropolitana. La bimba era spaventata, imbarazzata, e pianse per tutto il dramma. La Corte distrettuale ha descritto le procedure che hanno condotto al suo arresto come “stupide”, e di fatto queste procedure furono cambiate dopo che i responsabili subirono la pubblicità riservata a chi fa piangere le ragazzine. La questione portata davanti a noi, tuttavia, non è se queste procedure furono una cattiva idea, ma se esse violarono il Quarto e Quinto Emendamento della Costituzione. Come già ha fatto la Corte distrettuale, anche noi concludiamo che non le violarono, e di conseguenza confermiamo la precedente sentenza.” (Grazia)

15) TORTURE NEGATE, TORTURE UFFICIOSE, TORTURE UFFICIALI

 

Scrive il Washington Post in un editoriale il 26 ottobre: “Il Vice presidente Cheney sta perseguendo aggressivamente un’iniziativa che se portata a termine non avrebbe precedenti tra i membri eletti in un esecutivo: sta proponendo che il Congresso autorizzi per legge violazioni dei diritti umani da parte degli Americani. I trattamenti “crudeli, inumani e degradanti” dei prigionieri sono banditi da un trattato internazionale negoziato dall’amministrazione Reagan e ratificato dagli Stati Uniti. Il Dipartimento di Stato ogni anno fa uscire un rapporto che critica gli altri governi che lo violano. Ora il Signor Cheney sta domandando al Congresso di approvare un testo legale che permetta alla CIA di commettere tali abusi nei riguardi degli stranieri detenuti all’estero. In altre parole, il vice presidente è diventato un aperto promotore della tortura.”

Finora al continuo e ininterrotto stillicidio di notizie riguardanti le torture inflitte dagli Americani (e dei loro alleati) nel corso della cosiddetta guerra al terrore, avevano risposto le smentite sdegnate del governo statunitense. Le dichiarazioni dei vari Rumsfeld, Cheney, Bush, negavano l’esistenza delle torture e quando negare risultava del tutto impossibile – per esempio a causa di raccapriccianti fotografie riprodotte in milioni di copie sulla stampa di tutto il mondo -  le minimizzavano chiamandole ‘abusi’ commessi da ‘poche mele marce’ che, si garantiva, sarebbero state adeguatamente punite.

L’incessante scavare dei giornalisti nei segreti dell’amministrazione e le indagini di membri del Congresso particolarmente sensibili aveva però progressivamente portato in luce una serie di documenti riservati circolanti tra i ‘tecnici’ e i ‘politici’ dell’amministrazione (i famosi ‘memorandum’) il cui scopo era di trovare cavilli e scappatoie per dare una veste legale a vari tipi di maltrattamenti e torture autorizzabili dal presidente del corso della guerra al terrore per determinate categorie di persone. Insomma, ciò che le leggi interne e i trattati internazionali adottati dagli USA proibivano era una pratica ufficiosamente tollerata, anzi perseguita. Come ufficiosamente autorizzata era la pratica della ‘rendition’, cioè dell’affidamento di determinati prigionieri a paesi ‘amici’ noti per l’uso di ogni forma di tortura. (V. ad es. nn. 105, 118, 125)

L’autentico ‘spessore morale’ della presidenza USA si è rivelato questa estate quando il Senato stava preparando un testo legale - da inserire nel maxi decreto finanziario che riguarda la spesa annuale della Difesa(1) - che proibiva esplicitamente trattamenti crudeli, inumani e degradanti inflitti a qualsiasi persona in custodia o sotto controllo degli USA in qualsiasi parte del mondo e precisava che i soli ‘metodi di interrogazione’ ammessi sono quelli descritti nel Manuale Operativo delle Forze Armate. Il vice presidente Dick Cheney, in segreto ma a quanto pare molto irritato, a luglio cominciò a fare pressioni sui senatori per bloccare tale iniziativa, fino a preannunciare il veto del Presidente se essa fosse stata portata avanti comunque.

Sospinto con energia dal senatore John McCain, ex prigioniero di guerra in Vietnam, il contestato provvedimento è stato tuttavia approvato dal Senato il 5 ottobre, in aperta sfida alla Casa Bianca,  con 90 voti a favore e solo 9 contro. Cheney ha reagito con una lettera a McCain del 20 ottobre che - secondo autorevoli fonte anonime – sarebbe stata scritta in collaborazione con Porter J. Goss, Direttore della CIA. Nella lettera Cheney propone che alla proibizione di usare trattamenti crudeli, inumani e degradanti si faccia eccezione per le operazioni antiterrorismo all’estero e per le operazioni condotte da “un elemento del governo degli Stati Uniti” che non appartenga al Dipartimento della difesa.

Si sa che McCain – un repubblicano che pure era stato al fianco di Bush e Cheney al momento di attaccare l’Iraq - ha respinto al mittente la proposta.

Tuttavia alla Camera dei Rappresentanti la corrispondente versione del maxi decreto per il finanziamento della difesa non contiene niente di simile al testo anti-tortura approvato al Senato. Le trattative tra i due rami del Congresso per armonizzare le proposte di legge non sono facili. Inoltre incombe sempre la minaccia del veto del presidente George W. Bush contro una misura che “limiterebbe l’autorità del Presidente di proteggere efficacemente gli Americani da attacchi terroristici e di assicurare i terroristi alla giustizia”.

Il rischio è di finire con un compromesso: una disonorevole mitigazione del testo approvato al Senato.

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(1)  Si tratta di 440 miliardi di dollari

 

 

16) PENA DI MORTE SFRUTTATA A FINI ELETTORALI

 

Fattori emotivi ed irrazionali continuano a sostenere la pena capitale negli Stati Uniti. I politici, approfittando del favore popolare per la pena di morte a fini elettorali e di potere, finiscono per legittimarlo e ravvivarlo. E’ un circolo vizioso che crea i maggiori ostacoli al processo abolizionista.

Stanley Rosenbluth, padre di due ragazzi assassinati, dice in TV: “Tim Kaine afferma che Adolf Hitler non meriterebbe la pena di morte. Hitler è il peggiore omicida di massa dell’era moderna”.

Non si tratta di una rassegna del cattivo gusto, ma di uno dei tanti spot elettorali che tempestano in questi giorni i cittadini della Virginia.

I due più importanti candidati alla carica di Governatore, tra i quali gli elettori saranno chiamati a scegliere fra pochi giorni, sono il repubblicano Jerry W. Kilgore (favorevole alla pena di morte) e Timoty M. Kaine, bersaglio del citato spot, democratico nonché avvocato. Kaine è stato assalito per aver avuto una parte marginalissima nella preparazione di un appello di Mark Sheppard, condannato alla pena capitale per aver trucidato un figlio e una figliastra del signor Rosenbluth.

Il cattolico Timothy Kaine, che pur si era detto contrario alla pena capitale per ragioni di coscienza, ha ribattuto che, una volta divenuto governatore della Virginia, non ostacolerà l’esecuzione dei prigionieri condannati a morte dalle giurie secondo la legge vigente. Egli – smentendo il suo passato - ha aggiunto che in futuro non favorirà in alcun modo qualsiasi richiesta di introdurre una moratoria delle esecuzioni. E la polemica rincorsa sulla strada della pena di morte è proseguita con toni sempre più accesi.

In questa campagna elettorale le argomentazioni sono tutt'altro che serie e puntano preferibilmente sui fattori emotivi atti a suscitare un tifo da stadio più che una pacata e consapevole riflessione.

Inoltre i contendenti, impegnati a parare colpi bassi, a rispondere alle accuse personali e a smentirle, nonché a progettare nuove e più violente aggressioni mediatiche, si producono in una specie di danza macabra, ben lontani dall'affrontare i maggiori problemi che affliggono la Virginia.

L'intensità del bombardamento mediatico, che si aggiunge all'aggressività dei toni, sta esasperando gli elettori, che, poveretti, avrebbero invece bisogno di essere edotti su come si va profilando il loro immediato futuro.

Si può sapere se i candidati hanno intenzione di fare qualcosa per difendere i posti di lavoro? Che progetti hanno per le scuole? Macché: gli esperti dicono che l’aggressione e l’emotività pagano, e allora sotto con lo spot. Per un tal tipo di scontro quale terreno è più adatto della pena di morte? (1)

Se mai i consensi alla pena capitale si fossero assopiti in Virginia, tutto questo baccano non farà che rianimare l'odio e il desiderio di vendetta. (Laura)

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(1)  Una ricerca a posteriori ha rivelato che in questo caso gli spot sulla pena di morte sono stati controproducenti per Kilgore

 

 

17) HO DOVUTO SPIEGARE A MIA FIGLIA IL BRACCIO DELLA MORTE

Lettera di Kenneth Foster,  settembre 2005

 

Cari amici, spero che questa estate abbiate trascorso vacanze gioiose e serene. Un giorno, presto, spero di poter trascorrere anch’io una LUNGHISSIMA vacanza (sorridete).

Ho una storia molto commovente che voglio condividere con voi, che proviene direttamente dalla mia vita personale. Ha un valore e un significato grandissimi.

Solo pochi mesi fa ho avuto la triste esperienza di dover spiegare a mia figlia di 9 anni che sono rinchiuso nel braccio della morte. Per anni questa idea mi ha terrorizzato e non sapevo come parlargliene. Anno dopo anno discutevo di quest’argomento con i miei nonni e amici più intimi.   

Chiedevo: “Come si spiega il braccio della morte ad un bambino?”. Nessuno aveva una risposta. E’ una questione difficile e sfumata. Ognuno a cui chiedevo aveva un’opinione diversa. Alcuni dicevano che avrei dovuto dirglielo perché se poi l’avesse scoperto da altre fonti avrebbe pensato che le avevo mentito. Inoltre, io avrei potuto fornirle le spiegazioni più consapevoli e coscienziose. Altri si opponevano all’idea perché pensavano che avrebbe potuto danneggiare la sua psiche. Questa era l’opinione che mi influenzava di più perché io ho visto con i miei occhi bambini che non hanno preso bene questa notizia. Uno dei miei amici più cari qui dentro l’avevo detto alla figlia (che aveva circa 10 anni) e lei ebbe un crollo di nervi e continuò ad avere incubi in cui sognava l’esecuzione del papà. Ho visto figli e figlie piangere tutte le loro lacrime dopo che fu loro detto che il papà stava per subire l’esecuzione. E’ una cosa dolorosissima da vedere. Non c’era alcun modo in cui io riuscissi ad accettare l’idea che mia figlia dovesse subire una simile esperienza. E così… aspettavo. Ho pregato tanto. Ho pregato che al momento giusto fosse lei a sollevare il problema. E Dio ha ascoltato le mie preghiere.

Durante una visita qualche mese fa mia figlia mi ha chiesto: “Chi sono quelli che si fanno visita laggiù?” – indicando la zona in cui i detenuti non condannati a morte ricevono le visite dei loro cari con contatto. Sapendo che mia figlia è molto acuta, faccio sempre molta attenzione alle mie risposte, così le ho detto che quella è la zona in cui gli altri detenuti ricevono visite ma che a noi non è permesso ricevere visite lì. Le ho detto però che forse il prossimo anno mi sarà permesso ricevere visite in quel luogo. Le ho detto questo pensando alla decisione che ha annullato la mia condanna a morte e che quindi forse lascerò presto il braccio della morte. Senza battere ciglio lei ha risposto: “Sì, la mamma mi ha detto che potresti forse (o forse no) lasciare il braccio della morte”. Mi sono irrigidito! Non avevo mai sentito quelle parole (braccio della morte) uscire dalla sua bocca. Così le ho chiesto cosa sapeva del braccio della morte e da chi aveva avuto le informazioni. Mi disse che quando mio nonno aveva telefonato alla sua mamma comunicandole la sentenza concernente il mio caso, lei aveva ascoltato la conversazione. A questo punto non è chiaro quanto a lungo sua madre sia stata a chiacchierare con lei e le abbia spiegato riguardo al braccio della morte o alla mia situazione in particolare, ma ciò che è chiaro è che mia figlia ha messo insieme i pezzi. Mi ha detto che “Il braccio della morte è un luogo in cui mandano una persona se ha ucciso qualcuno e poi possono uccidere questa persona per VENDETTA” (queste furono proprio le sue parole, di una bambina di 9 anni!). Mi ha chiesto se diceva bene. Le ho risposto di sì. Così abbiamo parlato per un po’ della vita, della morte, del braccio della morte e della mia situazione. Fui davvero molto fortunato, la prese bene. Quando le parlai della decisione in mio favore e del fatto che potrebbero non giustiziarmi, fu molto felice di sentire questa notizia. Un grosso peso è stato sollevato dalle mie spalle quel giorno. Non è facile spiegare il terrore che si prova a trattare di un problema così delicato. Parlammo di molte altre cose quel giorno, ma questa fu un’esperienza che cambiò la mia vita. Mi permise di trovare un po’ di pace.

Vi racconto questo fatto per dirvi che questo è un aspetto della pena di morte che non osserviamo mai. Non vedono mai, né ascoltano, le storie dei bambini, delle madri, dei padri eccetera. Mentre anche loro sono vittime, il sistema spazza e mette da parte il loro dolore come se non contasse nulla. Invece questo è un esempio di come il ciclo di dolore e sofferenza continui. Se il sistema si preoccupasse davvero del benessere sociale, e non della vendetta, come mia figlia ha sottolineato, cercherebbe la guarigione e non l’odio. Questo è un aspetto del braccio della morte di cui la gente non sente mai parlare. I media e politici odiosi cercano di dipingerci senza cuore, freddi, privi di emozioni. Hanno cercato di spogliare ogni uomo qui dentro della sua umanità (e non tutti gli uomini qua dentro hanno commesso omicidi – come nel mio caso). Eppure essi diffondono queste bugie che creano una barriera insormontabile.

I condannati a morte sono esseri umani e provano emozioni. Molte volte ci consigliamo tra noi su argomenti come questo. Dopo aver fatto una ricerca interiore e corretto i nostri difetti (mentalmente, spiritualmente e fisicamente), cerchiamo i modi di alleggerire questa situazione così dura. Le conversazioni che si svolgono qua dentro sono incredibili. Molti condannati sono arrivati qui erano ancora adolescenti, giovani uomini, e non hanno mai imparato veramente come vivere o come essere genitori. Non è giusto dire che siamo genitori completi perché non possiamo provvedere ai nostri figli come voi fate, ma non si può neppure trascurare il valore spirituale ed emotivo di un rapporto genitore-figlio. Pertanto condividiamo tra noi le nostre opinioni, esploriamo i nostri pensieri, le nostre emozioni e cerchiamo di aggrapparci a frammenti di amore, di compassione e di saggezza che pure il sistema ha cercato di strapparci di dosso.

Tristemente il sistema ignora queste cose. Il sistema instilla odio e sofferenza e queste sono invece le storie che dobbiamo raccontare al pubblico. Se non siamo in grado di bussare alle vostre coscienze e al vostro cuore, allora non potremo vincere questa battaglia.

Finisco il mio discorso con due versetti tratti dalla Bibbia che mi commuovono davvero riguardo a tutto ciò che ho detto oggi. Si tratta dei versetti 12 e 13 in Efesini 6: “Infatti non lottiamo contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Podestà, contro i dominatori di questo mondo oscuro, contro gli spiriti maligni che abitano nelle regioni celesti. Perciò indossate l’armatura di Dio, per resistere nel giorno malvagio e restare in piedi dopo aver superato tutte le prove.”

 

 

18) COSMETICI DI ORIGINE CINESE? NO, GRAZIE…

 

Il collagene è una proteina di alto valore cosmetico che viene iniettata sotto pelle dai chirurghi plastici per eliminare le rughe, ridare tono e ispessire le labbra, e per attenuare le cicatrici provocate dalle ustioni. Il giornale inglese “The Guardian” ha svolto un’indagine sul collagene importato dalla Cina in Inghilterra per uso cosmetico. Come mai il collagene proveniente dalla Cina costa fino al 95% in meno di quello prodotto altrove? La risposta è semplice e sconvolgente: esso è ricavato in gran parte dalla pelle asportata ai condannati a morte appena uccisi (per Amnesty International almeno 3.400 condannati siano stati uccisi in Cina nel 2004 ma il numero reale dei ‘giustiziati’ potrebbe essere molto più alto).

Le leggi che controllano la qualità dei prodotti cosmetici sono piuttosto carenti in Inghilterra e in genere in Europa. Il collagene, materiale elastico che si trova nella pelle, nei tendini e nelle cartilagini delle ossa lunghe, viene ricavato di solito dalle mucche e dai maiali. Vi sono inoltre svariati metodi di produzione “in vitro”. In Cina, secondo i rappresentanti di una nota casa produttrice di collagene (non nominabile per ragioni legali), la maggior parte del collagene viene ricavato dai prigionieri uccisi. Questi operatori hanno dichiarato che il fenomeno sta andando avanti da anni e che la popolazione cinese ne è perfettamente consapevole. Si sono dimostrati molto stupiti del “baccano” che invece questa rivelazione ha prodotto in Europa.

Al di là del problema etico che ci sta di fronte, il rischio di gravi infezioni che possono derivare dal collagene umano è enorme. E’ pur vero che prima di effettuare i trattamenti con il collagene (che possono ripetersi a volte in numerose sedute, perché la proteina viene in parte assorbita ed eliminata) i chirurghi plastici iniettano una piccola quantità di sostanza per scoprire eventuali reazioni allergiche, ma si danno casi di rigetto, di tumefazioni abnormi, di gravi infiammazioni e anche della produzione di lesioni e cicatrici in persone trattate con questi prodotti. Si teme inoltre che il rischio di infezioni prodotte da virus di origine ematica, incluso il virus dell’AIDS, sia molto elevato.

Anche se il governo cinese ha sempre cercato di minimizzare lo scandaloso problema del traffico di organi ricavati dai prigionieri messi a morte affermando che i casi di espianto erano sempre stati autorizzati dai condannati e dai loro familiari, si sa che invece il fenomeno è dilagante e perverso.

Nel 2001 Wang Guoqi, un ex medico militare cinese, richiedente asilo in America, dichiarò ai membri del Congresso di aver lavorato sui luoghi di esecuzione aiutando i chirurghi ad espiantare gli organi di oltre cento prigionieri uccisi, senza il loro precedente consenso (v. n. 87, Notiziario). I chirurghi utilizzavano furgoni parcheggiati vicino ai luoghi di esecuzione per iniziare immediatamente a sezionare i corpi. La pelle era molto apprezzata per trattare le vittime di ustioni e il dottor Wang dichiarò di aver scuoiato nel 1995 un prigioniero appena giustiziato, mentre il suo cuore ancora batteva. Anche le cornee e altre parti del corpo (per esempio le mani) venivano usate per i trapianti e l’ospedale militare vendeva gli organi a scopo di lucro.

Se si pensa alle campagne in corso da anni per evitare di far soffrire gli animali da laboratorio e a quante donne ormai rifiutino di acquistare cosmetici testati sugli animali, pare incredibile che si faccia un uso frivolo di prodotti derivanti dalla sofferenza e dalla morte di esseri umani. (Grazia)

 

 

19) A TUTTI I CORRISPONDENTI DEI DETENUTI: PROCURATEVI TESTI POETICI!

 

Sono molteplici i meriti di Marco Cinque in campo abolizionista, non ultimo quello di colorare di musica e di poesia il lugubre e crudele scenario della pena di morte. Marco in questo periodo sta portando avanti con fede e con entusiasmo un progetto suggestivo: la realizzazione di un’opera che contenga testi poetici sulla pena di morte da sfruttare soprattutto in situazioni scolastiche ed ‘educative’ in senso lato. Il titolo provvisorio dell’opera è: “Poeti da morire”. Per questo Marco invita tutti coloro che corrispondono con i condannati a morte a raccogliere ed inviargli testi poetici sulla pena capitale scritti dai detenuti. Testi di tutti i tempi, di tutti i generi, editi ed inediti. Non importa, purché si tratti di testi di un certo valore. Ed anche illustrazioni. Ecco la richiesta di Marco ai lettori.

 

Stiamo raccogliendo poesie (edite e inedite), dal braccio della morte, per selezionarle e inserirle in un’antologia i cui diritti d’autore andranno interamente ai detenuti o a finanziare attività abolizioniste.

Il volume comprenderà una prima e più sostanziosa parte realizzata coi testi poetici di condannati e condannate alla pena capitale. La seconda parte comprenderà invece poesie di scrittori e poeti nazionali e internazionali contro la pena di morte. Saranno riprodotte anche illustrazioni in bianco e nero realizzate dai prigionieri.

Il libro potrebbe essere uno strumento importante per organizzare recite e reading, accompagnati con musica e immagini, da spendere nel vivo del tessuto sociale, soprattutto nelle scuole.  Uno strumento che rappresenterebbe una risorsa concreta, insomma, per denunciare l’orrore della pena di morte, per sensibilizzare la comunità con linguaggi che vanno al di là della retorica e toccano le corde del “sentire” oltre che del “capire”.

Ovviamente non tutti i testi spediti verranno pubblicati, ma ci sarà una selezione dei migliori scritti finalizzata a realizzare un lavoro che abbia anche una valenza letteraria.

Che c’é di meglio di un messaggio che dimostri che da quei luoghi e da quelle persone considerate addirittura indegne di vivere, possano arrivarci lezioni di bellezza e di vita?

Aspettiamo fiduciosi, dunque… Un forte abbraccio generalizzato da Marco.

 

Potete inviare i testi (ed eventuali illustrazioni) al nostro indirizzo postale – o e-mail - che trovate in fondo ovvero direttamente a Marco Cinque all’indirizzo:  cinquemarco@libero.it

 

 

20) NOTIZIARIO

 

Iran. Condanne a morte di minorenni e lapidazioni. Il 20 ottobre di Amnesty International ha denunciato il perdurare della pena di morte minorile e delle condanne alla lapidazione in Iran nonostante le rassicurazioni e gli impegni delle autorità. Nel 2005 sarebbero state almeno sette le esecuzioni di minorenni all’epoca del crimine. Il 15 ottobre una donna sarebbe stata condannata alla lapidazione.

 

Usa. Corte federale ammette le detenzioni senza accusa e senza processo. Dando un ulteriore schiaffo ai diritti umani, la Corte di Appello federale del Quarto Circuito, nota per il suo conservatorismo e per la sua vicinanza alla Casa Bianca, annullando la decisione di una corte inferiore, ha affermato l’autorità del Presidente di detenere senza accusa e senza processo perfino un cittadino statunitense catturato in patria. Nella sentenza, la corte ha asserito che tale autorità è vitale in tempo di guerra per proteggere la nazione dagli attacchi terroristici. Il caso su cui si è decisa la questione è quello di Jose Padilla arrestato nel maggio 2002 e designato ‘nemico combattente’ dal presidente Bush. Tale caso potrebbe costituire presto un banco di prova per la rinnovata Corte Suprema degli Stati Uniti.

 

Usa. Molteplici denunce di torture in Afghanistan e in Iraq. Un rapporto di 30 pagine di Human Rights Watch di fine settembre riferisce circostanziate denunce, fatte da tre militari statunitensi, di maltrattamenti e torture inflitti sistematicamente ai prigionieri in Iraq e in Afghanistan nell’indifferenza o acquiescenza dei comandi. Si parla fra l’altro di ‘piramidi di detenuti’ usuali già prima dello scandalo di Abu Ghraib, di abusi sessuali, di costrizione in posizioni stressanti, dell’obbligo all’esercizio fisico fino all’estremo sfinimento, dell’esposizione agli elementi, della deprivazione dal sonno, dei pestaggi regolari con fratture ossee, delle minacce di morte. Il tutto incoraggiato dall’intelligence militare. Il 25 ottobre l’ACLU ha denunciato che tra gli oltre 100 detenuti che sarebbero deceduti in custodia degli Americani in Iraq e in Afghanistan, almeno 21 risultano classificati come ‘uccisi’ negli stessi atti del Dipartimento della Difesa (molti dei quali uccisi durante o dopo gli ‘interrogatori’.) In agosto e settembre un lungo sciopero della fame di almeno 128 prigionieri di Guantanamo contro la detenzione indefinita e contro le torture ha indotto le autorità a disporre la nutrizione forzata per endovena per 18 detenuti.

 

Usa. Nove le condanne per Abu Ghraib. I militari americani condannati per gli ‘abusi’ di Abu Ghraib sono 9, tutti di basso rango. Le condanne vanno dal licenziamento ad un massimo di 10 anni di carcere, inflitti al caporale Cherles A. Graner, definito un capo banda. L’ultima ad essere giudicata e stata la giovanissima ‘star’ delle famose foto ricordo, Lynndie R. Englang: l’amante ventiduenne di Graner è stata condannata il 27 settembre a tre anni (sostanzialmente per aver commesso ‘atti indecenti’).

 

Usa. Patriot Act ed espansione della pena di morte. La proposta di legge della Camera dei Rappresentanti che rinnova il famigerato Atto Patriottico antiterrorismo include diverse norme suscettibili di peggiorare fortemente lo statuto federale della pena di morte. Si prevede la possibilità di comminare la pena di morte da parte di giurie composte da un numero di giurati ridotto rispetto allo standard di 12 e la possibilità dell’accusa di chiedere di nuovo la pena capitale quando i processi finiscono con un’impasse a causa del disaccordo sulla pena di morte all’interno delle giurie. Inoltre triplicano le fattispecie di reato collegabili col terrorismo punibili con la pena di morte. Su tali norme si è aperto un conflitto con il Senato. Probabilmente si arriverà ad un compromesso.

 

Questo numero è aggiornato con le informazioni disponibili fino al 27 ottobre 2005

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