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FOGLIO  DI COLLEGAMENTO  INTERNO

 

DEL COMITATO PAUL ROUGEAU

 

Numero  182 -  Agosto 2010

Peter   Anthony  Cantu

SOMMARIO:

   

 

1) Lo stato del Texas ha ucciso il nostro amico Peter Cantu

2) “Averti conosciuto mi ha aperto la mente” di Elena Gaita

3) Il giudice William Moore rigetta la petizione di Troy Davis

4) Elena Kagan entra in una Corte Suprema spostata a destra

5) Sul caso Willingham risposta evasiva della commissione texana

6) Enorme risonanza di una condanna alla lapidazione in Iran

7) In una prigione iraniana, l’inferno

8) Amore e morte in Afghanistan

9) Ministra abolizionista ordina due esecuzioni, e vi assiste

10) Modesta riduzione delle fattispecie di reato capitale in Cina

11) Dopo un trentennio prima condanna per il genocidio cambogiano

12) Nessuno tocchi Caino: “Evoluzione positiva verso l’abolizione”

13) Dodicenne rischia l’ergastolo senza possibilità di liberazione

14) In Italia esiste l’ergastolo senza possibilità di liberazione?

15) I Radicali mostrano la sofferenza nelle carceri italiane

16) Notiziario: Iran, Perù, Usa

 

 

1) LO STATO DEL TEXAS HA UCCISO IL NOSTRO AMICO PETER CANTU

 

Peter Anthony Cantu, protagonista in giovane età di uno dei crimini di gruppo più noti ed esecrati della storia recente del Texas, in 17 anni  passati nel braccio della morte si era ampiamente riabilitato e ravveduto. Nonostante ciò lo stato del Texas lo ha messo a morte il 17 agosto, come programmato, ignorando le richieste di clemenza nei suoi riguardi, cui ha partecipato anche il nostro Comitato.

 

Il nostro amico Peter Anthony Cantu è stato ucciso, come programmato, il 17 agosto nel braccio della morte del Texas. Non è servito a salvarlo il grande impegno profuso dalla sua cara amica Elena Gaita che è riuscita a convogliare verso le autorità del Texas una robusta petizione sottoscritta da più di 1000 persone, tra cui molti nostri lettori (v. n.182). Quattro giorni prima dell’esecuzione la Commissione per le Grazie del Texas aveva rifiutato, 7 voti a 0, di proporre al Governatore qualsiasi forma di clemenza o di rinvio.

A differenza di altri condannati a morte che abbiamo seguito, Peter non ha rivendicato la sua innocenza o avanzato alcun tipo di scusa per quello che ha fatto. Eppure – pur essendosi macchiato di uno dei delitti più noti ed esecrati della storia recente del Texas – vi erano fortissimi motivi per usargli clemenza. Quando partecipò ad un assurdo crimine di branco aveva appena compiuto 18 anni, l’età minima per essere condannati a morte negli USA. Con un impegno costante si era poi completamente riabilitato e ravveduto. Nei 17 anni di carcerazione era diventato una persona completamente nuova, una bella persona. Solo una ristretta minoranza lo ha veramente conosciuto ed ha potuto testimoniare su di lui, come  Elena Gaita (v. articolo seguente) e l’avvocato Robin Norris, che ha scritto ad Elena di Peter: “Siamo divenuti sempre più amici nel corso degli anni, ed ho maturato nei suoi riguardi una grande stima. E’ amaro e sorprendente che mentre tutti coloro che lo conoscevano bene al momento della sua morte hanno compreso quale persona sensibile e tollerante fosse diventato, il complesso della popolazione di Houston, che lo ha conosciuto soltanto attraverso i resoconti mediatici del crimine, lo ritenesse un mostro.”

Nel momento della conclusione di questa tristissima vicenda, potrebbe sembrare strano ma coloro che ci fanno più pena sono i genitori di Jennifer e Elizabeth, le ragazze che furono uccise da Peter e compagni. Costoro hanno trovato uno scopo nella vita nel coltivare un odio smisurato nei confronti degli assassini. Hanno ottenuto che i parenti delle vittime del crimine potessero partecipare attivamente, a sostegno dell’accusa, nei processi capitali, nonché presenziare alle esecuzioni. Hanno promosso un culto sdolcinato e morboso delle due vittime (1). Infine hanno rifiutato di leggere la lettera di pentimento inviata loro da Peter Cantu.

Per la verità, anche gli abolizionisti americani hanno compreso ben poco. Hanno polemizzato e si sono scontrati vivacemente tra di loro. Specialmente dopo una sparuta manifestazione tenuta da cinque persone la vigilia dell’esecuzione di Peter presso il cenotafio che ricorda Jennifer Ertman ed Elizabeth Peña nel giardino della loro scuola. Hanno etichettato Peter come “il peggiore tra i peggiori” (pur sostenendo che ‘perfino uno come lui’ non dovesse essere messo a morte).

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(1)  V. ad es. http://www.murdervictims.com/voices/jeneliz.html

 

 

2) “AVERTI CONOSCIUTO MI HA APERTO LA MENTE”  di Elena Gaita

 

Una grande amicizia ha legato per cinque anni Elena, una giovanissima italiana, a Peter, condannato a morte in Texas. Dopo l’esecuzione di Peter, Elena ha scritto per noi – ma anche per se stessa -  questa profonda riflessione su un’esperienza dolorosa che ha lasciato in lei una ricchezza ‘non quantificabile’

 

L’ultima frase che ho detto a Peter prima della sua esecuzione è stata: “Ti ringrazio perché averti conosciuto mi ha aperto la mente”. Lui ha riattaccato il telefono prima che potessi salutarlo perché non amava gli addii strappalacrime, ha solo detto: “Ci rivedremo”. Poche ore dopo era morto. L’ennesima persona assassinata legalmente dallo Stato del Texas.

Cinque anni fa avevo vent’anni e non pensavo neanche lontanamente ai bracci della morte. Sfogliavo annoiata una rivista e casualmente ho letto di persone che corrispondevano con condannati a morte. E’ stato un attimo, come una folgorazione, ma immediatamente ho capito che io dovevo fare quella stessa cosa. Tuttora non so spiegarmi cosa mi abbia spinto. Ma non ho mai avuto un momento di esitazione. Dopo un pomeriggio di ricerche su Internet, trovai un indirizzo e-mail a cui scrissi dicendo che ero disponibile a corrispondere con un condannato a morte in qualsiasi parte del mondo. Qualche giorno dopo mi arrivò una risposta con un nome e un indirizzo, non una informazione di più.

PETER CANTU, lessi, e iniziai la lettera più difficile scritta in questi cinque anni. Che cosa avrei potuto dire a una persona che aspetta l’esecuzione? Avrei potuto raccontargli in modo così naif della mia vita, dei miei esami all’università, delle feste con i miei amici?

Scritta la lettera, la curiosità ebbe il sopravvento e cercai informazioni su di lui in Internet. Non so bene cosa mi aspettassi e ora mi viene da sorridere pensando alla mia ingenuità, ma ancora non ero entrata nell’ottica che un condannato a morte doveva pur essere accusato di qualcosa di terribile. Ovviamente il mio corrispondente non faceva eccezione. Lessi di stupro di gruppo, sodomia, strangolamenti e omicidio di due ragazzine, Jennifer Ertman di 14 anni e Elizabeth Peña di 16. Cosa mai avrei potuto avere in comune con un mostro del genere? Anche io pensai la parola mostro, con la quale Peter è sempre stato etichettato.

Nonostante questo la lettera già era stata scritta e doveva essere spedita. Pensai che gli avrei scritto semplicemente per compassione una volta ogni tanto.

Già la prima risposta che ricevetti, però, fu molto diversa da come me la aspettavo: una lettera scritta in un buon inglese, con senso logico, asciutta, senza autocommiserazioni e vittimismi, senza richieste se non quella di rispondergli presto. Era soprattutto una lettera che trasmetteva un senso di serenità.

Molto rapidamente è nata un’amicizia fortissima tra me e Peter. Quando vivevo alcune situazioni me le appuntavo su dei foglietti per ricordarmi di raccontarle a lui, mi capitava sempre più spesso di pensare a lui nei momenti più diversi della mia vita e ci scrivevamo in maniera sempre più assidua. La sua tranquillità spesso mi faceva quasi dimenticare da dove provenissero quelle lettere. Allo stesso tempo, però, rimaneva sempre in sospeso l’argomento del crimine, del perché lui era finito nel braccio della morte. Sempre meno riuscivo ad associare la persona che mi scriveva lettere intelligenti, gentili, profonde, sensibili e piene di humour al mostro descritto dai media.

Finalmente un giorno ebbi il coraggio di dirgli che dovevo sapere. Avevo paura che mi avrebbe risposto male o che non mi avrebbe risposto affatto e invece nella lettera successiva mi scrisse nel modo più diretto possibile tutto ciò di cui era accusato, esattamente quello che avevo già letto.

In realtà speravo che mi dicesse che quello che avevo letto era falso, che era stato accusato ingiustamente, che non c’entrava niente, che era lì per caso. Questo avrebbe messo a tacere la mia coscienza che ogni tanto ancora mi faceva pensare a Jennifer ed Elizabeth e mi faceva domandare se effettivamente stessi facendo la cosa giusta.

Mi ci è voluto del tempo per capire che il più grande regalo che Peter mi abbia fatto è stato quello di non ingannarmi mai, di non farmi credere mai qualcosa di falso e di non spacciarsi per qualcuno che non era. Mi confessò che dopo avermi scritto quella lettera attese con maggiore impazienza la mia risposta. Temeva che dopo avermi confessato il motivo per cui si trovava nel braccio della morte avrei smesso di scrivergli.

Ho sempre sostenuto che lui è l’esempio del cambiamento, che una persona come lui dovrebbe essere il simbolo del perché la pena di morte è sbagliata anche in casi di massima colpevolezza.  Da quasi analfabeta ha imparato da solo a leggere e scrivere, ha intrapreso un lungo percorso interiore ed è diventato un uomo. Il ragazzino immaturo di 18 anni che è entrato nel braccio della morte nel 1994 non esiste più.

Nel corso di questi anni sono stata anche due volte a trovarlo in carcere e perfino in queste occasioni sono riuscita ad astrarmi dal luogo in cui mi trovavo grazie alla sua compagnia.

Alcuni mesi fa è stata fissata la sua data di esecuzione per il 17 agosto scorso. Per qualche assurdo motivo pensavo che questo momento non sarebbe mai arrivato, che in qualche modo ce la saremmo cavata ed invece anche lui ha dovuto affrontare l’intero cammino della morte annunciata. Sono andata nuovamente a trovarlo perché non potevo lasciarlo andare senza rivederlo un’ultima volta. Anche durante le nostre visite, a una settimana dalla sua esecuzione, Peter è riuscito a rimanere tranquillo e a dare la priorità agli altri, cercando di non far preoccupare nessuno.

Ha deciso di andare all’esecuzione da solo, senza testimoni scelti da lui. Non voleva che l’ultima immagine che i suoi genitori e amici avessero di lui fosse quella nella camera della morte. Mi ha detto che come le sue vittime erano morte da sole senza conforto, così anche lui avrebbe dovuto affrontare da solo questa situazione.

Il 17 agosto è arrivato troppo in fretta, ero completamente impreparata, ma credo che non esista il modo per prepararsi mentalmente a qualcosa di così innaturale. Sono arrivata alla fatidica ultima telefonata con la sensazione di dovergli dire mille cose e allo stesso tempo senza sapere cosa dire. Per un attimo ho pensato di non chiamarlo affatto. Poi anche la telefonata è volata e solo quando abbiamo chiuso il telefono ho capito che non lo avrei mai più sentito.

La mattina dell’esecuzione mi è arrivata la sua ultima lettera. Ancora non sono riuscita ad aprirla, nonostante siano passate due settimane da quando lui non c’è più. So che è l’ultimo pezzo di comunicazione con lui e che dopo questo non ci sarà veramente più nulla e quindi continuo a conservarla chiusa.

Ogni tanto mi capita di guardarmi intorno e di pensare che forse lui è qui vicino a me. Questo pensiero mi dà sollievo.

Peter non ha rilasciato ultime dichiarazioni. Il giorno dopo la stampa texana ha nuovamente scritto che lui non si è mai pentito di quello che ha fatto e che fino alla fine non si è voluto scusare con i familiari delle vittime. In realtà due mesi fa Peter aveva scritto una lettera ai genitori di Jennifer ed Elizabeth, i quali però l’hanno rifiutata. Prima di avvicinarmi a questo mondo, mai avevo visto persone provare così tanto odio.

Nonostante la tragica fine di questa vicenda, non mi sento sconfitta. Al contrario penso che quello che ho potuto guadagnare in questi anni non sia quantificabile. Nonostante si possa pensare che io sia stata di conforto a lui, sono convinta di aver ricevuto molto più di quanto ho dato. Il Texas lo ha ucciso, ma non potrà uccidere la memoria che conservo di lui e gli anni passati con lui nella mia vita. Se sei anni fa qualcuno mi avesse detto che avrei fatto tutto questo, non ci avrei mai creduto.   

Ho imparato che nulla è scontato, che il bene può essere trovato in chiunque. Lui mi ha fatto uscire fuori dal mio mondo ovattato, facendomi scoprire un’altra realtà. Grazie all’esistenza di una persona come lui sono ancora più convinta del fatto che sia giusto lottare contro la pena di morte.   

Questo e molto altro intendevo quando gli ho detto che averlo conosciuto mi ha aperto la mente, ma non sono riuscita a spiegarglielo nei nostri ultimi momenti di conversazione. Penso che lui però lo sappia.

 

 

3) IL GIUDICE WILLIAM MOORE RIGETTA LA PETIZIONE DI TROY DAVIS

 

Troy Davis, condannato alla pena capitale in Georgia, dopo aver sfiorato tre volte l’esecuzione ha avuto l’opportunità, più unica che rara, di dimostrare la propria innocenza in una corte di giustizia utilizzando le prove emerse dopo la sua condanna. L’udienza sulle prove per Troy Davis si è tenuta a giugno davanti al giudice federale William T. Moore Jr. che purtroppo ha subito manifestato diffidenza e ostilità verso il ricorrente. Il 24 agosto Moore ha rigettato l’istanza di liberazione di Troy Davis con una puntigliosa sentenza di ben 172 pagine. Ora le residue speranze del detenuto risiedono, in pratica, solo nella concessione della clemenza esecutiva che gli è stata ripetutamente negata in passato.

 

E’ arrivata il 24 agosto la risposta, negativa, del giudice federale distrettuale William T. Moore Jr. sul caso di Troy Davis, il condannato a morte più noto in America, sostenuto allo spasimo da Amnesty International USA (1).

Ricordiamo che William Moore fu incaricato un anno fa dalla Corte Suprema federale di tenere un’udienza per ascoltare le testimonianze ed esaminare le altre prove onde verificare se Troy Davis - arrivato tre volte alle soglie dell’esecuzione in Georgia – aveva acquisito la capacità di “dimostrare chiaramente” la sua innocenza (v. n. 171).

Secondo il giudice, che ha impiegato i mesi estivi tradizionalmente dedicati alle ferie per scrivere una sentenza di ben 172 pagine, Davis ha completamente fallito il suo scopo (2).

Una decisione di segno negativo era stata prefigurata dall’atteggiamento ostile del giudice nei riguardi del ricorrente manifestatosi durante l’udienza da lui presieduta dal 23 al 24 giugno (v. n. 181).

Tale atteggiamento si è di nuovo palesato il 12 agosto quando Moore ha respinto una mozione di Troy Davis. Costui chiedeva la riapertura dei termini per la presentazione delle prove perché il giudice durante l’udienza aveva impedito alla difesa di far deporre quattro testimoni che sostengono di aver sentito dire un altro soggetto presente sulla scena del delitto, Sylvester "Redd" Coles, di aver ucciso lui, e non Davis, l’agente Mark Allen MacPhail nel 1989.  Respingendo la mozione, William Moore aveva scritto: “Presentando intenzionalmente inattendibili dichiarazioni per sentito dire mentre [Coles] è tenuto fuori dalla Corte, [la difesa di Davis] ha cercato di impedire alla Corte di ricevere l’insieme completo delle prove, invece di fornire alla Corte una base sulla quale si potesse eseguire la più accurata delle determinazioni possibili.” (3)

Nella sentenza del 24 agosto, in risposta ad una precisa domanda della Corte Suprema, Moore ha affermato che a suo parere mettere a morte un innocente viola la Costituzione USA ma che “comunque il sig. Davis non è innocente.”

Dopo una meticolosa (e ostile) disanima sia delle testimonianze fornite dal vivo nel corso dell’udienza del 23 e 24 giugno sia di quelle presentate per iscritto tramite dichiarazioni giurate, il giudice Moore afferma: “In definitiva, se le nuove prove del sig. Davis introducono alcuni dubbi addizionali, minimi, sulla sua condanna, si tratta largamente di fumo negli occhi e di specchietti per le allodole. La grande maggioranza delle prove presentate al processo rimane intatta, e le nuove prove sono largamente non credibili o mancati di valore probatorio.”  Per la verità William Moore concede che una - una sola - delle sette ritrattazioni dei testimoni d’accusa appare credibile – quella di tale Kevin McQueen - ma osserva che il valore di tale ritrattazione è sminuito dal fatto che il testimone mentì platealmente al processo, anche in contrasto con le tesi dell’accusa, rendendo plausibile che la sua testimonianza di allora non contribuì apprezzabilmente alla condanna di Troy Davis.

Il giudice William T. Moore Jr. si sente autorizzato a concludere in modo perentorio il suo oneroso lavoro estivo: “Per le suesposte ragioni, questa Corte conclude che mettere a morte una persona innocente viola l’Ottavo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti. Tuttavia, il sig. Davis non è innocente. Le prove prodotte durante l’udienza a sostegno della rivendicazione dell’effettiva innocenza e una completa revisione degli atti del caso non richiedono il rovesciamento del giudizio emesso dalla giuria che Troy Anthony Davis assassinò l’agente della polizia di Savannah, Mark Allen MacPhail, il 19 agosto 1989. Di conseguenza la petizione è RESPINTA.”

Si era discusso sull’eventualità che qualche innovazione nella giurisprudenza statunitense riguardante l’innocenza potesse conseguire dalla decisione del giudice Moore (v. ad es. n. 171). Tuttavia leggendo il dispositivo da lui emesso si vede che egli si è mantenuto prudentemente e strettamente all’interno della tradizionale dottrina della Corte Suprema, che porta la massima deferenza nei riguardi delle decisioni delle corti inferiori stabilendo degli standard quasi irraggiungibili per la dimostrazione dell’actual innocence (effettiva innocenza) di un condannato a morte. Secondo la difesa di Davis lo standard da adottare sarebbe “una chiara probabilità che un ragionevole giurato abbia ragionevoli dubbi riguardo alla colpevolezza”, quantificando la ‘chiara probabilità’ in un 60%. Secondo l’accusa invece l’innocenza può essere affermata soltanto quando  “nessun ragionevole esaminatore dei fatti può trovare prove di colpevolezza al di là di un ragionevole dubbio.”

Il giudice Moore ha risolto il contrasto tra le due parti affermando che per rivendicare l’actual innocence una persona precedentemente condannata in un giusto processo “deve mostrare tramite chiare e convincenti prove che nessun ragionevole giurato lo avrebbe condannato alla luce delle nuove prove” emerse dopo il processo.

Nella propria sentenza, Moore ha comunque notato che Troy Davis non ha raggiunto neanche il livello minimo asserito dai suoi legali.

Il giudice Moore ha subito trasmesso la sua decisione alla Corte Suprema USA la quale un anno fa – con un’iniziativa più unica che rara – lo aveva incaricato di tenere l’udienza sulle prove per Troy Davis.

Non è chiaro quali potranno essere gli immediati sviluppi del caso di Davis dopo questa sconfitta, una sconfitta gravissima e bruciante non solo per lui ma anche per le organizzazioni per i diritti umani che si battono in suo favore, a cominciare da Amnesty International USA.   

Anche se le autorità della Georgia si daranno da fare per ottenere una nuova data di esecuzione di Troy Davis, è indubbio che egli ha ancora la possibilità di contestare la sentenza del giudice federale distrettuale William Moore presso la Corte Suprema degli Stati Uniti, oppure presso la Corte Federale d’Appello competente (quella dell’Undicesimo Circuito), oppure a tutti e due questi livelli. E’ certo però che a questo punto per Troy Davis la speranza più concreta di salvare la pelle risiede in un provvedimento di grazia del potere esecutivo dalla Georgia (rivelatosi peraltro assai mal disposto nei confronti del condannato, rifiutandosi ripetutamente in precedenti occasioni di concedergli la grazia).

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(1) V. nn. 151, 152,  Notiziario, 154, Notiziario, 155, 158,163, 164, 165, Notiziario, 169, 170, 171, 181.

(2) V. http://www.scotusblog.com/wp-content/uploads/2010/08/Troy-Davis-ruling-DCt-Part-I-8-24-10.pdf

http://www.scotusblog.com/wp-content/uploads/2010/08/Troy-Davis-ruling-DCt-Part-II-8-24-10.pdf

(3) La proibizione di Moore era conseguita al fatto che i legali di Davis non avevano chiamato a deporre il medesimo Sylvester Coles, che fu uno dei testimoni d’accusa contro Davis al processo del 1991.

 

 

4) ELENA KAGAN ENTRA IN UNA CORTE SUPREMA SPOSTATA A DESTRA

 

Secondo le previsioni, la Solicitor general Elena Kagan nominata dal presidente Obama quale giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti ha ricevuto la prescritta conferma dal parte del Senato ed ha giurato, entrando in carica, il 7 agosto. Per quanto la nuova giudice sia ritenuta ‘progressista’ su alcune questioni attinenti i diritti civili, l’avvento della Kagan, - favorevole alla pena di morte e incline a giustificare le violazioni dei diritti umani fondamentali da parte dell’esecutivo USA nell’ambito della ‘guerra al terrorismo’ – ci preoccupa grandemente. Ciò anche perché Elena Kagan – che entra in una corte sottoposta da cinque anni a una deriva verso destra – sostituisce il dimissionario giudice John Paul Stevens che aveva maturato negli anni una chiara opposizione alla pena capitale.

 

Il 5 agosto, come era nelle previsioni, Elena Kagan, nominata il 19 maggio dal presidente Obama nel ruolo di giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti, è stata confermata dal Senato USA (v. nn.  179, 180, 181, Notiziario). La Kagan, che ha ricevuto 63 voti a favore e 37 contro, si aggiunge ad altre due donne in seno alla massima corte: Sonia Sotomayor che fu confermata esattamente un anno fa (v. n. 171) e Ruth Bader Ginzburg nominata da Bill Clinton nel 1993.

Compiuti i giuramenti di rito il giorno 7, la Kagan è stata la quarta donna (su un totale di 112 giudici) ad accedere nella Corte Suprema nella storia degli USA: alle tre donne ora in carica va aggiunta Sandra Day O’Connor dimessasi nel 2006.

Elena Kagan entra in una corte che va stabilizzandosi su posizioni più conservatrici che in passato.

Da quando, cinque anni fa, John G. Roberts è diventato Giudice Capo (Chief Justice), il massimo organo costituzionale statunitense si è distinto per una netta, sia pur contenuta, deriva verso destra.

Secondo gli analisti che si peritano di classificare ogni decisione della Corte Suprema con gli aggettivi ‘conservatrice’ o ‘liberale’ (le sentenze ‘neutre’ non superano il 2% del totale), la Corte non solo si è spostata a destra ma si è rivelata come la più conservatrice a partire dagli anni Cinquanta. L’ultimo computo portato a termine riguarda la sessione chiusasi nel 2009: in essa si è avuto il 65% di sentenze ‘conservatrici’.

La presenza della religione nella vita pubblica; il diritto di portare armi; l’economia liberista; l’immunità dell’Esecutivo, degli accusatori, dei pubblici ufficiali, della polizia; sono considerati connotati conservatori della società americana; invece la protezione contro la discriminazione razziale, i diritti dei sospettati e dei criminali, la moderazione delle pene, i diritti dei migranti, i diritti sindacali, la previdenza sociale, il ‘diritto di aborto’, i diritti degli omosessuali, sono visti come connotati ‘liberali’.

Per quanto riguarda l’influenza dei singoli giudici entrati negli ultimi anni nella Corte, si sottolinea in particolare la svolta ‘a destra’ impressa dal giudice Samuel A. Alito nominato nel 2006 dal presidente Bush in sostituzione della dimissionaria Sandra Day O’Connor. Secondo i commentatori le ultime due nomine fatte da Barack Obama - quella di Sonia Sotomayor e quella di Elena Kagan - non dovrebbero spostare granché la connotazione della Corte dal momento che il ricambio avviene tra giudici tutti classificabili come ‘moderatamente progressisti’.

Tale previsione, nella sua globalità, può avere un suo fondamento. Tuttavia per noi il discorso è diverso, dal momento che ci preoccupiamo soprattutto della pena di morte e dei diritti umani fondamentali. Infatti sulla questione della pena di morte la Kagan ha dimostrato di essere coerentemente conservatrice, in contrasto con il dimissionario giudice John Paul Stevens, diventato negli ultimi anni un chiaro oppositore della ‘sanzione ultimativa’. Per quanto riguarda i diritti umani fondamentali sappiamo che Elena Kagan fino ad ora – in qualità di Solicitor general - ha convintamente perorato posizioni dell’Esecutivo lesive dei diritti di coloro che vengono definiti ‘nemici combattenti’ nella guerra al terrorismo (v. n. 179).

Osserveremo il comportamento di Elena Kagan nella Corte Suprema augurandoci che ci possa sorprendere in positivo. Per quanto riguarda la pena di morte, non è escluso che la Kagan possa venire presto allo scoperto su due importanti questioni: la liceità costituzionale di ‘giustiziare’ una persona che, dopo essere stata condannata a morte in un processo regolare, divenga capace di dimostrare la sua actual inno­cence (effettiva innocenza) e la liceità di condannare a morte i malati mentali all’epoca del crimine.

5) SUL CASO WILLINGHAM RISPOSTA EVASIVA DELLA COMMISSIONE TEXANA

 

Continuano ad avere il loro effetto paralizzante gli sforzi del Governatore del Texas Rick Perry deciso ad intralciare il camino della Commissione per le Scienze Forensi del Texas, la quale all’inizio di settembre del 2009 fu sul punto di spezzare una lancia a favore dell’innocenza di Cameron Todd Willingham, condannato alla pena capitale nel 1992 e ‘giustiziato’ in Texas nel 2004.

 

Cameron Todd Willingham fu accusato dell’omicidio delle sue tre figliolette perite nel 1991 in un incendio che distrusse la loro casa di Corsicana in Texas (1). Willingham fu condannato a morte nel 1992 soprattutto sulla base di una perizia che dimostrava che il fuoco fu appiccato intenzionalmente alla casa. Tale perizia accusatoria è stata in seguito squalificata da un gran numero di esperti di incendi, l’ultimo dei quali è dottor Craig Beyler del Maryland.  Questi ha studiato il caso per incarico della Commissione per le Scienze Forensi del Texas (Texas Forensic Science Commission), un organo indipendente, finanziato dallo stato, creato dal Parlamento del Texas nel 2005 (v. n. 171).

Dopo burrascose vicissitudini, soltanto ora la Commissione per la Scienze Forensi del Texas ha fornito una prima risposta sul caso di Cameron Todd Willingham. Si tratta di anticipazioni sul rapporto finale preannunciato per ottobre, arrivate 11 mesi dopo la brusca interruzione dei lavori della Commissione provocata dall’intervento del governatore Perry (che sostituì il presidente e altri tre membri della Commissione all’inizio di settembre 2009, v. n. 172). 

Le dichiarazioni rese il 23 luglio da John Bradley, attuale presidente della Commissione, evadono l’interrogativo cruciale: al processo di Willingham fu correttamente provato che le tre figliolette dell’imputato perirono in un incendio doloso?

Invece di rispondere a questa domanda, Bradleyha rivelato che il panel di quatto membri della Commissione incaricato di approfondire il caso, al lavoro dal mese di aprile scorso (2),  non ha trovato prove sufficienti per affermate che nel 1991 gli investigatori sbagliarono la loro indagine sull’incendio che uccise le tre bimbe.

Per la verità sia Bradley che Sarah Kerrigan, un’esperta forense facente parte del panel, hanno ammesso che nel 1991 gli investigatori si basarono su una dottrina erronea nell’indagare sul caso Willingham ma, a loro parere, tutto ciò non si tradusse in una loro negligenza professionale dal momento che essi utilizzarono tecniche e informazioni disponibili al momento. Secondo Bradley nuovi standard investigativi sugli incendi furono sviluppati nel 1992 (anno in cui fu celebrato il processo Willingham) ma non furono subito adottati a livello nazionale.

Per coloro che si interrogano sull’innocenza di Cameron Todd Willingham, il responso fin qui dato dalla Commissione per le Scienze Forensi è assolutamente frustrante: la questione non era se mettere sotto accusa gli investigatori di allora ma di stabilire se il sistema penale del Texas uccise un uomo condannato a morte in base a prove fasulle e, perciò, possibile innocente.

Secondo il rapporto di Craig Beyler, uno dei massimi esperti statunitensi di incendi, il lavoro che fecero gli investigatori sul caso Willigham è errato sia alla luce degli standard vigenti nel 1991 sia alla luce di quelli successivamente stabiliti. Ma, ammesso e non concesso che nel 1991 gli investigatori errassero in buona fede, ci si domanda perché essi stessi e il resto del sistema texano non si corressero successivamente – prima del processo o almeno nei 12 anni che passarono prima dell’esecuzione di Todd avvenuta il 17 febbraio 2004. Tra l’altro, lo stesso Governatore ignorò la perizia del dottor Gerald Hurst, che scagionava Willingham, presentata dalla difesa poco prima dell’esecuzione (v. n. 172).

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(1) Ci siamo ripetutamente occupati del caso Willingham, v. ad es. nn. 124, 166, 171, 172.

(2) V. n. 179.  Il panel, che fu costituito da John Bradley, comprende oltre allo stesso Bradley, di professione accusatore, Lance Evans, un avvocato penalista, il medico forense Nizam Peerwani e la tossicologa  forense Sarah Kerrigan. Solo la Kerrigan faceva già parte della Commissione prima dell’epurazione effettuata dal governatore Perry.

 

 

6) ENORME RISONANZA DI UNA CONDANNA ALLA LAPIDAZIONE IN IRAN

 

L’enorme risonanza che ha avuto nel mondo il caso di Sakineh Mohammadi Ashtiani condannata alla lapidazione in Iran per adulterio, e la conseguente mobilitazione che ha coinvolto innumerevoli personalità ed anche molti governati soprattutto nel mondo occidentale, sembrano aver momentaneamente fermato la macchina della morte in procinto di afferrare Sakineh. Ma la donna rimane a rischio di lapidazione o di impiccagione. Attualmente in Iran vi sono almeno 13 condannati alla lapidazione.

 

La foto tessera di Sakineh Mohammadi Ashtiani, attualmente rinchiusa nel carcere di Tabriz in Iran, ha fatto il giro del mondo. Mostra un volto marmoreo, apparentemente imperturbabile. Madre di due figli, oggi 43-enne,  Mohammadi Ashtiani  è stata condannata alla lapidazione per adulterio. Punita con  99 frustate per immoralità, nel 2006 fu giudicata colpevole anche di complicità nell’assassinio del marito che la maltrattava, morto all’improvviso, in un processo che i suoi avvocati definirono iniquo. Per l’omicidio la donna ricevette una pena di 10 anni di carcere (invece della pena capitale) avendo conseguito il perdono dei familiari della vittima, cioè dei propri figli.

Una formidabile campagna internazionale a favore della Ashtiani – cui hanno partecipato innumerevoli personalità e a cui si sono via via aggiunti in prima persona numerosi governanti dei paesi occidentali  – ha indotto le autorità iraniane prima a sospendere e poi a commutare la lapidazione che veniva data per  imminente all’inizio di luglio. La commutazione non è stata però formalizzata e la detenuta  potrebbe essere ancora lapidata; come minimo rimane a rischio di impiccagione.

Ha fortemente irritato il regime iraniano l’enorme risonanza del caso di Sakineh Mohammadi Ashtiani (che ormai tutti chiamano semplicemente Sakineh), arrivato sulle prime pagine dei giornali in tutti i continenti, dopo essere stato inizialmente pubblicizzato dal figlio maggiore della condannata e dal giovane avvocato Mohammad Mostafaei, noto attivista per i diritti umani famoso per essersi specializzato nella difesa dei minorenni condannati a morte (1)

Dopo la virulenta reazione delle autorità iraniane alla mobilitazione internazionale, e dopo che diversi suoi familiari sono stati fermati, rilasciati e di nuovo fermati, Mostafaei si è dovuto eclissare. Fuggito avventurosamente in Turchia attraverso le montagne il 4 agosto, è stato in un primo tempo arrestato nel paese confinante ed alleato dell’Iran, fino a che, dopo un intervento dell’Unione Europea, non ha potuto  riparare  in Norvegia.

Dal canto suo Sakineh, in una drammatica intervista diffusa l’11 agosto dalla TV di stato iraniana –  il volto cancellato da una quadrettatura elettronica - con voce tremante ha accusato l’avvocato Mostafaei  di aver pubblicizzato il suo caso contro la sua volontà ed ha confessato l’adulterio nonché il proprio coinvolgimento nell’assassinio del marito compiuto da un suo cugino. Nella trasmissione non è stato precisato che lei è stata condannata a morte per adulterio (e non per omicidio). 

Amnesty International ha immediatamente diffuso un comunicato in cui si dice che le ‘confessioni’ televisive dei detenuti iraniani conseguono usualmente a coercizione e spesso a torture o maltrattamenti.

Il ministro degli esteri brasiliano Celso Amorim  l’11 agosto ha provocatoriamente reiterato un’offerta di asilo per Sakineh  in Brasile, un paese amico dell’Iran. Al che il presidente iraniano Ahmadinejad  ha dichiarato in televisione: “Penso che non ci sia bisogno di creare un problema per il presidente Lula mandandola in Brasile. Noi siamo desiderosi di esportare in Brasile tecnologia e non gente come lei.”

Continua la mobilitazione internazionale in favore di Sakineh che potrebbe essere impiccata dopo la fine del Ramadan, v. ad es.: http://www.amnestyusa.org/actioncenter/actions/uaa21109.pdf

Le organizzazioni per i diritti umani temono che – anche se sarà fatta un’eccezione per Sakineh – la pratica della lapidazione, mai interrottasi nonostante ricorrenti dichiarazioni in contrario delle autorità, continui in Iran nei riguardi di persone sconosciute dall’opinione pubblica internazionale. Almeno 7 casi di lapidazione si sono verificati negli ultimi 4 anni in Iran, paese in cui almeno altre 13 persone (10 donne e 3 uomini) risultano tuttora condannate alla lapidazione.

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(1) Mostafaei ha difeso tra gli altri Delara Darabi, minorenne all’epoca del reato ascrittole, impiccata il 1° maggio 2009. Fu arrestato e tenuto in incommunicado per un certo periodo dopo le contestate elezioni presidenziali iraniane del giugno 2009 (v. n. 170).

 

 

7) IN UNA PRIGIONE IRANIANA, L’INFERNO

 

Secondo quanto riferisce l’agenzia RAHANA, il dottor Said Masuri fu arrestato nel dicembre 2000 nella città di Dezful in Iran. Fu condannato a morte e la sua condanna capitale fu confermata in appello. Ha passato 3 anni in isolamento in prigioni di Tehran e Dezful. In seguito ha ottenuto la commutazione della sentenza di morte in ergastolo. Attualmente è detenuto nella Sezione 10, Reparto 4, del carcere Rajai Shahar di Karaj, in Iran.

Negli ultimi 10 anni Masuri non ha mai ottenuto la libertà condizionale. Al momento del suo arresto e mentre si trovava in isolamento ha subito torture fisiche e psicologiche.

Masuri è stato trasferito alcuni anni fa nel carcere di Rajai Shahar rinomato per le inumane condizioni di detenzione. In una lettera fatta pervenire all’agenzia RAHANA, egli descrive le condizioni di detenzione a Rajai Shahar. La lettera, che compare in inglese nel sito “Human Rights House of Iran” tenuto da RAHANA (*), è stata da noi tradotta in italiano come segue.

 

La vita fuori della prigione continua come al solito ed è difficile per la gente immaginare quale infernale tragedia umana si consumi pochi metri all’interno delle mura del carcere davanti alle quali passa ogni giorno; come coloro che vivevano nei dintorni dei campi di Auschwitz e Dachau e non avevano idea di ciò che accadeva in quei campi.

Voglio dipingere un quadro della prigione di Rajai Shahr, la quale, sebbene sia grande agli occhi dei cittadini di Karaj, in realtà è molto piccola a causa del sovraffollamento. Si tratta di un mondo a sé stante, molto simile all’inferno come è rappresentato nei film, pieno di fumo e di fuoco. Un mondo pieno di facce bruciate, nere, scavate dalla malnutrizione, corpi nudi coperti di sudore e di chiazze rossastre prodotte dai pidocchi. Un mondo in cui si vedono pantaloni strappati a cui mancano delle strisce che usiamo come cinture; un mondo di piedi nudi e lerci, vestiti indossati alla rovescia infestati da pidocchi […]  Un mondo in cui si è esposti all’aria inquinata, al fetore estremo dell’immondezza in decomposizione,  agli scoli che debordano dai cessi, alla tossicità del vomito rappreso, ai catarri infetti,  all’odore dei corpi che ti stanno vicini, ai quali raramente si dà l’opportunità di fare un bagno; l’acme si raggiunge con l’odore dell’orina di coloro che sono divenuti incontinenti.

Tutto ciò immersi nel baccano e nelle grida dei prigionieri che sembrano passare tutto il loro tempo in fila. Prigionieri in fila che tengono in mano bottiglie di plastica diventate nere che vengono usate per il tè; prigionieri in lunghe file multiple serrate per andare al cesso, prendere una doccia e così via…

Facce scarne per la denutrizione, nascoste dietro barbe e capelli arruffati; attacchi di tosse parossistici risultanti da problemi polmonari causati dall’aria inquinata; corpi irriconoscibili simili a quelli dei bambini africani vittime della fame; masse di prigionieri nei corridoi, che sembrano morti, colpiti dal caldo, con gli occhi inanimati fissi alle pareti o al soffitto; corpi nudi intenti a cercare i pidocchi nelle cuciture dei vestiti; corpi che si toccano l’un l’altro quando si spostano, tutti ormai troppo abituati ad un tal tipo di immagini.

Numerosi prigionieri impossibilitati a spostarsi a causa della calca, da soli o a coppie, guardano gli altri, giocherellando con i punti di sutura delle ferite che si sono autoinflitte ai polsi o sul collo. Molti hanno un piccolo asciugamano o un pezzo di stoffa per detergere continuamente il sudore che si accumula sulla loro faccia o sulla loro testa; lo stesso straccio a volte viene posto davanti  al naso e alla bocca per filtrare l’aria contaminata.

Aggiungete a tutto ciò il rumore assordante degli altoparlanti, dai quali le guardie proferiscono volgari insulti, chiedono silenzio o danno ordini riguardo all’uso dei cessi o delle docce… Capirete la durezza delle condizioni di detenzione solamente se realizzerete che un luogo designato ad ospitare 90 persone ne contiene oltre 1100. C’è un bagno ogni 250 prigionieri. C’è una saponetta o un contenitore di sapone liquido ogni 500 prigionieri, un cesso (spesso intasato e debordante) ogni 170 prigionieri. Cinque prigionieri dispongono di 5 metri quadrati di spazio, perciò i detenuti sono costretti a stare nei corridoi o sulle scale; c’è una coperta ogni 5-6 prigionieri; ci sono prigionieri costretti a star fuori delle loro celle dalle 7 di sera alle 7 del mattino, stando in piedi in aree all’aperto per mancanza di spazio al coperto. Anche nelle aree all’aperto a volte è difficile trovare un po’ di spazio. Il cibo è spesso servito in un foglio di carta di giornale e l’unico modo di mangialo è di trovare un posto per mettersi a sedere all’aperto. Queste condizioni costituiscono talmente la routine che alle guardie non è imposto il compito deprimente di contare e di controllare la presenza dei prigionieri nella calca, in compenso sono anch’esse esposte ad ogni sorta di malattie e di infermità.

Sorprendentemente, dal mattino presto al tramonto, sono accesi i televisori, che parlano di dignità umana, di diritti umani e di come noi Iraniani ci confrontiamo con il mondo, ma non una parola su quello che avviene dentro queste mura. Sembra che la salute pubblica, i bagni e i cessi siano così legati alla sicurezza nazionale che parlarne è considerato un crimine contro la sicurezza. Prendiamo ad esempio Reza Jooshan, un 22-enne che è stato posto in isolamento perché ha avuto l’audacia di parlare denunciando queste condizioni. Anche se la sua messa in isolamento non è stata una sorpresa per me, le condizioni nella prigione di Rajai Shahar e in altre carceri sono così atroci che non possono certo essere risolte mandando la gente in isolamento. Non c’è dubbio che per molti prigionieri iraniani posti come Guantanamo e Abu Ghraib costituiscono un sogno irraggiungibile; l’esecuzione capitale diventa l’unica speranza tangibile di sfuggire alla loro insopportabile tragedia.

Said Masuri  - Prigione Rajai Shahar - Luglio 2010

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(*) V. http://www.rhairan.us/en/?p=6017

L’agenzia RAHANA (Reporters and Human Rights Activists in Iran) – è una delle svariate organizzazioni iraniane per i diritti umani, in esilio e tutte ostili al regime degli Ayatollah. Tali organizzazioni sono ricambiate  con pari odio dai governanti iraniani i quali – non sempre erroneamente  - le accusano di trovare appoggio in Occidente per motivi estranei ai nobili scopi da esse dichiarati. Anche se è difficile verificare fino in fondo l’attendibilità delle denunce fatte da gruppi come RAHANA, non ci si può esimere dal diffondere quelle, tra di esse, che appaiono le più fondate ed importanti. La lettera di Said Masuri che pubblichiamo, tradotta prima in Inglese e poi in Italiano, potrebbe contenere imprecisioni ed errori.

 

 

8) AMORE E MORTE IN AFGHANISTAN

 

Osteggiati dalle rispettive famiglie, due innamorati afghani hanno cercato di suggellare la loro unione con il fatto compiuto, fuggendo insieme in una lontana provincia.  Convinti con l’inganno a ritornare nel loro villaggio, sono stati condannati alla lapidazione per condotta immorale e lapidati a furor di popolo il 15 agosto.

 

Khayyam amava, ricambiato, Siddiqa, una ragazza di 19 anni fidanzata contro la sua volontà con un altro uomo nel piccolo villaggio afghano di Mullah Qali nella provincia di Kunduz.

Khayyam a 27 anni era già sposato e aveva due figli ma sapeva che gli era consentito di sposare fino a quattro mogli (1).

Senonché in Afghanistan le questioni di cuore le decidono le famiglie dei protagonisti. Le famiglie di Khayyam e di Siddiqa erano decise ad evitare che i due si unissero. Con qualsiasi mezzo.

Allora i due giovani amanti sono fuggiti nella lontana provincia di Kunar in un disperato tentativo di suggellare con il fatto compiuto il loro rapporto. Raggiunti da emissari delle famiglie, i due  sono stati convinti a ritornare nel loro villaggio: alla fine si sarebbero potuti sposare!

Un volta tornati nel villaggio, Khayyam e Siddiqa sono stati arrestati e condannati a morte per fornicazione dalle autorità religiose talebane che detengono il potere nella zona.

Nadir Khan, un testimone intervistato telefonicamente dal New York Times, ha riferito che alla lettura della sentenza i due giovani amanti hanno ‘sfacciatamente’ confessato in pubblico la loro colpevolezza, dichiarando: “Ci amiamo reciprocamente, accada quel che accada.”

Dopo una settimana di detenzione sono stati lapidati.

Secondo quanto riferito da Nadir Khan, Siddiqa, posta accanto a Khayyam coperta da un burqa integrale, è stata circondata nel bazar del villaggio da una folla di soli uomini.

Gli attivisti talebani hanno lanciato le prime pietre, ad essi si sono aggiunti molti abitanti del villaggio, tra cui il padre e un fratello del giovane e un fratello della ragazza, ed altri parenti.

Circa 200 uomini hanno partecipato al massacro, prima di Siddiqa, poi di Khayyam. A detta del testimone, molti altri uomini “si sono goduti la scena” senza prendervi parte attivamente ma gridando la loro approvazione ed applaudendo. (Alle donne – che devono mostrarsi in pubblico il meno possibile - è stato vietato di partecipare allo spettacolo).

Il capo del Consiglio degli Ulema della provincia di Kunduz, Mawlawi Abdul Yaqub, ha dichiarato il giorno dopo che la lapidazione costituisce la giusta pena per i rei di una relazione sessuale illegale, anche se si è rifiutato di esprimere un parere sulla vicenda appena conclusasi.

Riferendo dell’atroce vicenda di amore e morte finita il 15 agosto, le cronache hanno ricordato che l’8 agosto nella provincia afghana di Badghis una vedova di 41 anni rimasta incinta è stata condannata a morte con l’accusa di fornicazione. Ancora viva dopo aver subito 200 frustate, è stata uccisa con un’arma da fuoco. La rivista Time aveva appena suscitato scalpore mostrando in copertina il volto di una donna afghana di 18 anni della provincia di Oruzgan a cui l’anno scorso sono stati mozzati il naso e le orecchie dal marito abbandonato (al quale era stata venduta da bambina) (2).

La grande stampa americana ed anche Amnesty International, dando la notizia delle lapidazioni del 15 agosto, hanno citato un importante documento reso noto cinque giorni prima dal Consiglio nazionale afghano degli Ulema, formato da circa 350 membri, tra cui vi sono esponenti religiosi governativi. Il documento ufficiale del giorno 10 sollecita ad una maggiore applicazione della legge penale islamica della Shariah, che prevede lapidazioni, amputazioni e fustigazioni. La mancanza di osservare queste “direttive islamiche,” afferma il Consiglio degli Ulema, “ha compromesso il processo di pace ed ha incoraggiato il crimine.”

A questo punto ricordiamo amaramente che il compito di ricostruire il sistema giudiziario dell’Afghanistan ‘democratico’, ‘liberato’ nel 2001 dalle bombe ad alto potenziale sganciate dalla Coalizione guidata dagli Americani, venne affidato all’Italia.

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(1) Sulle età riportate per i due amanti lapidati, vi sono differenze di 1 o 2 anni nelle varie cronache pervenuteci.

(2) V. http://www.time.com/time/world/article/0,8599,2007238,00.html

V. anche “Impiccato dai Talebani un bimbo di 8 anni accusato di spionaggio” nel n. 181, Notiziario.

 

 

9) MINISTRA ABOLIZIONISTA ORDINA DUE ESECUZIONI, E VI ASSISTE

 

Un anno fa aveva suscitato la speranza di una prolungata moratoria delle esecuzioni la nomina in Giappone come Ministro della Giustizia, di Keiko Chiba, nota militante contro la pena di morte. Invece l’avvocatessa Chiba ha firmato due ordini di esecuzione il 24 luglio scorso e quattro giorni dopo ha assistito personalmente alle impiccagioni dei condannati.

 

La signora Keiko Chiba, Ministro della Giustizia del Giappone, ha tenuto una conferenza stampa alle 11 del mattino del 28 luglio annunciando con voce inespressiva e distaccata: “In base ai miei ordini, le sentenze di morte inflitte a due persone sono state eseguite.”

Era appena tornata, tesa e pallida, completamente vestita di grigio, dal carcere di Tokio dove il macabro rituale di morte si era concluso esattamente un’ora prima ed esattamente dopo un anno di moratoria. Aveva firmato i relativi ordini di esecuzione quattro giorni prima.

La Chiba ha quindi esposto i casi giudiziari dei due detenuti uccisi, Kazuo Shinozawa, di 59 anni, e Hidenori Ogata, di 33, precisando di aver assistito alle esecuzioni.

Dopo una lunga pausa, durante la quale appariva inseguire a fatica i propri pensieri, Keiko Chiba ha aggiunto. “Tutto ciò mi ha indotto a riflettere approfonditamente sulla pena di morte. Ho realizzato che è necessario discutere la pena di morte da cima a fondo, così ho deciso di istituire una commissione di studio in proposito.”

Ad un giornalista che le ha domandato se avesse cambiato idea riguardo alla pena capitale, Keiko Chiba ha risposto indirettamente di no: “Credo che il popolo di questo paese dovrà decidere qualcosa, se dopo varie discussioni la maggioranza della pubblica opinione sarà per l’abolizione della pena di morte.”

Le esecuzioni di fine luglio hanno sorpreso e deluso le organizzazioni abolizioniste all’interno e all’esterno del Giappone che speravano in un prolungamento della moratoria delle esecuzioni in attesa che venisse messa in discussione la pena di morte, come chiesto da più parti.

Amnesty International ha duramente condannato le esecuzioni, ricordando le critiche espresse da Keiko Chiba nei riguardi del sistema della pena capitale.

La responsabile della politica estera dell’Unione Europea Catherine Ashton ha dichiarato: “Rincresce profondamente l’esecuzione mediante impiccagione di Hidenori Ogata e di Kazuo Shinozawa avvenuta il 28 luglio 2010 e il fatto che ciò segni la ripresa delle esecuzioni in Giappone dopo un anno durante il quale non ve ne erano state.”

Per spiegare la dolorosa sorpresa con cui è stata accolto nel mondo l’annuncio delle esecuzioni, occorre ricordare le aspettative che aveva suscitato l’avvocatessa Keiko Chiba, quando assunse il Ministero della Giustizia il 16 settembre 2009. Dichiaratamente abolizionista, ella aveva fatto parte, fino al momento in cui assunse la sua carica governativa, della Lega Parlamentare Giapponese per l’Abolizione della Pena di Morte (v. n. 172).

Non è facile capire il comportamento di Keiko Chiba la quale era libera di firmare o non firmare gli ordini di esecuzione. Tanto più tenendo presente che il suo incarico ministeriale volge al termine dopo che nelle elezioni appena svoltesi ha mancato la rielezione in qualità di parlamentare.

Sicuramente pesa l’orientamento forcaiolo dell’opinione pubblica del suo paese: l’85,6 % della popolazione  giapponese è risultato a favore della pena capitale in occasione di un’indagine governativa svoltasi nel febbraio scorso (v. n. 177,  Notiziario).

 

 

10) MODESTA RIDUZIONE DELLE FATTISPECIE DI REATO CAPITALE IN CINA

 

Gli intellettuali e le autorità cinesi pensano ad un futuro lontano in cui non ci sarà più la pena di morte. Nel frattempo continuano numerosissime le esecuzioni nel grande paese asiatico anche se non si può negare che la Cina stia compiendo una successione di piccoli passi verso l’abolizione della pena capitale.

 

Il disegno di legge che costituisce l’ottavo emendamento del sistema penale cinese in vigore dal 1979 è stato presentato dal Governo all’Assemblea Nazionale del Popolo il 23 agosto.  Esso prevede la cancellazione di 13 fattispecie di reato capitale riducendo il numero dei crimini che comportano la pena di morte da 68 a 55.  Sono stati stralciati reati secondari non violenti per i quali probabilmente fino ad ora veniva condannata a morte una assai  ristretta minoranza di criminali. Si prevede inoltre di esentare dalla pena capitale coloro che hanno compiuto 75 anni.

Alcuni parlamentari hanno criticato la proposta governativa definendo imprudente un passo che riduce il peso della pena di morte nella repressione dei reati economici. Non vi sono però dubbi sul fatto che la massima assemblea legislativa cinese approvi la proposta governativa, secondo la consuetudine.

Il provvedimento è stato a lungo preannunciato dal Governo di Pechino senza essere precisato, lasciando sperare che potessero essere eliminate dal codice penale tutte o quasi tutte le fattispecie di reato capitale che non comportano l’uso della violenza, che sono ben 44. La nuova legge costituisce quindi un passo molto limitato verso l’abolizione della pena di morte. Un traguardo di civiltà che sembra comunque presente nelle intenzioni futuribili degli esperti e dei dirigenti cinesi, anche se gli attuali governanti, a cominciare dal presidente Wen Jiabao, sono ben chiari nell’avvertire che i tempi non sono maturi per un simile passo.

Il particolare si sottolinea la necessità di mantenere la pena di morte per i reati di corruzione nella pubblica amministrazione che costituiscono una grave piaga nel paese in rapida evoluzione economica. La pena di morte è  prevista per chi riceve tangenti per un importo di circa 10 mila euro o superiore ma, quasi sempre, viene in effetti irrogata in casi di corruzione assai più rilevanti.

Nella fase attuale è la Corte Suprema del Popolo l’agente più incisivo nel ridurre l’uso della pena di morte in Cina. Dopo aver riguadagnato la prerogativa di controllare, a partire dal 1° gennaio del 2007, la correttezza di tutte le sentenze capitali emesse dalle corti provinciali (v. n. 143, Notiziario), il massimo organo giudiziario cinese nel febbraio di quest’anno ha invitato i giudici di tutto il paese ad usare con parsimonia la pena capitale, riservandola ai crimini più gravi secondo il principio di “una giustizia temperata con la clemenza”. La massima corte ha invitato altresì ad una maggiore uso della pena di morte con la sospensione condizionale di due anni (che permette ai condannati di ottenere la commutazione della sentenza capitale in pena detentiva per buona condotta).

11) DOPO UN TRENTENNIO PRIMA CONDANNA PER IL GENOCIDIO CAMBOGIANO

 

Il genocidio compiuto dai Khmer Rossi in Cambogia tra il 1975 e il 1979 è stato uno dei più sanguinosi massacri del secolo passato, e della storia, ma è rimasto fino ad ora sostanzialmente impunito. Il 26 luglio, per la prima volta, una corte internazionale ha sanzionato, infliggendogli una pesante pena detentiva, Kang Kek Ieu, detto “Duch”, uno dei dirigenti Khmer responsabili dei massacri di allora.

 

Kang Kek Ieu, alias Kaing Guek Eav, soprannominato “Duch”, tra il 1975 e il 1979 dirigeva la prigione S-21 di Tuol Sleng, in cui furono torturati dai Khmer Rossi, per poi essere uccisi in un campo poco lontano, migliaia di prigionieri, forse più di 12 mila.

Kang Kek Ieu, è stato giudicato e condannato, dopo oltre trent’anni dai fatti contestatigli, da una corte “ad hoc”, formata da giudici cambogiani ed internazionali, creata dalle Nazioni Unite nel 2003 e insediatasi a Phnom Penh nel 2007 (v. n. 154, Notiziario, 168).

La sentenza emessa contro “Duch” il 26 luglio lo condanna per crimini di guerra e per crimini contro l’umanità (ma non per genocidio pur essendo stato uno dei massimi dirigenti del sanguinario regime dei Khmer Rossi, al potere negli anni Settanta in Cambogia, che fece qualcosa come 1,7 milioni di vittime). La pena che gli è stata inflitta assomma a 35 anni di carcere di cui 16 già scontati. L’accusa ne aveva chiesti 40.

Il condannato, reo confesso, collaborativo con l’accusa e il tribunale, che ha rilasciato alcune dichiarazioni di pentimento dei suoi atti, ha potuto evitare l’ergastolo, anche tenendo conto della limitata libertà di cui godeva a suo tempo nell’ambiente coercitivo instaurato dai Khmer Rossi e delle attuali possibilità di riabilitazione. Ciò ha suscitato l’ira di alcuni sopravvissuti dell’allucinante strage degli anni Settanta. A noi, e a tutti coloro che sono contrari all’ergastolo, sembra sia stata irrogata una pena sensata. In fin dei conti il reo, oggi 67-enne, potrà uscire dal carcere non prima di aver compiuto 86 anni.

Dunque a tutt’oggi la giustizia internazionale deve accontentarsi del fatto che sia stata emessa almeno una prima condanna per uno dei peggiori crimini di massa del ventesimo secolo.

L’accusa ha adesso 30 giorni di tempo per ricorrere in appello. Nel frattempo Duch verrà ricondotto nella prigione speciale che divide con altri quattro imputati in attesa del processo: Ieng Sary, ora 84-enne, che fu il ministro degli esteri; sua moglie, Ieng Thirith, ora 78-enne, ministro del benessere pubblico, Noun Chea, 84-enne, conosciuto come “Fratello numero 2”, e Khieu Samphan, 78-enne, ex capo dello stato. A differenza di Duch, questi imputati non si sono dichiarati colpevoli. Il processo nei loro riguardi dovrebbe iniziare il prossimo anno. Altri dirigenti dei Khmer Rossi di spicco sono ormai morti, incluso il leader indiscusso Pol Pot, deceduto in libertà nel 1998.

 

 

12) NESSUNO TOCCHI CAINO: “EVOLUZIONE POSITIVA VERSO L’ABOLIZIONE”

 

La tendenza complessiva del mondo verso il superamento della pena di morte è chiara, costante  e incontestabile anche se il camino abolizionista è ancora lungo. I dati riportati nei periodici rapporti dell’associazione radicale “Nessuna tocchi Caino” lo dimostrano, in accordo con i rapporti di Amnesty International, complementari e non del tutto sovrapponibili a quelli dei Radicali.

 

Nel rapporto sulla pena di morte rilasciato dall’associazione radicale “Nessuno tocchi Caino” il 31 di luglio, leggiamo che “l’evoluzione positiva verso l’abolizione della pena di morte in atto nel mondo da oltre dieci anni, si è confermata nel 2009 e anche nei primi sei mesi del 2010.” (*)

Il tradizionale ampio rapporto dei Radicali - che come sempre si sovrappone solo parzialmente all’analogo rapporto preparato da Amnesty International - fornisce dati che dimostrano la costante diminuzione sia del numero di paesi che prevedono la pena di morte, sia di quelli che compiono almeno un esecuzione nell’arco di  un anno, sia del numero complessivo di esecuzioni nel mondo.

“I Paesi o i territori […abolizionisti]  per legge o in pratica sono oggi 154,” precisa Nessuno tocchi Caino. “Di questi, i Paesi totalmente abolizionisti sono 96; gli abolizionisti per crimini ordinari sono 8; quelli che attuano una moratoria delle esecuzioni sono 6; i Paesi abolizionisti di fatto, che non eseguono sentenze capitali da oltre dieci anni o che si sono impegnati internazionalmente ad abolire la pena di morte, sono 44. I Paesi mantenitori della pena di morte sono scesi a 43, a fronte dei 48 del 2008, dei 49 del 2007, dei 51 del 2006 e dei 54 del 2005.  Nel 2009, i Paesi che hanno fatto ricorso alle esecuzioni capitali sono stati 18, notevolmente diminuiti rispetto al 2008 e al 2007 quando erano stati 26.”    

L’associazione radicale azzarda anche una quantificazione della “diminuzione del numero di esecuzioni nei Paesi che ancora le effettuano[:] nel 2009, le esecuzioni sono state almeno 5.679, a fronte delle almeno 5.735 del 2008 e delle almeno 5.851 del 2007.”  (E’ lecito nutrire dubbi sulla possibilità di differenziare e confrontare tra loro questi ultimi dati - per loro natura estremamente incerti.)

Interessante è la messa in evidenza da parte di N. t. C. della correlazione che vi è tra l’evoluzione democratica raggiunta nei vari stati e nelle varie regioni del mondo e il compimento del processo abolizionista:

“Dei 43 mantenitori della pena di morte, 36 sono Paesi dittatoriali, autoritari o illiberali. In 15 di questi Paesi, nel 2009, sono state compiute almeno 5.619 esecuzioni, circa il 99% del totale mondiale. […]

“Dei 43 Paesi mantenitori della pena capitale, sono solo 7 quelli che possiamo definire di democrazia liberale, con ciò considerando non solo il sistema politico del Paese, ma anche il sistema dei diritti umani, il rispetto dei diritti civili e politici, delle libertà economiche e delle regole dello Stato di diritto. Le democrazie liberali che nel 2009 hanno praticato la pena di morte sono state solo 3 e hanno effettuato in tutto 60 esecuzioni, circa l’1% del totale mondiale: Stati Uniti (52), Giappone (7) e Botswana (1).”

Come rileva anche Amnesty International, “ancora una volta, l’Asia si conferma essere il continente dove si pratica la quasi totalità della pena di morte nel mondo. […] Le Americhe sarebbero un continente praticamente libero dalla pena di morte, se non fosse per gli Stati Uniti, l’unico Paese del continente che ha compiuto esecuzioni (52) nel 2009.  In Africa, nel 2009 la pena di morte è stata eseguita solo in 4 Paesi […] In Europa, la Bielorussia continua a costituire l’unica eccezione in un continente altrimenti totalmente libero dalla pena di morte. […]”

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(*) V. http://www.nessunotocchicaino.it/bancadati/index.php?tipotema=arg&idtema=13310616

 

 

13) DODICENNE RISCHIA L’ ERGASTOLO SENZA POSSIBILITÀ DI LIBERAZIONE

 

Un’azione urgente di Amnesty International USA cerca di scongiurare un’eventualità sconvolgente: l’inflizione della pena dell’ergastolo senza possibilità di liberazione ad un bambino di 12 anni.

 

Amnesty International USA ha lanciato il 28 aprile e ripetuto il 10 agosto un’Azione Urgente in favore di  Jordan Brown, un ragazzino di 12 anni  della Pennsylvania accusato dell’omicidio della fidanzata del padre.

Jordan Brown  si trova sotto processo in una corte per adulti e il giudice si è opposto allo spostamento del processo in una corte per minorenni. Un appello avanzato dai legali di Brown verrà discusso dalla Corte Superiore dello stato che ha ordinato ad accusa e difesa di presentare i propri argomenti per iscritto entro il 13 settembre.

Qualora il processo del ragazzino venisse completato nella corte per adulti, potrebbe finire con una condanna all’ergastolo senza possibilità di liberazione.

Amnesty invita a protestare nei riguardi della pubblica accusa che prospetta per Brown –  il quale aveva solo 11 anni al momento del crimine – una pena incompatibile con lo spirito e la lettera dei  trattati internazionali che proteggono i diritti umani dei minorenni, a cominciare al Patto Internazione dei Diritti Civili e Politici e dalla Convenzione Internazionale dei Diritti dell’Infanzia.

Invitiamo i lettori a partecipare all’azione urgente che si può trovare all’indirizzo:

http://www.amnestyusa.org/actioncenter/actions/uaa09710.pdf

Basterà scrivere poche righe a:

Pennsylvania Attorney General
Tom Corbett
Pennsylvania Office of Attorney General
16th Floor, Strawberry Square
Harrisburg, PA 17120, USA
Fax: 001 717 787 8242
Email dal sito: http://www.attorneygeneral.gov/contactus

 

14) IN ITALIA ESISTE L’ERGASTOLO SENZA POSSIBILITÀ DI LIBERAZIONE?

 

In Italia – in attesa che si concluda una lunga campagna per l’abolizione dell’ergastolo – è opinione comune che nessuno possa essere costretto ad una carcerazione a vita senza alcuna prospettiva di liberazione. Un’opinione errata, secondo il movimento che si batte contro il cosiddetto ‘ergastolo ostativo’.

 

Dopo gli articoli riguardanti l’ergastolo senza possibilità di liberazione negli Stati Uniti (v. nn. 177, 180) e sulla posizione di Amnesty International riguardo a tale pena (v. n. 179), ci occupiamo ora dell’ergastolo in Italia e in particolare di una questione molto sentita in questo momento nell’ambiente carcerario: l’ergastolo “ostativo”.

In alcuni paesi esiste una forma di ergastolo irrevocabile, una pena per cui, nella sentenza stessa con cui viene inflitta, è specificato che non vi è alcuna possibilità di liberazione. Ciò avviene ad esempio negli Stati Uniti d’America dove vengono condannati al carcere a vita senza possibilità di liberazione anche i minorenni, pure ragazzini di 12 o 13 anni (v. n. 180 e articolo precedente), ed anche, secondo Amnesty International, in Burkina Faso, Kenya, Sudafrica, India, Georgia, Corea del Sud, Tanzania, Australia e - in Europa - in Bulgaria, Svezia, Ucraina e Regno Unito.

Guardiamo – giustamente – a tali paesi con riprovazione, dal momento che una pena in sé perpetua ed irrevocabile, così come la pena di morte, viola un principio chiaramente affermato in ambito universale: non sono ammesse pene crudeli ed inumane, nonché un principio recepito dalle costituzioni più evolute: le pene devono tendere al recupero del reo (v. nn. 177, 179).

Ci sentiamo autorizzati a criticare gli altri paesi perché è opinione diffusa che in Italia - in attesa che si concluda la lunghissima campagna per l’abolizione dell’ergastolo – nessuno sia costretto a rimanere in carcere per tutta la vita dal momento che, scontata una certa frazione della pena in stato di detenzione, si possono ottenere i benefici introdotti dalla riforma Gozzini che permettono di uscire di prigione, di lavorare fuori ecc. e che comunque si possa ottenere la libertà condizionale dopo aver scontato 26 anni in carcere.

Niente di più sbagliato di tale opinione secondo i detenuti che si battono contro il cosiddetto “ergastolo ostativo”, tra cui Carmelo Musumeci, che scrive dal carcere di Spoleto: “Lo Stato italiano tortura alcuni suoi cittadini […] con la pena dell’ergastolo ostativo, che nega ogni beneficio penitenziario a chi non diventa collaboratore di giustizia, senza tenere conto neanche dei motivi per cui uno sceglie di non collaborare, e che fa diventare il carcere a vita realmente una sanzione perpetua e disumana. L’ergastolo ostativo ti fa sentire un cadavere senza ancora essere morto, perché non hai nessuna possibilità di uscire se non parli, se non confessi e se non metti in cella un altro al posto tuo.” (1)

Se in teoria l’irrevocabilità dell’ergastolo ostativo non è assoluta, in quanto dipende da una scelta del detenuto (quella di non collaborare con la giustizia), molti sostengono che nei fatti si può considerare tale.

Abbiamo chiesto a Nadia Bizzotto della Comunità Giovanni XXIII (2) - un’esperta di problemi penitenziari che accede regolarmente al carcere di Spoleto per visitare i detenuti - di chiarirci il concetto di ergastolo ostativo, fornendoci se possibile il numero degli “ergastolani ostativi” in Italia, di quelle persone cioè che non usciranno mai dal carcere, se non morte. Ecco la risposta di Nadia:

“Il succo del discorso è che è impossibile stabilire matematicamente quanti siano gli ergastolani ostativi. Mi spiego: in base alla tabella fornita dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del 30 aprile scorso, gli ergastolani in Italia sono 1489 (di cui 24 donne). Ma l’ostatività, cioè la non applicabilità dei benefici penitenziari, non è una condizione che viene imposta insieme con la pena dell’ergastolo. E’ regolata dall’art. 4  bis dell’Ordinamento Penitenziario (legge 354 del 1975) e vale per certi tipi di reato, in sostanza per reati di tipo associativo (3).

“Le condanne per tali reati (anche quelle inferiori all’ergastolo) per tutta la loro durata di espiazione escludono ogni possibilità di benefici (permessi, semilibertà, liberazione condizionale, ecc.) in assenza di collaborazione con la giustizia. Per cui non ci può essere un dato certo sul numero attuale degli  ergastolani ostativi (chi lo è oggi, se collabora con la giustizia domani non lo sarà più). E soprattutto l’ostatività, e quindi il divieto di applicare qualsiasi dei benefici penitenziari che il detenuto richieda con un’istanza in tribunale, la stabilisce il Tribunale di Sorveglianza di competenza (4), per cui anche chi è condannato per reati di mafia ma non richiede benefici (anche solo perché magari non è nei termini per farlo), non riceve un diniego in cui è specificata l’ostatività, ma di fatto “ostativo” è.

“Per valutare quanti ergastolani ostativi vi siano oggi in Italia occorre riflettere che prima del 1992 gli ergastolani erano circa 250. Dalle grandi stragi in poi è stato applicato l’ergastolo con molta più frequenza e facilità, quindi è pensiero diffuso tra gli addetti ai lavori, che degli attuali 1498 ergastolani, la maggioranza (forse addirittura 1200) siano ergastolani ostativi...

“Il problema di fondo rimane comunque non solo la legittimità dell’ergastolo con queste modalità, che diventa una pena di morte mascherata perché realmente la persona è destinata a rimanere in carcere fino alla morte, ma anche la legittimità di indurre alla collaborazione tramite la possibilità di uscire dal carcere. I cosiddetti “pentiti” escono quasi immediatamente, purché mettano altri al loro posto. Questo comporta però (oltre al fatto che qualcuno inventa o ricama i suoi racconti per ottenere maggiori vantaggi...) che chi teme per la propria famiglia, per la propria vita, od ha un rifiuto etico alla ‘delazione’, e non parla, sia considerato eternamente colpevole anche dopo 20-30 anni e anche dopo aver fatto un serio percorso di revisione interiore, mentre i “pentiti”, che pentiti non sempre sono, fanno una scelta processuale e vanno fuori subito (molte volte per tornare a delinquere).”

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(1) V. art. di Carmelo Musumeci “Tortura democratica”, che può essere richiesto a prougeau@tiscali.it

(2) La “Comunità Giovanni XXIII” è stata fondata nel 1973 da don Oreste Benzi ed ora, dopo la morte di don Oreste, è diretta da Giovanni Paolo Ramonda.

(3) “[…] l’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio, e le misure alternative alla detenzione […] possono essere concessi ai detenuti e internati [per reati associativi …] solo nei casi in cui tali detenuti e internati collaborano con la giustizia […]” Dall’art. 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario (legge 354 del 1975), comma 1.

(4) “Ai fini della concessione dei benefici di cui al comma 1, il magistrato di sorveglianza o il tribunale di sorveglianza decide, acquisite dettagliate informazioni per il tramite del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica competente in relazione al luogo di detenzione del condannato […]” Ibidem, comma 2.

 

 

15) I RADICALI MOSTRANO LA SOFFERENZA NELLE CARCERI ITALIANE

 

In occasione del lancio della campagna “Ferragosto in carcere” – svoltasi nei giorni 13-14-15 agosto tramite ispezioni di parlamentari in quasi tutti gli istituti di pena italiani - il Partito Radicale ha diffuso i dati che delineano – nella loro freddezza numerica – un autentico inferno di sofferenza e di inciviltà racchiuso nel cuore del nostro Stato. Riportando un ampio estratto della lettera inviata per l’occasione dai Radicali al cardinale Angelo Bagnasco – con l’intento provocatorio di coinvolgere la gerarchia ecclesiastica - pensiamo di dare sufficienti motivi di riflessione ai lettori (“chi vuole intender intenda”).

 

Eminenza [mons. Angelo Bagnasco], le condizioni in cui versano le carceri italiane sono disperanti. Indubbiamente questo è l’anno più difficile per tutta la “comunità penitenziaria”: mai in passato i detenuti ristretti nelle nostre carceri sono stati così tanti (68.206, [*]) e il personale di ogni livello così ridotto nel suo organico. Ciò ha comportato e comporta che oggi – più che nel passato – il carcere sia sempre di più (e spesso esclusivamente) il luogo della pena, che poco o niente ha a che vedere con la pietas oltre che con quanto sancito dall’art. 27 della Costituzione Italiana, secondo il quale le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha di già condannato l’Italia per il trattamento disumano e degradante cui sono ridotti i reclusi. Dall’inizio dell’anno sono 40 i detenuti suicidi (34 si sono impiccati, 5 si sono asfissiati col gas e 1 si è tagliato la gola), mentre il totale dei detenuti morti nel 2010, tra suicidi, malattie e cause “da accertare” arriva a 105 (negli ultimi 10 anni i “morti di carcere” sono stati 1.703, di cui 594 per suicidio). Nei primi sette mesi del 2009 (anno che ha fatto registrare il “record storico” di suicidi in carcere, con 72 casi), il numero dei detenuti suicidi era attestato a 31, quindi 7 in meno rispetto a quest’anno. Un trend negativo che, a meno di clamorose inversioni, a fine anno rischia di produrre un numero di decessi in carcere mai visto, né immaginabile fino a pochi anni fa. Ma non sono soltanto i detenuti a “morire di carcere”: da inizio anno già 4 agenti di Polizia penitenziaria si sono tolti la vita e il 23 luglio si è ucciso anche il Provveditore alle carceri della Calabria, Paolo Quattrone. […] Le scriviamo per chiederle di operare affinché questa volta anche gli Ordinari diocesani, che in base all’art. 67 dell’Ordinamento Penitenziario (L. 354/75) hanno la prerogativa di visitare gli istituti penitenziari senza preavviso per l’esercizio del loro ministero, si uniscano a noi in quest’incontro con una umanità sofferente che ha un estremo bisogno di ascolto. […]

“Ero carcerato e mi avete visitato”: un’opera di misericordia, di ri-conoscimento in quei “poveri” cui si riferisce Gesù nel Vangelo, che permetterebbe alla società italiana di essere più attenta e informata sulle condizioni indegne in cui vivono decine di migliaia di persone. Gradisca i nostri migliori saluti. F.to:  Rita Bernardini (deputata Radicali), Mario Staderini (Segretario Nazionale di Radicali Italiani)

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[*] A fronte di una capienza regolamentare di 44 mila detenuti, ndr.

 

 

16) NOTIZIARIO

 

Iran. Mente il mondo cerca di salvare Sakineh, ne impiccano a centinaia. Il 27 agosto la Federazione Internazionale per i Diritti Umani (FIDH) e la Lega Iraniana per la Difesa dei Diritti Umani (LDDHI) hanno condannato le massicce esecuzioni di prigionieri nel carcere Vakil Abad a Mashad avvenute all’insaputa dell’opinione pubblica mondiale concentrata sul caso di Shakineh Mohammadi Ashtiani (v. articolo sopra). Secondo notizie fornite da attivisti e da ex detenuti, in detta prigione le autorità iraniane avrebbero ordinato oltre un centinaio di esecuzioni per impiccagione, 68 delle quali sarebbero state portate a termine nella sola giornata del 18 agosto. Si teme che altre centinaia di detenuti in quattro sezioni del  carcere di Mashad possano essere messi a morte nelle prossime settimane. Gli sforzi degli abolizionisti sembrano ormai concentrasi sulla salvaguardia di alcune categorie minoritarie di condannati a morte in Iran: minorenni all’epoca del crimine, oppositori politici,  omosessuali, condannati alla lapidazione. Purtroppo è in crescita il numero complessivo delle esecuzioni nel paese. Quelle note sono state circa 400 sia nel 2008 che nel 2009. Secondo la FIDH le cifre conosciute sono da ritenersi inferiori al numero reale di persone ‘giustiziate’, in quanto il governo iraniano “sta facendosi beffe delle risoluzioni e raccomandazioni delle Nazioni Unite, compiendo le esecuzioni in segreto e riferendo solo una piccola parte di quelle portate a termine. Le date di esecuzione e spesso le esecuzioni stesse sono tenute nascoste ai familiari dei condannati, agli avvocati e al pubblico in genere.”

 

Perù. Il presidente García è un fervente sostenitore della pena di morte. Il presidente peruviano Alan García Pérez – personaggio autoritario con un oscuro record per quanto riguarda il rispetto dei diritti umani - ha manifestato il suo favore per la pena di morte proponendola per contrastare l’incremento di crimini violenti nella nazione. Il Perù è un paese abolizionista per i crimini ordinari, infatti la pena di morte è al momento ammessa in Perù solo per tradimento in tempo di guerra. “Appartengo a quella categoria di persone che ritengono che certi crimini debbano essere pagati con la vita”, come l’abuso e l’omicidio di bambini, ha dichiarato García ai giornalisti. “Per lo meno io sarei pronto a decapitare personalmente 50 stupratori”. A titolo di esempio egli ha citato la Cina, in cui circa 5000 persone sono state giustiziate l’anno scorso. Considerando la proporzione tra il numero dei Peruviani e quello dei Cinesi, il presidente ha dichiarato che almeno 100 persone avrebbe dovuto essere giustiziate in Perù. Garcia aveva già cercato di introdurre la pena di morte nel 2006, ma non è stato in grado di portare avanti il suo proposito. Ha criticato il Parlamento, affermando che dovrebbe rendere le leggi molto più dure, ed ha auspicato che il prossimo Congresso possa quanto meno istituire l’ergastolo per i pluriomicidi.

 

Usa. Zacarias Moussaoui rifiuta di appellarsi alla corte suprema. Accusato di essere il “ventesimo attentatore suicida” preparato da al-Qaeda per portare il terrore nel cuore degli Stati Uniti, Zacarias Moussaouisi trovava già in carcere quando si verificarono gli attentati dell’11 settembre 2001. Nel 2005 l’accusa ebbe buon gioco nell’indurlo a dichiararsi colpevole di sei capi d’accusa di cospirazione in un processo federale non privo di irregolarità e di fasi paradossali. Giudicato colpevole di reati capitali, fu condannato nel 2006 all’ergastolo senza possibilità di liberazione sulla parola invece che alla pena di morte perché la giuria non riuscì a raggiungere l’unanimità sulla pena capitale (v. n. 139). La condanna di Moussaoui è stata confermata il 4 gennaio dalla Corte federale di Appello del Quarto Circuito che ha sentenziato che il suo processo fu regolare nonostante il comportamento bizzarro dell’imputato (che a tratti si difese in proprio, v. n. 176). Contro tale decisione il condannato avrebbe potuto ricorrere alla Corte Suprema, tuttavia egli ha pensato bene di vietare ai suoi avvocati di presentare l’appello, lasciando scadere i termini. Per tale ragione i suoi 7 legali d’ufficio hanno chiesto in massa di rinunciare all’incarico e il 17 agosto la Corte del Quarto Circuito li ha autorizzati a farlo. Ora il detenuto ha tempo fino al 30 luglio 2011 per presentare un appello di habeas corpus alla Corte Suprema, l’ultimo possibile. Ricordiamo che Moussaoui, oggi 41-enne, sta scontando la pena nel carcere federale di super-massima sicurezza di Florence in Colorado in condizioni disumane che, a detta degli esperti, dovrebbero portarlo ad un rapido decadimento fisico. (V. anche nn. 92, 106, 110, 111, 112, 118, 122, 125, 136, 137, 138)

 

 

 

Questo numero è aggiornato con le informazioni disponibili fino al  27 agosto 2010

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