FOGLIO DI COLLEGAMENTO INTERNO
DEL COMITATO PAUL ROUGEAU
Numero 330 - Agosto, Settembre, Ottobre 2025

Abdullah al-Derazi
SOMMARIO :
1) Nashville, il giorno della pena: il Tennessee mette a morte Byron Black tra accuse di crudeltà e disabilità negata
2) Florida, record di esecuzioni sotto Desantis
3) Montgomery (Alabama), Ultimo Respiro: l’esecuzione di Anthony Boyd e il nodo dell’ipossia da azoto
4) Iran, Oltre 1.000 esecuzioni nel 2025: l’Iran affronta la più grave ondata repressiva degli ultimi decenni
5) Arabia Saudita, esecuzioni di minorenni e repressione crescente
6) Bologna, Nasce un comitato per bandire la pistola Taser: la mobilitazione contro l’“arma-tortura”
1) NASHVILLE, IL GIORNO DELLA PENA: IL TENNESSEE METTE A MORTE BYRON BLACK TRA ACCUSE DI CRUDELTÀ E DISABILITÀ NEGATA
Il caso di Byron Black, messo a morte nonostante gravi malattie e un defibrillatore attivo, riaccende il dibattito sulla pena capitale negli Stati Uniti. Avvocati e attivisti denunciano un’esecuzione “torturante”, mentre il governatore Lee difende la legalità del gesto.
Nashville — Alle 6 del mattino del 5 agosto 2025, nel penitenziario di massima sicurezza di Riverbend, il Tennessee ha messo a morte Byron Lewis Black, 69 anni, condannato per l’uccisione nel 1988 della sua compagna Angela Clay e delle due figlie di lei, Latoya e Lakeisha, di nove e sei anni. Black, affetto da demenza, insufficienza cardiaca e disabilità intellettiva certificata, è stato ucciso tramite iniezione letale di pentobarbital, lo stesso barbiturico usato in decine di esecuzioni negli Stati Uniti. Ma questa volta, qualcosa ha reso l’esecuzione diversa da tutte le altre: il condannato portava un defibrillatore cardiaco impiantato nel torace, un dispositivo medico pensato per riavviare il cuore in caso di arresto. Gli avvocati temevano che, al momento della morte, l’apparecchio potesse attivarsi più volte, provocandogli scosse violente e dolore prolungato. Nonostante settimane di appelli, petizioni e perfino un ricorso urgente alla Corte Suprema, le autorità statali hanno rifiutato di disattivare il dispositivo, sostenendo che farlo avrebbe significato interferire con la logistica dell’esecuzione.“È stato un atto di crudeltà inutile e pianificata,” ha dichiarato Kelley Henry, capo dell’Unità Federale per l’Habeas Corpus di Nashville. “Sapevano che l’uomo rischiava di essere scosso a morte, ma hanno scelto di ignorarlo.”
Una vita tra malattia e isolamento
La storia di Byron Black è quella di un uomo che ha trascorso più della metà della propria esistenza nel braccio della morte. Arrestato nel 1988 per aver ucciso la compagna e le due figlie, era stato condannato a morte in un processo segnato da errori e testimonianze contrastanti. Già all’epoca, alcuni esperti avevano sollevato dubbi sulla sua competenza mentale e sulla possibilità che comprendesse pienamente la natura delle sue azioni. Negli anni successivi, Black ha sviluppato una lunga lista di patologie: demenza senile, insufficienza renale terminale, scompenso cardiaco, un’anca fratturata. Nel 2024, dopo un collasso cardiaco, gli venne impiantato un defibrillatore. “Ogni volta che il cuore si fermava, il dispositivo lo scuoteva violentemente,” ha spiegato il dottor Jonathan Groner, chirurgo dell’Ohio State University. “Durante un’iniezione letale, quelle scariche si sarebbero attivate in sequenza, come una tortura”.
I legali avevano chiesto al governatore Bill Lee un atto di clemenza o, almeno, una sospensione temporanea per permettere la disattivazione dell’impianto. Ma la risposta non arrivò mai. “È stato ucciso due volte: prima dalla legge, poi dalla scienza ignorata,” ha commentato l’attivista Maria DeLiberato, direttrice di Floridians for Alternatives to the Death Penalty.
Un caso che scuote la nazione
L’esecuzione di Byron Black non è un episodio isolato. Si inserisce in un contesto più ampio di ripresa della pena di morte nel Sud degli Stati Uniti, guidata da Florida, Texas e Tennessee. Solo nel 2025, i tre Stati hanno totalizzato più di venti esecuzioni, un numero che non si vedeva da oltre un decennio. Il Tennessee, in particolare, è tornato sotto i riflettori dopo il caso Black: una persona con disabilità intellettiva non dovrebbe essere giustiziata, secondo una chiara sentenza della Corte Suprema americana del 2002 (Atkins v. Virginia). Tuttavia, la giurisprudenza lascia agli Stati ampia discrezionalità nel definire “disabilità intellettiva”. “È un vuoto legale che permette l’arbitrio,” denuncia Amnesty International USA. “Ogni Stato stabilisce i propri criteri, e in Tennessee questi criteri escludono persone come Black, che in qualunque altro contesto sarebbero considerate non imputabili.”
La condanna a morte di un uomo malato, anziano e con un dispositivo medico attivo ha provocato una nuova ondata di critiche internazionali. L’Unione Europea e il Consiglio d’Europa hanno espresso “grave preoccupazione per la deriva punitiva degli Stati Uniti nel trattamento dei detenuti vulnerabili”.
La voce dei familiari e il silenzio delle istituzioni
Dalla parte opposta, i familiari delle vittime hanno difeso la decisione della giustizia. “Abbiamo aspettato quasi quarant’anni per questo giorno,” ha dichiarato Bennie Clay, ex marito di Angela e padre delle due bambine uccise. “Lui non mostrò pietà per loro, e non ne meritava.” Il procuratore generale del Tennessee, Jonathan Skrmetti, ha sostenuto che tutte le vie legali erano state percorse e respinte: “La nostra priorità è sempre stata la giustizia per la famiglia Clay. Non c’è stato dolore inutile: Byron Black è morto pacificamente”. Ma diversi testimoni oculari hanno riferito di movimenti convulsi e spasmi prolungati dopo l’iniezione dei farmaci. Un giornalista locale ha scritto che “la scena sembrava interminabile, e il corpo tremava anche dopo che l’ufficiale aveva dichiarato la morte”. L’amministrazione statale non ha fornito spiegazioni né pubblicato i protocolli medici usati durante l’esecuzione, appellandosi alla “riservatezza operativa”.
Un dibattito etico che travalica i confini del Tennessee
L’eco del caso ha superato i confini dello Stato. Giuristi e bioeticisti americani hanno definito l’esecuzione di Byron Black “un passo indietro nella civiltà giuridica”. “È la collisione tra medicina e punizione,” ha spiegato la professoressa Deborah Denno della Fordham Law School. “Quando un dispositivo medico è progettato per salvare la vita, usarlo in un contesto di morte lo trasforma in uno strumento di tortura.” Secondo il Death Penalty Information Center, il caso Black potrebbe diventare un punto di riferimento per ridefinire le linee guida sull’idoneità medica dei condannati. In Tennessee, come in altri Stati del Sud, l’età media dei prigionieri nel braccio della morte supera ormai i 60 anni, e molti presentano condizioni cliniche complesse. “Il rischio,” spiega il sociologo Adam Lankford dell’Università dell’Alabama, “è che il sistema si trasformi in un ospedale geriatrico con un boia in corsia.”
Tra legge e compassione
Per i sostenitori della pena capitale, l’esecuzione di Black rappresenta la chiusura di una ferita mai rimarginata. Per i suoi oppositori, è il simbolo di un sistema che punisce anche quando non serve più. Il reverendo William Barber, leader del movimento PoorPeople’sCampaign, ha definito la vicenda “un sacrificio rituale di un uomo spezzato, compiuto nel nome della giustizia ma privo di umanità”. A poche ore dalla morte, i difensori di Black hanno pubblicato un ultimo messaggio sul sito del Federal Public Defender:
“Byron non chiedeva libertà. Chiedeva solo di non essere torturato mentre moriva. E non abbiamo saputo garantirglielo.”
La ferita aperta della pena di morte
L’America del 2025 è ancora divisa. Da un lato, Stati come la California e New York hanno abolito o sospeso le esecuzioni; dall’altro, Florida, Texas e Tennessee le intensificano. Secondo i dati più recenti, oltre 1.630 persone sono state giustiziate negli Stati Uniti dal 1976, anno della reintroduzione della pena di morte. Ma il caso di Byron Black — uomo malato, anziano e con disabilità certificata — potrebbe diventare un punto di non ritorno.
Gli avvocati di Nashville hanno già annunciato una petizione per chiedere una revisione federale dei protocolli di esecuzione, mentre diversi Stati valutano di introdurre criteri medici obbligatori prima dell’iniezione letale.
Epilogo: un silenzio elettrico
Quando il corpo di Byron Black è stato dichiarato morto, alle 6:24 del mattino, il defibrillatore era ancora acceso. Nessuno sa se abbia tentato di riattivare il suo cuore, ma gli avvocati credono di sì.
“È morto nel modo in cui ha vissuto,” ha detto una suora presente tra i testimoni, “con un cuore che continuava a combattere anche quando tutto il resto si era già arreso.”
2) FLORIDA, RECORD DI ESECUZIONI SOTTO DESANTIS
Il governatore accusato di usare la pena di morte come strumento politico mentre lo stato raggiunge un numero di esecuzioni senza precedenti.
Florida - Il ritmo delle esecuzioni nel 2025 non ha precedenti nella storia recente dello Stato: quindici persone sono già state messe a morte e altre due attendono l’esecuzione entro la fine di novembre, un dato che supera i massimi storici registrati nel 1984 e nel 2014.
L’ultima esecuzione, quella di Norman Mearle Grim – un veterano militare condannato per l’omicidio e lo stupro di una vicina nel 1998 – ha attirato l’attenzione di associazioni, attivisti e osservatori, che denunciano una strategia deliberata del governatore volta ad accelerare i procedimenti capitali per rafforzare la propria immagine di leader ‘duro con il crimine’. Secondo l’organizzazione “Floridians for Alternatives to the Death Penalty”, questa escalation non rappresenta solo una scelta politica, ma una deriva morale: “Questo è ciò che accade quando un governo perde la coscienza. Quando la pietà viene sostituita dal calcolo politico. Quando uccidere diventa routine e i nostri leader celebrano il numero delle vittime come un successo.
DeSantis, nel corso degli ultimi mesi, non ha fornito spiegazioni pubbliche riguardo all’aumento vertiginoso delle esecuzioni e il suo ufficio ha ignorato ripetute richieste di chiarimento formulate dai giornalisti del Guardian. Tuttavia, secondo numerosi analisti politici, la ragione sarebbe evidente: il governatore, che lascerà l’incarico nel gennaio 2027, punta a rilanciare la propria carriera politica a livello nazionale, probabilmente con una nuova candidatura presidenziale dopo il fallimento della campagna del 2024. Gli esperti sottolineano che il suo comportamento ricalca dinamiche già viste nel 2023, quando, al momento dell’annuncio della sua candidatura, DeSantis ordinò sei esecuzioni dopo tre anni di inattività totale nello Stato.
“È disgustoso e vergognoso. L’unica spiegazione logica è che DeSantis stia preparando il terreno per la nomination repubblicana del 2028”, ha dichiarato Justin Mazzola, vicedirettore della ricerca di Amnesty International USA. Secondo Mazzola, il governatore starebbe riproponendo la stessa strategia utilizzata durante il precedente tentativo presidenziale: una dimostrazione muscolare che punta a impressionare l’elettorato conservatore sfruttando un tema altamente polarizzante come la pena capitale. “È un copione già visto”, ha aggiunto. “Questo comportamento dimostra quanto sia piccolo e insicuro come persona. Non è altro che un bullo, proprio come Trump: entrambi usano la morte come mezzo per mostrare potere”.
I dati del Death Penalty Information Center confermano la portata del fenomeno: negli Stati Uniti si sono registrate finora 41 esecuzioni nel 2025, di cui quasi il 40% avvenute in Florida. Il Texas segue con cinque esecuzioni, ma il distacco è notevole. Con altre cinque esecuzioni già programmate nel Paese entro la fine dell’anno, due delle quali proprio in Florida, DeSantis si conferma l’artefice principale dell’impennata nazionale. Robin Maher, direttore esecutivo del DPIC, ha espresso forte preoccupazione per la mancanza di trasparenza: “Non abbiamo ricevuto alcuna spiegazione dal governatore. Solo lui ha l’autorità di decidere chi giustiziare e quando. I cittadini della Florida non hanno informazioni sul perché lo Stato stia investendo così tante risorse nelle esecuzioni invece che in iniziative più urgenti per il benessere della popolazione”.
Secondo Maher, la frenetica cadenza delle esecuzioni sta mettendo sotto enorme pressione non solo il sistema giudiziario, ma anche gli avvocati della difesa, costretti a operare in condizioni che definisce “inumane”: carichi di lavoro insostenibili, poche risorse e tempi talmente stretti da risultare incompatibili con una rappresentanza legale adeguata. Il DPIC sottolinea anche un elemento particolarmente controverso: cinque delle quindici persone messe a morte nel 2025 erano veterani militari, un dato sorprendente considerando che DeSantis, lui stesso un veterano, ha più volte definito la Florida uno degli Stati più attenti e favorevoli ai militari.
Gli analisti ricordano inoltre che la tendenza nazionale va nella direzione opposta. Negli Stati Uniti, negli ultimi vent’anni, il numero delle esecuzioni è diminuito drasticamente, passando dalle 85 del 2000 alle 11 del 2021. La Florida rappresenta quindi un’anomalia evidente. Craig Trocino, direttore della Innocence Clinic presso la University of Miami School of Law, sottolinea che la legislazione statale ha subito modifiche significative negli ultimi anni, tra cui la legge del 2023 voluta da DeSantis che ha ridotto il requisito di unanimità della giuria per imporre la pena capitale, abbassandolo da 12 voti su 12 a una semplice maggioranza qualificata di otto giurati. “Se la pena di morte deve esistere – e io non credo che debba – non può essere dettata dall’opportunismo politico ma dalla riflessione”, ha dichiarato Trocino. “La Florida è lo stato con il più alto numero di condannati a morte poi scagionati dal 1976: accelerare il processo decisionale significa aumentare enormemente il rischio di errore giudiziario”.
Con un ritmo che vede esecuzioni programmate quasi ogni due settimane, la Florida si conferma oggi il teatro di una battaglia politica e morale che riflette una frattura più ampia nella società americana: da un lato gli Stati che stanno abolendo o sospendendo la pena capitale e investendo in alternative giudiziarie, dall’altro chi, come DeSantis, ne fa un simbolo identitario e una dimostrazione di potere. Il risultato è un panorama nazionale profondamente diviso, in cui la pena di morte continua a essere uno strumento politico conteso e carico di implicazioni etiche, sociali e istituzionali.
Notizia del 2 agosto 2025, relativa all’aumento delle esecuzioni in Florida, prendendo come fonte https://www.theguardian.com/us-news/2025/nov/01/florida-death-penalty-ron-desantis
3) MONTGOMERY (ALABAMA), ULTIMO RESPIRO: L’ESECUZIONE DI ANTHONY BOYD E IL NODO DELL’IPOSSIA DA AZOTO
Lo Stato dell’Alabama ha messo a morte il 54enne Anthony Boyd mediante ipossia da azoto, dopo il rifiuto della Corte Suprema di sospendere l’esecuzione. Il caso riaccende il dibattito sulla pena di morte, tra dubbi di giustizia e l’uso di metodi sperimentali.
Montgomery — Nella mattina del 23 ottobre 2025, la prigione di Holman, in Alabama, è tornata al centro del mondo. Alle 6:01, Anthony Boyd — 54 anni, afroamericano — è stato messo a morte con un metodo che molti definiscono “sperimentale”: l’ipossia da azoto, una procedura che priva gradualmente il corpo di ossigeno sostituendolo con azoto puro.
La Corte Suprema degli Stati Uniti aveva respinto l’ultimo appello dei suoi avvocati poche ore prima, consentendo allo Stato di proseguire con l’esecuzione. L’intervento finale del condannato, riportato
dai testimoni, è stato calmo ma drammatico: “Non voglio soffrire. Qualunque cosa facciano, la facciano presto”. I minuti successivi sono stati descritti da un testimone come “un lento declino”: dopo l’attivazione della maschera respiratoria, Boyd ha perso conoscenza solo dopo alcuni minuti, e ha continuato a respirare irregolarmente per un tempo stimato di oltre cinque minuti. Un medico ha poi dichiarato la morte alle 6:14.
Con la sua esecuzione, l’Alabama è diventato il primo Stato americano a usare in modo sistematico l’ipossia da azoto, già sperimentata a inizio anno con il caso di Kenneth Smith, e nuovamente al centro delle polemiche per presunte sofferenze inflitte al condannato.
Il caso Boyd: una condanna nata da dubbi e omissioni
Anthony Boyd era stato condannato nel 1995 per l’omicidio di Gregory Huguley, avvenuto due anni prima nella contea di Talladega. Secondo l’accusa, Boyd e altri tre uomini avrebbero sequestrato e ucciso Huguley dandogli fuoco dopo una lite per una partita di droga non pagata. Ma la ricostruzione dell’accusa si è retta quasi interamente su una testimonianza ottenuta da un coimputato, che ricevette in cambio una condanna ridotta. Nessuna prova fisica collegava Boyd alla scena del crimine: nessuna impronta digitale, nessuna traccia di DNA, nessuna arma.
Il processo durò appena due giorni. L’avvocato difensore era giovane e inesperto, appena nominato d’ufficio, e dichiarò di “non avere risorse per condurre un’indagine autonoma”. Il verdetto della giuria arrivò con una maggioranza di 10 a 2: una raccomandazione non unanime, oggi vietata in molti Stati, ma allora sufficiente per ottenere la pena capitale.
Negli anni successivi, le revisioni processuali e i ricorsi post-condanna hanno più volte sollevato gravi irregolarità procedurali, ma nessun tribunale ha mai concesso un’udienza piena sulle nuove prove e sulla credibilità dei testimoni.
Il metodo dell’ipossia da azoto: tra scienza e crudeltà
Il metodo usato per giustiziare Boyd è tra i più controversi nella storia recente della pena di morte. L’ipossia da azoto consiste nel sostituire l’aria respirata con gas azoto, provocando la perdita di coscienza e la morte per mancanza di ossigeno. In teoria, dovrebbe essere “indolore e rapido”, ma nella pratica le prime esecuzioni hanno mostrato segni di sofferenza prolungata.
Secondo i medici legali e i gruppi per i diritti civili, il rischio di soffocamento cosciente è elevato: un condannato può restare lucido per diversi minuti mentre il cervello si spegne per mancanza di ossigeno. Durante il primo test del metodo, nel gennaio 2024, il detenuto Kenneth Smith impiegò quasi dieci minuti per morire, scuotendo violentemente la maschera nel tentativo di respirare.
Anche nel caso di Boyd, le testimonianze hanno parlato di spasmi, gemiti e un corpo “che si irrigidiva lentamente”. La giudice Sonia Sotomayor, dissentendo dalla decisione della Corte Suprema di permettere l’esecuzione, ha scritto: “Stiamo assistendo a una nuova forma di esperimento punitivo, che aggiunge terrore psicologico a un’esecuzione già crudele.”
Per contro, lo Stato dell’Alabama ha difeso il metodo come “legale e conforme alla Costituzione”, sostenendo che le procedure fossero state testate e approvate. Tuttavia, i dettagli tecnici e medici restano coperti da segreto di Stato, e gli osservatori indipendenti non sono ammessi nella camera delle esecuzioni.
Le voci del dubbio
La Equal Justice Initiative (EJI), organizzazione con sede a Montgomery che si occupa di giustizia razziale e pena di morte, ha definito l’esecuzione di Boyd “una tragedia evitabile e un fallimento morale dello Stato”. Secondo l’EJI, il processo del 1995 rappresenta “uno dei casi più emblematici di cattiva difesa legale e di testimonianze premiate in cambio di favori giudiziari”.
Bryan Stevenson, fondatore dell’organizzazione, ha dichiarato in una conferenza stampa:
“Non c’è nulla di giusto in un sistema che uccide persone povere, difese male e condannate su prove fragili. L’Alabama sta diventando un laboratorio di crudeltà legale.”
Molti osservatori internazionali condividono la stessa preoccupazione: l’uso di metodi sperimentali e la mancanza di trasparenza rischiano di violare il diritto alla dignità umana garantito dai trattati internazionali firmati dagli Stati Uniti. Secondo un sondaggio condotto dal Pew Research Center dopo il caso Smith, oltre il 60% degli americani ritiene che la pena di morte sia applicata in modo diseguale, e il 45% teme che persone innocenti possano essere messe a morte.
La questione razziale e la povertà della difesa
Il caso Boyd non è isolato. In Alabama, circa il 70% dei condannati a morte è afroamericano, e molti di loro sono stati rappresentati da avvocati d’ufficio mal pagati o senza esperienza. Negli anni ’90, l’Alabama permetteva ai giudici di ignorare le raccomandazioni della giuria e imporre la pena di morte anche quando i giurati suggerivano l’ergastolo.
Molti dei processi di quel periodo sono oggi contestati per la presenza di giurie parziali, confessioni estorte e testimoni incentivati. Eppure, decenni dopo, le corti statali continuano a resistere a qualsiasi revisione sistemica. “Quando un sistema giudiziario diventa incapace di correggersi, la giustizia si trasforma in automatismo,” scrive il professor Adam Lankford dell’Università dell’Alabama. “E in Alabama questo automatismo coincide spesso con l’esecuzione.”
Oltre Boyd: il significato di una morte
La morte di Anthony Boyd ha riaperto il dibattito sul senso stesso della pena capitale negli Stati Uniti. A oggi, 23 Stati l’hanno abolita completamente, altri tre hanno dichiarato moratorie. Tuttavia, nel Sud — e in particolare in Alabama, Texas e Florida — le esecuzioni sono in aumento. La governatrice dell’Alabama, Kay Ivey, ha difeso pubblicamente l’uso dell’ipossia da azoto, definendolo “un metodo umano e necessario per mantenere la legge e l’ordine”. Ma per molti giuristi, l’esecuzione di Boyd rappresenta un punto di non ritorno: se un metodo così controverso viene normalizzato, la soglia morale della pena di morte potrebbe abbassarsi definitivamente.
Per i sostenitori dell’abolizione, il caso di Boyd dimostra che la giustizia americana è disposta a sperimentare sulla vita umana pur di mantenere la pena capitale, anche quando le prove della colpevolezza sono fragili e il metodo stesso incerto.
Epilogo
Quando l’annuncio ufficiale della morte è arrivato, fuori dal penitenziario un piccolo gruppo di manifestanti ha recitato preghiere e cantato inni gospel. Tra loro, un cartello scritto a mano:
“La giustizia senza compassione è solo violenza regolamentata.”
Per molti, quello di Anthony Boyd non è stato solo un atto giudiziario, ma una prova morale per l’intera nazione. Una prova che, ancora una volta, gli Stati Uniti sembrano aver superato solo in apparenza.
Fonte: Equal Justice Initiative (EJI) – “Anthony Boyd Executed in Alabama Despite Serious Concerns About Nitrogen Hypoxia Method,” ottobre 2025
4) IRAN, OLTRE 1.000 ESECUZIONI NEL 2025: L’IRAN AFFRONTA LA PIÙ GRAVE ONDATA REPRESSIVA DEGLI ULTIMI DECENNI
Amnesty International, Nazioni Unite e Iran Human Rights denunciano un sistema giudiziario opaco, processi sommari e un uso politico della pena di morte.
Tehran — L’Iran ha superato nel 2025 la soglia delle 1.000 esecuzioni nei primi nove mesi dell’anno, segnando la più alta ondata repressiva degli ultimi trent’anni. La cifra, resa nota da una convergenza di rapporti di Amnesty International, Ufficio dell’Alto Commissario ONU per i Diritti Umani e Iran Human Rights (IHR), non è solo un dato statistico, ma il segnale di una strategia deliberata: l’uso della pena capitale come strumento di intimidazione sociale e controllo politico.
Secondo queste organizzazioni, l’aumento delle esecuzioni non è un fenomeno episodico, né legato a un vero incremento della criminalità, ma parte di una risposta sistemica dello Stato iraniano alle proteste scoppiate nel 2022 dopo la morte di Mahsa Amini. Quelle manifestazioni, duramente represse, hanno segnato un punto di svolta nella politica interna: la risposta giudiziaria, sin da allora, si è fatta più rapida, meno trasparente e accompagnata da un linguaggio ufficiale che dipinge gli imputati come “nemici dello Stato”.
Il ricorso massiccio alla pena di morte
Gran parte delle esecuzioni riguarda reati legati alla droga, spesso associati a imputati provenienti da contesti socioeconomici vulnerabili e minoranze etniche come i Baluchi e i Curdi. In molti casi, secondo gli osservatori, gli imputati non hanno ricevuto un processo equo: la difesa legale è stata limitata, le confessioni ottenute in condizioni coercitive e le udienze si sono svolte a porte chiuse. Amnesty International sottolinea che l’uso della pena di morte per reati di droga viola il diritto internazionale, che permette la pena capitale solo per i “crimini più gravi”, tipicamente l’omicidio intenzionale. Tuttavia, in Iran, centinaia di persone sono state condannate e giustiziate senza che sia stato dimostrato alcun coinvolgimento in atti di violenza. A questa categoria si aggiungono esecuzioni per accuse politiche — tra cui “corruzione sulla terra”, “spionaggio” e “collaborazione con gruppi ostili” — termini che, secondo le Nazioni Unite, rimangono volutamente vaghi per permettere al sistema giudiziario di colpire oppositori, attivisti, giornalisti e dissidenti.
Il peso sulle minoranze
Iran Human Rights evidenzia come le minoranze etniche siano colpite in modo sproporzionato: nel caso dei Baluchi, che rappresentano una piccola percentuale della popolazione iraniana, la quota delle persone giustiziate nel 2025 supera di gran lunga la loro presenza demografica. Questa sproporzione, sottolineano gli esperti ONU, indica che la pena di morte non è applicata in modo neutrale o puramente giudiziario, ma riflette diseguaglianze strutturali e dinamiche di potere interne. Alcune delle storie raccolte dalle ONG parlano di lavoratori poveri coinvolti nel traffico di droga come un mezzo di sopravvivenza, donne condannate per l’omicidio dei mariti in contesti di violenza domestica, o persone giustiziate dopo processi che sono durati pochi giorni e senza la possibilità di presentare prove a discarico.
Uno strumento politico
Per le Nazioni Unite, la ricorrenza delle esecuzioni non è casuale nel calendario politico: alcuni picchi coincidono con periodi di tensione nazionale o anniversari di proteste. In questi momenti, l’esecuzione pubblicamente annunciata di condannati per “crimini contro lo Stato” assume una funzione simbolica: un messaggio di controllo e deterrenza. L’analisi degli osservatori internazionali descrive un modello chiaro: arresti rapidi, accesso alla difesa limitato, confessioni sotto pressione, sentenze severe, esplosione delle esecuzioni nei mesi immediatamente successivi. Questo ciclo, ripetuto decine di volte nel 2025, ha trasformato il sistema giudiziario iraniano in quello che Iran Human Rights definisce «una macchina disciplinare».
Reazioni internazionali insufficienti
Nonostante la gravità dei numeri, la risposta della comunità internazionale finora è apparsa timida. Alcuni governi hanno espresso preoccupazione, l’Unione Europea ha emesso dichiarazioni ufficiali, ma le pressioni diplomatiche reali sono state limitate, anche a causa del contesto geopolitico, segnatamente del ruolo regionale dell’Iran.
Amnesty e le organizzazioni partner hanno proposto azioni concrete:
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Sanzioni mirate contro giudici e procuratori responsabili delle condanne
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Sospensione della cooperazione giudiziaria internazionale
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Monitoraggio indipendente nelle carceri
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Moratoria immediata sulle esecuzioni
Finora, nessuna di queste misure ha trovato applicazione stabile.
«Una crisi di dignità umana»
Per gli esperti ONU, il quadro delle esecuzioni iraniane nel 2025 rappresenta una «crisi di dignità umana» e rischia di normalizzare la pena di morte come strumento governativo anziché come ultimo ricorso della giustizia. Le famiglie delle persone giustiziate spesso non vengono informate della data dell’esecuzione. In molti casi, i corpi non vengono restituiti. L'umiliazione diventa parte della punizione. Come affermato in uno dei rapporti:
«La pena di morte in Iran non è solo una sanzione. È un messaggio. E il messaggio è la paura.»
5) ARABIA SAUDITA, ESECUZIONI DI MINORENNI E REPRESSIONE CRESCENTE
HRW denuncia 300 esecuzioni nel 2025: crescono i casi di condanne capitali per reati commessi durante la minore età.
Arabia Saudita – Il 20 ottobre 2025, è stata eseguita la condanna a morte di Abdullah al-Derazi, accusato di aver commesso presunti reati quando era ancora minorenne. La notizia, diffusa da Human Rights Watch, ha sollevato un’ondata di indignazione internazionale, soprattutto perché l’uomo rappresenta la trecentesima persona messa a morte nel Paese dall’inizio del 2025, un dato che conferma un’escalation senza precedenti nella storia recente del regno.
Secondo le organizzazioni per i diritti umani, il 2025 ha visto un aumento drammatico delle esecuzioni, spesso portate avanti senza garanzie procedurali e con accuse che includono reati non violenti. Dei condannati, almeno 198 erano stati riconosciuti colpevoli di reati legati alla droga. In questo clima repressivo, anche Jalal al Labbad, arrestato a 15 anni per aver partecipato a manifestazioni, è stato messo a morte il 21 agosto. La sua famiglia ha appreso dell’esecuzione solo dai media, senza essere stata preventivamente informata dalle autorità.
Joey Shea, ricercatore di Human Rights Watch per l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, ha denunciato pubblicamente l’operato del governo saudita: “Con l’esecuzione di al Derazi, le autorità hanno raggiunto due traguardi orribili: 300 esecuzioni nei primi dieci mesi dell’anno e la seconda esecuzione di una persona accusata di crimini commessi quando era minorenne. Questo dovrebbe eliminare ogni dubbio sulla gravità della crisi dei diritti umani nel Paese”.
Al Derazi apparteneva alla minoranza sciita, da anni discriminata dal governo di Riyadh. Secondo l’Organizzazione saudita europea per i diritti umani (ESOHR), venne arrestato nell’agosto 2014 dopo essere stato picchiato selvaggiamente in strada. Subì isolamento prolungato, torture fisiche, ustioni sul volto e attorno agli occhi, e fu costretto a firmare una confessione sotto tortura. Nonostante queste segnalazioni, la Corte penale specializzata dell’Arabia Saudita lo condannò a morte nel 2018 per reati legati alle proteste, presumibilmente commessi all’età di 17 anni, in base alla rigida legge antiterrorismo del Paese.
Nel 2023, l’ESOHR e il MENA Rights Group scoprirono che la Corte Suprema aveva segretamente confermato la sentenza di morte. Quando il Ministero degli Interni annunciò l’esecuzione il 20 ottobre 2025, presentò le accuse come atti di terrorismo volti a destabilizzare la sicurezza nazionale, sostenendo che al-Derazi avesse sparato contro obiettivi di sicurezza in collaborazione con un’organizzazione terroristica.
Simile è il caso di Jalal al Labbad, arrestato nel 2017 per aver partecipato a cortei funebri e proteste antigovernative. Gli esperti delle Nazioni Unite hanno richiesto ufficialmente al governo saudita la restituzione del corpo del giovane alla famiglia e un esame medico-legale indipendente, denunciando la mancanza di trasparenza del procedimento.
Human Rights Watch sottolinea come in entrambi i casi le condanne fossero basate su confessioni estorte, una pratica documentata da anni nel sistema giudiziario saudita. L’uso di confessioni forzate contro minorenni non solo viola il diritto internazionale, ma rende ancora più probabile che gli imputati non abbiano ricevuto un processo equo.
L’Arabia Saudita è firmataria della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia, che vieta categoricamente la pena capitale per reati commessi da individui sotto i 18 anni. Nonostante ciò, i tribunali sauditi hanno condannato a morte almeno altri sei minorenni: Yousef al Manasif, Ali al Mabiouq, Jawad Qureiris, Ali al Subaiti, Hassan al Faraj e Mahdi al Mohsen. Secondo le ONG, questi individui restano a rischio di esecuzione nonostante gli appelli delle Nazioni Unite.
Nel novembre 2024, il Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla detenzione arbitraria ha dichiarato arbitraria la detenzione di diversi minorenni condannati, tra cui al Labbad, al Derazi, al Manasif, Qureiris e al Faraj. Tuttavia, tali conclusioni non hanno impedito alle autorità di proseguire nella loro politica di repressione.
Il diritto internazionale dei diritti umani, incluso quello sancito dalla Carta araba dei diritti umani ratificata dall’Arabia Saudita, stabilisce che la pena di morte può essere applicata solo in casi eccezionali e per i crimini più gravi, una condizione che secondo esperti e ONG viene regolarmente violata. Nel 2022, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani aveva già espresso preoccupazione per l’aumento delle esecuzioni dopo la fine di una moratoria informale durata 21 mesi.
Joey Shea ha concluso denunciando la strategia del governo saudita di cercare prestigio internazionale attraverso eventi sportivi e investimenti nel settore dello spettacolo: “Mentre Riyad tenta di ripulire la propria immagine spendendo miliardi per attrarre celebrità e grandi eventi, questi personaggi dovrebbero chiedersi se non stiano diventando complici della copertura di esecuzioni di persone che avrebbero commesso presunti reati quando erano bambini”.
Notizia del 20/10/2025, relativo all’esecuzione di minorenni, dalla fonte: https://www.hrw.org/news/2025/10/20/saudi-arabia-spate-of-executions-of-child-offenders
6) BOLOGNA, NASCE UN COMITATO PER BANDIRE LA PISTOLA TASER: LA MOBILITAZIONE CONTRO L’“ARMA-TORTURA”
Un gruppo di associazioni e cittadini lancia un appello al Presidente della Repubblica e ai sindaci italiani per vietare l’uso, la produzione e la commercializzazione della pistola Taser, denunciandola come strumento ad alto impatto sanitario e psicosociale.
Bologna — Nel cuore di Bologna, il 15 ottobre 2025, un gruppo eterogeneo di cittadini, associazioni e professionisti della salute ha dato vita a un comitato nazionale con un obiettivo preciso: bandire la pistola Taser in Italia. L’iniziativa non è un atto isolato, ma il primo passo di una mobilitazione più ampia che punta a ripensare il concetto di ordine pubblico, spostandolo dal terreno della repressione a quello della tutela della salute e della dignità delle persone.
Il comitato ha diffuso un appello pubblico rivolto al Presidente della Repubblica, al Governo e ai sindaci italiani, chiedendo l’immediata sospensione dell’uso della Taser e l’apertura di un dibattito nazionale sui rischi fisici e psicologici legati al suo impiego.
Le motivazioni del comitato
Secondo i promotori, la pistola Taser è uno strumento “non letale solo sulla carta”. La scarica elettrica di oltre 50.000 volt può causare gravi danni fisici e psicologici, soprattutto quando usata su persone con patologie cardiache, disturbi mentali, sotto effetto di sostanze o semplicemente in condizioni di forte stress.
Il comitato sottolinea che gli operatori non possono conoscere le condizioni mediche del soggetto colpito, e che in numerosi casi documentati l’uso della Taser ha portato a decessi. In Italia, diversi episodi – da Olbia a Napoli, da Genova a Reggio Emilia – sono stati seguiti da morti sospette.
A livello internazionale, più di mille persone sono decedute negli Stati Uniti dopo l’uso della Taser da parte delle forze dell’ordine. I promotori definiscono l’arma una “forma di tortura legalizzata”, denunciando l’assenza di un controllo medico sistematico e la sottovalutazione degli effetti psicologici: panico, traumi da stress, perdita di coscienza prolungata, con conseguenze spesso durature per le vittime.
L’appello chiede non solo il divieto d’uso della Taser da parte delle forze dell’ordine, ma anche il blocco della sua produzione, importazione e commercializzazione sul territorio nazionale. La richiesta si fonda sul principio di precauzione e sul rispetto dei diritti umani, sostenendo che nessuno strumento di coercizione elettrica possa essere considerato compatibile con l’articolo 3 della Costituzione, che tutela la dignità della persona.
Inoltre, il comitato propone una moratoria di cinque anni su tutte le forniture già in corso, per consentire la raccolta di dati scientifici indipendenti sugli effetti sanitari e psicosociali dell’arma. Durante questo periodo, si chiedono protocolli chiari per la gestione di persone in crisi psichiatrica o in stato di agitazione, con la sostituzione delle armi elettriche da strumenti di
de-escalation e intervento non violento.
Un nuovo concetto di ordine pubblico
Il comitato bolognese intende promuovere una visione alternativa di sicurezza: non più fondata sulla forza, ma sulla prevenzione, la mediazione e la cura delle fragilità sociali. “Un altro ordine pubblico è possibile” – scrivono i promotori – “fondato sul rispetto dei diritti umani e sulla capacità di ridurre il danno, non di amplificarlo.”
Il documento ricorda che il concetto di “ordine pubblico” in Italia è sempre più confuso con la gestione del disagio sociale, dove la polizia è spesso chiamata a intervenire su persone vulnerabili – migranti, senza dimora, soggetti con disturbi psichiatrici – in contesti che richiederebbero invece competenze socio-sanitarie.
Secondo il comitato, l’introduzione della Taser rischia di normalizzare la violenza istituzionale e di rendere più frequente l’uso della forza elettrica come soluzione rapida a problemi complessi.
Tra i firmatari figurano intellettuali, attivisti, operatori della salute mentale e associazioni civiche. Hanno aderito, tra gli altri, Daniele Barbieri, giornalista e scrittore, Patrizia Beneventi, attivista per i diritti umani, e organizzazioni come il Forum nazionale salute mentale, Yairaiha, il Circolo Chico Mendes e numerosi gruppi territoriali di base.
Il comitato intende costituire un Osservatorio permanente che raccolga testimonianze, referti medici e dati sulle persone colpite da Taser, con l’obiettivo di documentare in modo sistematico l’impatto dell’arma sulla salute fisica e mentale dei cittadini.
Le richieste alle istituzioni
Il documento indirizzato alle autorità prevede quattro punti principali:
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Al Presidente della Repubblica: sollecitare Parlamento e Governo ad avviare una discussione pubblica sul divieto della Taser e a verificare la compatibilità dell’arma con i principi costituzionali e internazionali.
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Ai sindaci e alle ASL: sospendere immediatamente l’uso della Taser nei corpi di polizia municipale e avviare indagini indipendenti sugli effetti sanitari e psicologici delle scariche elettriche.
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Al Governo: bloccare la produzione nazionale e le importazioni, nonché le commesse militari o civili legate alla fornitura delle pistole elettriche.
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Ai cittadini: aderire al comitato e contribuire alla raccolta di documenti e testimonianze, affinché l’Osservatorio possa diventare uno strumento di trasparenza e di pressione politica.
Le critiche alla narrazione ufficiale, impatto sanitario e psicologico
Il comitato contesta apertamente la retorica che definisce la Taser come “arma non letale”. Secondo i promotori, tale definizione minimizza i rischi e contribuisce a diffondere una percezione falsa di sicurezza, inducendo a usarla con maggiore leggerezza. “Meglio la scossa che la pistola” è una frase che – si legge nell’appello – semplifica la realtà e ignora il fatto che, per molti soggetti fragili, la scarica elettrica può essere altrettanto letale di un colpo d’arma da fuoco. La diffusione della Taser, inoltre, alimenta un mercato parallelo: sempre più modelli vengono venduti illegalmente online o importati per usi personali, con il rischio che armi elettriche finiscano in mani non addestrate, alimentando violenza nelle strade o nelle manifestazioni.
Le organizzazioni sanitarie coinvolte richiamano l’attenzione sull’impatto delle scariche elettriche sul corpo umano: alterazioni cardiache, spasmi muscolari, perdita di coscienza e, in alcuni casi, arresto cardiaco. I rischi aumentano in presenza di pacemaker, defibrillatori, droghe, ansia acuta o patologie neurologiche. Non meno importante è l’effetto psicologico: molte vittime raccontano di aver vissuto l’esperienza come un trauma, sviluppando incubi, ansia e diffidenza verso le istituzioni. Alcuni casi segnalano anche crisi post-traumatiche e disturbi del sonno. Il comitato intende portare alla luce queste storie, costruendo un archivio nazionale di casi di abuso o di morte sospetta legati alla Taser, per fornire finalmente una base di dati indipendente e verificabile.
Reazioni e prospettive
Le prime reazioni all’appello sono contrastanti. Mentre associazioni per i diritti umani, medici e psichiatri ne hanno accolto con favore i contenuti, i sindacati delle forze dell’ordine difendono l’utilità della Taser come strumento intermedio “tra le mani nude e la pistola”. Il comitato ribatte che tale argomento è eticamente fallace: sostituire un’arma letale con una “quasi letale” non rappresenta un progresso civile. La soluzione, spiegano, non è ampliare la gamma di strumenti di coercizione, ma potenziare la formazione degli operatori, la mediazione nei conflitti e la capacità di intervento psicologico sul territorio.
Il dibattito, quindi, è appena iniziato. L’obiettivo dichiarato dei promotori è arrivare in Parlamento con una proposta di legge che proibisca in via definitiva la Taser, restituendo all’Italia una posizione chiara e coerente con i principi internazionali contro la tortura.
Fonte: “Contro la pistola Taser nasce un comitato”, La Bottega del Barbieri, 16 ottobre 2025. https://www.labottegadelbarbieri.org/contro-la-pistola-taser-nasce-un-comitato/
Questo numero è aggiornato con le informazioni disponibili fino al 31ottobre 2025