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FOGLIO  DI COLLEGAMENTO  INTERNO

 

DEL COMITATO PAUL ROUGEAU

 

Numero 199  -  Luglio / Agosto 2012

Fernando Caro, indiano Yaqui

SOMMARIO:

1) Pessima notizia per Larry, sia pure ufficiosa                           

2) Uccidere un ritardato mentale: non si può ma il Texas lo fa               

3) Delma Banks, potrà uscire… dopo 44 anni di detenzione                    

4) La vita di Paula Cooper comincerà tra un anno                                  

5) Nelle roventi carceri texane                                                                  

6) Nel processo capitale il contendere è la barba dell’imputato               

7) Quasi un ergastolo per uno scippo: è il Texas                                      

8) Norvegia: 77 omicidi puniti con 21 anni in un carcere                                        confortevole               

9) Spaventoso crescendo di esecuzioni in Iraq                                          

10) Furia di esecuzioni in Gambia dopo una moratoria di 27 anni           

11) Primo ricorso contro la condanna di Peterson in                                                California                          

12) Calvario ai confini delle Fortezza Europa                                           

13) Trapelato il testo dell’accordo con la Libia ai danni dei migranti      

14) La Corte Penale Internazionale infligge la prima condanna              

15) Scuola Diaz: definitive le miti condanne ai capi della polizia              

16) Nel braccio della morte della California di Fernando E. Caro            

17) Notiziario: Giappone, Illinois, Italia, Libia, Usa                                  

 

 

1) PESSIMA NOTIZIA PER LARRY, SIA PURE UFFICIOSA

 

Il giudice Fred Edwards, che ha tenuto tra febbraio e marzo l’udienza sulle prove di innocenza di Larry Swearingen, il nostro amico condannato a morte in Texas, ha fatto filtrare una pessima notizia. Ancor prima di concludere il proprio lavoro sugli atti dell’udienza, ha preannunciato pollice verso: adotterà la posizione dell’accusa e raccomanderà alla superiore Corte d’appello di respingere la richiesta di un nuovo processo avanzata dalla difesa del condannato.

 

La lettura di un articolo del quotidiano Austin Chronicle del 20 agosto ci ha colto alla sprovvista, lasciandoci meravigliati ed avviliti: gli accusatori della contea di Montgomery, coloro che in Texas perseguono accanitamente l’esecuzione del nostro amico Larry Swearingen, hanno saputo che il giudice Edwards, d’accordo con loro, intende negare un nuovo processo a Larry (1).

Così avrà esito negativo la complessa udienza “sulle prove” tenutasi, davanti al giudice di contea Fred Edwards, a partire dal 27 febbraio e protrattasi per due settimane (2).

La notizia è stata fatta uscire in un momento in cui l’avvocato James Rytting, principale difensore di Larry, si trovava all’estero. Rytting ha vivacemente protesto per l’esternazione di Edwards.  Infatti gli avvocati di Swearingen non hanno ancora visto le trascrizioni ufficiali dell’udienza tenutasi tra febbraio e marzo.

Anticipare un giudizio a prescindere dalla verbalizzazione finale dell’udienza, senza aver acquisito le conclusioni formulate per iscritto da accusa e difesa riguardo alle testimonianze scientifiche protrattesi per due settimane, inficia la serietà del procedimento, ha osservato giustamente Rytting.  

La questione da decidere era se le numerose prove forensi venute alla luce negli ultimi anni, specialmente i numerosi reperti istologici prelevati dagli organi della giovane Melissa Trotter, presunta vittima di Larry, dimostrano che la morte della ragazza avvenne mentre Swearingen si trovava in carcere, scagionandolo.

Ricordiamo che la Trotter sparì l’8 dicembre 1998 dal college in cui studiava e il suo corpo fu rinvenuto nella Foresta Nazionale Sam Houston il 2 gennaio dell’anno successivo, in uno slargo che nel frattempo era stato battuto molte volte da diversi uomini. Larry Swearingen, l’ultima persona ad incontrare la ragazza, era stato arrestato tre giorni dopo la sua scomparsa ed era rimasto sempre in carcere.

L’articolo dell’Austin Chronicle riporta notizie interessanti sull’andamento dell’udienza.

In favore di Swearingen hanno testimoniato alcuni dei più noti esperti medici forensi del Texas (da Stephen Pustilnik della contea Galveston, a Lloyd White della contea di Tarrant, ad Arturo Sanchez, della contea di Harris), concordi nell’affermare che i reperti istologici sono incompatibili con un periodo post mortem di 25 giorni.

Dal canto suo l’accusa ha chiamato il dottor Werner Spitz, molto anziano e incline a fare qualche confusione, ma famoso a livello nazionale per aver testimoniato nel secolo scorso riguardo alla morte del presidente John F. Kennedy e, in questo secolo, in diversi casi che hanno avuto rilievo nelle cronache. Ed ha chiamato anche un altro famoso personaggio, l’entomologo Neal Haskell, ispiratore di una serie televisiva. 

Haskell ha affermato che gli insetti trovati sul corpo di Melissa Trotter erano compatibili con un periodo di giacenza nel bosco come quello trascorso dalla scomparsa della ragazza. Haskell ha dovuto tuttavia ammettere che le sue affermazioni riguardo all’attività degli animaletti sul corpo della Trotter e intorno ad esso erano basate su foto e non sull’esame di insetti concreti.

I periti della difesa e dell’accusa sono stati attaccati vigorosamente dagli avvocati delle parti avverse.

L’accusatore Warren Diepraam ha perfino messo in dubbio che i campioni istologici esaminati dai periti forensi citati dalla difesa provenissero dalla ragazza uccisa.

Il giudice Edwards non ha ancora scritto le sue personali conclusioni (findings of fact and conclusions of law) ma l’accusatore Diepraam non si è vergognato di dichiarare all’Austin Chronicle che “non esiste base scientifica per le conclusioni della difesa”, anticipando che il giudice Edwards accrediterà gli esperti portati dall’accusa. “La difesa usa una scienza finta; la nostra scienza è supportata da ricerche di decenni e di secoli.”

E’ lecito ora domandarsi quando avverrà tutto ciò che è stato anticipato a livello di pettegolezzo, cioè quando gli atti dell’udienza tenutasi tra febbraio e marzo verranno formalizzati ed ufficializzati per iscritto, con in calce le conclusioni dell’onorevole giudice Fred Edwards.

Potrebbero passare settimane o mesi senza novità. In ogni caso, quando arriverà, la proposta di Edwards di negare un nuovo processo a Larry costituirà soltanto la base per una decisione che dovrà essere presa dalla Corte Criminale d’Appello del Texas (TCCA), la corte  che ordinò l’udienza.

La TCCA avrà una sua autonomia anche se è probabile che deciderà negativamente per Larry. Intanto passeranno mesi (se non anni) e poi gli avvocati di Larry potranno tentare ricorsi a livello federale…

Siamo estremamente delusi anche se, per la verità, eravamo piuttosto scettici sull’esito della presente vicenda giudiziaria, dato che il giudice Edwards in passato si è mostrato prevenuto e ostile – sia nelle proprie dichiarazioni che nelle proprie sentenze, a cominciare dalla sentenza di morte pronunciata nel 2000 - nei riguardi di Larry.

Ma c’è una cosa che non capiamo fino in fondo: come mai la TCCA – una delle corti più forcaiole degli Stati Uniti - ordinò l’udienza per Larry, salvandolo dall’iniezione letale quando sembrava che non ci fosse più alcuna speranza par lui?

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(1) V. http://www.austinchronicle.com/blogs/news/2012-08-20/judge-ready-to-rule-against-swearingen/

(2) V. n. 196 e numeri ivi citati.

 

 

2) UCCIDERE UN RITARDATO MENTALE: NON SI PUÒ MA IL TEXAS LO FA

 

Nel 2002 la Corte Suprema degli Stati Uniti, con la sentenza Atkins v. Virginia, ha dichiarato incostituzionale la pena di morte per i ritardati mentali. Però il Texas ha deciso che non tutte le persone con ritardo mentale debbano essere risparmiate, ma solo quelle per le quali “ci sia un consenso dei cittadini del Texas.” Sulla base di questa interpretazione restrittiva della sentenza Atkins, il 7 agosto è stato messo a morte Marvin Wilson che ritardato mentale lo era certamente.

 

Il 7 agosto nella camera della morte di Huntsville è stata praticata l’iniezione letale al nero Marvin Wilson, ritardato mentale. L’esecuzione ha fatto più scalpore all’estero che in Texas.

Wilson era stato condannato a morte per l’omicidio del 21-enne Jerry Williams, un informatore della polizia, avvenuto nel 1992 (rimangono dubbi sulla distribuzione delle responsabilità tra Wilson e il suo complice Andrew Lewis).

Wilson èstato ucciso anche se, con la sentenza Atkins v. Virginia del 2002, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha proibito l’esecuzione dei ritardati mentali, definendola una punizione “crudele ed inusuale” contraria alla Costituzione.

Gli esperti si sono domandati come mai ciò sia potuto avvenire. Hanno concluso che la volontà di uccidere del Texas ha prevalso sullo spirito della legge, anche per l’inerzia delle corti federali che avrebbero potuto intervenute per fermare l’esecuzione ma non l’hanno fatto.

La sentenza Atkins del 2002 che proibisce l’esecuzione di ritardati mentali lascia piuttosto vaga la nozione di ritardato mentale. Sta ai singoli stati di stabilire criteri precisi per definirla.   

A dieci anni dalla sentenza Atkins, il Texas non ha ancora una legge che definisca il ritardo mentale. Nelle more, vengono adottati dei criteri enunciati nel 2004 dalla massima corte criminale del Texas (la Texas Court of Criminal Appeals) trattando il caso di tale José Briseno. I criteri Briseno comprendono fattori aggiuntivi alle valutazioni scientifiche del ritardo mentale. Si tratta di criteri, assenti in qualsiasi altro stato USA, collegati al crimine commesso, che permettono l’esecuzione della sentenza se, per esempio, la corte determina che il crimine richiedeva premeditazione, pianificazione ed esecuzione articolata.

“Beffando la sostanza della sentenza Atkins,” scrive Laura Moye di Amnesty International USA, “il Texas ha deciso che non tutte le persone con ritardo mentale debbano essere risparmiate ma solo quelle per le quali “ci sia un consenso dei cittadini del Texas.”

In pratica il Texas si riserva di mettere a morte tutti coloro che ritiene presentino un ritardo mentale “moderato” (anche se la sentenza Atkins non fa distinzioni fra ritardati).

Per quanto riguarda Wilson, i risultati dei test sul suo quoziente intellettuale si sono distribuiti tra i 61 e i 75 punti. Il test più preciso ed attendibile tra di essi è quello che ha segnato 61 punti, mentre il punteggio di 70 è considerato nella maggioranza degli stati come il limite del ritardo mentale.

Nel 2004 un perito neuropsicologo con 22 anni di esperienza nominato dalla corte, dopo aver eseguito nove test di vario tipo e aver studiato la documentazione agli atti, concluse che Wilson era un ritardato mentale.

Marvin Wilson ha avuto una breve carriera scolastica in classi differenziali, il suo linguaggio si è sviluppato pochissimo “ben dentro il range della disabilità” e le sue capacità di comprensione della lettura sono “molto limitate”. Persino il lavoro in un autolavaggio si rivelò troppo difficile per lui.

L’accusa non si è preoccupata di contestare le conclusioni del perito. Tuttavia le corti statali hanno rigettato gli appelli di Wilson riferendosi ai ‘criteri Briseno’. Le corti federali hanno fatto orecchi da mercante e non hanno corretto le sentenze delle corti statali.

In un ultimo ricorso gli avvocati di Wilson hanno chiesto alla Corte Suprema degli Stati Uniti di chiarire se i ‘criteri Briseno’ rappresentano una errata applicazione della sentenza Atkins v. Virginia. La Corte Suprema si è rifiutata di entrare in merito a tale ricorso e la notizia del diniego è arrivata in extremis, due ore prima che venisse somministrata l’iniezione letale a Marvin Wilson.

Il professor David Dow, docente universitario texano specializzato nella difesa di casi capitali, conosce bene il caso di Marvin Wilson per aver partecipato alla sua difesa legale: “Quando incontrai per la prima volta Wilson circa 7 anni fa, lo trovai garbato, piuttosto timido,” ricorda. “Le sue capacità di scrittura e di lettura erano all’incirca quelle di mio figlio, che aveva 5 anni. Mi disse che l’essere stato condannato per omicidio era una cosa buona perché gli dava l’opportunità di imparare molte cose.”

Dow cerca di spiegare come mai Wilson ed altri ritardati mentali non si siano potuti salvare dall’iniezione letale nonostante la sentenza Atkins v. Virginia. Un primo motivo, secondo lui, è che le corti federali nell’ultimo quarto di secolo si sono dimostrate restie a entrare in merito alle questioni di giustizia criminale lasciando sostanzialmente mano libera agli stati. La seconda è che la Corte Suprema degli Stati Uniti è un organo molto conservatore che, anche se di tanto in tanto emette sentenze avanzate, non si impegna affinché le proprie decisioni, specie le più controverse, abbiano coerenti conseguenze nelle decisioni delle corti inferiori.

Insomma, ancora una volta, sullo spirito delle legge, ha avuto la meglio la volontà di uccidere del Texas. (1)

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(1) Dow ricorda un’illuminante statistica: in Texas la percentuale dei successi dei condannati a morte che si appellano in base alla sentenza Atkins è solo del 25%, mente a livello nazionale la percentuale di successo è del 40%. Ricordiamo che il Texas, oltre ai ritardati mentali, uccide, in violazione ad un trattato internazionale, gli stranieri cui è stata negata l’assistenza consolare del proprio paese (v. ad es. nn. 117 “La Corte internazionale…”, 162, 191), nonché malati mentali gravi v. ad es. n. 118, “Il Texas uccide…”).

 

 

3) DELMA BANKS, POTRÀ USCIRE… DOPO 44 ANNI DI DETENZIONE

 

Non esistono prove degne di questo nome della colpevolezza del nero Delma Banks che fu condannato a morte in Texas nel 1980. Nonostante ciò la sua esecuzione è stata fissata ben sedici volte. Nel 2004, finalmente, il suo processo fu annullato dalla Corte Suprema federale, ma limitatamente alla seconda fase, quella di inflizione della pena. Ora, per evitare il nuovo processo con il rischio di una seconda condanna morte, Banks e i suoi avvocati hanno patteggiato con l’accusa una pena che si prolungherà fino al 2024. Uscirà di prigione a 65 anni di età colui che vi entrò a 21 anni.

 

Il nero Delma Banks è stato il protagonista di una del più controverse e disdicevoli vicende giudiziarie del Texas dell’ultimo trentennio (1). Fu condannato a morte nel 1980 da una giuria composta interamente da bianchi, accusato dell’omicidio di Richard Whitehead, un sedicenne bianco al quale avrebbe rubato l’auto.

Ciò anche se Banks non aveva precedenti e Richard Whitehead aveva passato la sera prima della sua scomparsa insieme a lui e ad altre persone in perfetta armonia.

Nel 1999, vent’anni dopo il processo di Delma Banks, i suoi avvocati riuscirono ad ottenere, da un giudice federale, l’autorizzazione a consultare tutto il materiale relativo al procedimento e portarono alla luce gravissime irregolarità commesse dall’accusa.

Non essendoci prove che legassero Banks alla morte di Whitehead, nel 1980 furono prodotte testimonianze a carico fornite da due personaggi marginali, Robert Farr and Charles Cook, entrambi tossicodipendenti, ricattati dalla polizia. Cook, inoltre, aveva collezionato condanne per rapina e falsificazione di documenti.

Gli avvocati di Delma Banks scoprirono nel 1999 che la testimonianza di Cook non solo era stata suggerita ma ampiamente provata, come si fa per una recita. Inoltre la polizia aveva utilizzato Farr, un proprio informatore, tra l’altro poco attendibile, compensandolo con 200 dollari.

Dopo che fu scoperto tutto ciò, in una dichiarazione giurata ottenuta dalla difesa di Banks, Farr chiarì che si era prestato a testimoniare per paura di essere arrestato per reati di droga.

Ci vollero alcuni anni per ottenere un po’ di giustizia per Delma Banks: soltanto nel 2004 la Corte Suprema federale annullò il processo originario, limitatamente alla seconda fase, quella di inflizione della pena.

Il nuovo processo per l’inflizione della pena era stato programmato per il prossimo ottobre. Accusa e difesa avevano fatto dichiarazioni bellicose. L’accusa aveva giurato di ottenere di nuovo una condanna a morte. La difesa aveva chiesto più volte, e aveva intenzione di chiedere di nuovo, anche l’annullamento della prima fase del processo (quella in cui si decide sulla colpevolezza), puntando sull’innocenza dell’accusato.

Alla fine si è arrivati ad un grande compromesso: il 1° agosto Delma Banks ha firmato un impegno a rinunciare ad ogni altra iniziativa per far riconoscere la propria innocenza. In compenso l’accusa rinuncia alla ripetizione della seconda fase del processo, quella per il ripristino della pena di morte, già programmata per il prossimo ottobre.

In tal modo a Banks toccherebbero solo 20 anni di carcere prima di poter chiedere la liberazione sulla parola (2). Avendone scontasti più di 30, a rigor di logica potrebbe farlo subito. Invece, per uno dei misteri della ‘giustizia’ americana che non vogliamo sforzaci di spiegare, il temine di 20 anni può essere contato solo a partire dal 2004, cioè dal momento dell’annullamento della prima fase del processo di Banks.

Insomma se tutto andrà bene per lui, Delma Banks uscirà nel 2024 all’età di 65 anni, dopo averne passati 44 in carcere. E dopo sedici date di esecuzione e altrettante sospensioni, l’ultima delle quali, nel 2003, solo dieci minuti prima del momento fissato per l’iniezione letale.

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(1) V. nn. 105; 107, Notiziario,  113, 116 Notiziario,  190 Notiziario.

(2) Nel 1980, quando Banks fu condannato per omicidio capitale, la massima pena detentiva prevista in Texas comportava la possibilità di chiedere la liberazione sulla parola dopo 20 anni.

 

 

4) LA VITA DI PAULA COOPER COMINCERÀ TRA UN ANNO

 

Il movimento per l’abolizione della pena di morte divenne una questione popolare in Italia nel 1986, quando Paula Cooper, una ragazzina nera dello stato nordamericano dell’Indiana, fu condannata alla sedia elettrica per un delitto di branco compiuto a quindici anni di età.

 

Molti - compreso chi scrive - scesero in campo contro la pena capitale nel 1986, quando in Europa, e in particolare in Italia, il problema della pena di morte divenne una questione popolare (prima era un argomento a cui si dedicavano solo gli attivisti di Amnesty). Ne parlava Raffaella Carrà a “Domenica in”. Se ne appropriarono le grandi associazioni, i sindacati, le chiese.

Infine fu trascinato nel movimento abolizionista anche papa Giovanni Paolo II che ‘costrinse’ gli estensori del “Nuovo Catechismo” a riscrivere alcuni passi riguardanti l’uso pena capitale, fino ad allora accettato senza obiezioni dalla Chiesa cattolica.

Il motivo iniziale della nascita di un ampio movimento contro la pena di morte fu la vicenda di una ragazzina nera dello stato nordamericano dell’Indiana, Paula Cooper (1).

Come ho già detto e scritto più volte, dopo tanti anni mi spinge ancora a lottare contro la pena capitale la coerenza con una decisione presa a luglio del 1986. Allora lessi una notizia pubblicata con scarso rilievo sul giornale: Paula Cooper, che aveva 16 anni, era stata condannata alla sedia elettrica per un omicidio compiuto a Gary nell’Indiana un anno prima, quando aveva 15 anni. Decisi di fare qualcosa per evitare l'esecuzione di Paula Cooper.

Il delitto compiuto da Paula Cooper e da altre tre ragazzine di 14-16 anni fu particolarmente “insensato”. A prima vista incomprensibile.

Le ragazzine marinarono la scuola e decisero di andare alla sala giochi, ma non avevano i soldini necessari. Così pensarono di rapinare qualcuno per procurarseli. Fu scelta Ruth Pelke, una vecchietta che viveva da sola e dava “lezioni di Bibbia” a pagamento. L'anziana signora non si lasciò intimidire più di tanto. Questo le fu fatale. Ricevette un colpo in testa, dato con un vaso. L'ampio sanguinamento che ne seguì fece perdere il controllo alle assalitrici, che finirono la Pelke con una trentina di coltellate. Il ricavato della rapina fu di 9 dollari. Le quattro furono subito arrestate. Paula, che era la più intelligente tra loro, fu definita la ‘capobanda’ e condannata a morte.

Esaminando il caso Cooper a posteriori, il delitto risultò più comprensibile, spiegato almeno in parte dall’estremo degrado sociale che aveva subito la città di Gary, in crisi economica per la chiusura delle grandi acciaierie. Gary fu abbandonata dagli originari abitanti e occupata da poveracci e sbandati. Paula era immigrata a Gary insieme ai genitori, al nonno, e a una sorella. Vivace e ribelle arrivò ad uccidere al culmine di una lunga storia di violenze subite in famiglia.

Paula Cooper, dopo un iniziale smarrimento, in carcere cominciò la propria ricostruzione – morale e intellettuale - già nei quattro anni che trascorsero prima che la Corte Suprema dell’Indiana commutasse la sua pena in 60 anni di detenzione (riducibili per buona condotta).

Studiò per corrispondenza, si diplomò e – nel maggio del 2001 – si laureò in legge.

Trasferita nove anni fa in un carcere avanzato (2) in cui può fare sport e lavorare, si è sempre impegnata al massimo per far bene quello che fa, mettendo da parte qualche soldino per quando uscirà di prigione.

Ora, in un lungo articolo pubblicato il 15 agosto dal Northwest Indiana Times (3), Paula confida alla giornalista Sarah Tompkins i suoi propositi e le sue speranze per quello che avverrà tra un anno: se tutto andrà bene tornerà in libertà il 17 agosto del 2013, a 43 anni di età, un po’ sfiorita ma piena di ottimismo e di buoni propositi.

Nel nuovo carcere di Rockville Paula cominciò a lavorare cucendo uniformi - mettendoci un grande impegno per meno di 1,50 dollari l’ora -  adesso è un’ottima cuoca che prepara i pasti per i 100 membri dello staff della prigione. “Sono molto orgogliosa di quello che faccio,” ha dichiarato alla giornalista. “La gente deve aver fiducia di te per mangiare quello che prepari.”

“7 o 8 anni fa, non potevo dire di essere pronta per tornare a casa, non ne volevo parlarne con nessuno per non dire bugie,” rivela Paula. “Ora il mio momento sta arrivando e spero che il mondo mi dia una seconda possibilità fuori da qui. Perché le persone cambiano.”

Cercherà un lavoro stabile. Anche se istruita, accetterà qualsiasi occupazione che le consenta di sbarcare il lunario: lavare pavimenti, lavare piatti, cuocere hamburger… Ma, come promette sempre da oltre 20 anni, al lavoro vuole aggiungere il volontariato: aiutare i ragazzi in difficoltà. (Giuseppe)

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(1) V.nn. 86, 128, “Papa Wojtyla…”,133, 153.

(2) L’indirizzo di Paula Cooper è:

     Ms. Paula R. Cooper # 864800

     Rockville Correctional Facility

     811 W. 50 N

     Rockville, IN 47872 – USA

(3) V. in http://www.nwitimes.com/news/topics/paula-cooper/ ,  “Paula Cooper: convicted of…”

5) NELLE ROVENTI CARCERI TEXANE

 

Si può sopravvivere in un ambiente con oltre 50 gradi centigradi? Nelle carceri texane sembra di sì. Anche se i più deboli muoiono. E il famigerato senatore John Whitmire, supervisore delle carceri, invita a non fare tante storie: dopotutto si tratta di stupratori, assassini, criminali.

 

In molte prigioni statunitensi i detenuti subiscono un trattamento che equivale a tortura, sia per le condizioni di totale prolungato isolamento, sia per la negazione di cure e di mezzi essenziali alla sopravvivenza, come possono essere un cibo decente e condizioni climatiche sopportabili (1). L’azione legale di un detenuto che subì nel carcere statale di Beeville in Texas un calore estremo nell’estate del 2008 ha avuto un primo successo dal quale potrebbero anche conseguire in futuro conseguenze pratiche positive (2).

Eugene Blackmon, un ex detenuto di Beeville, aveva citato l’amministrazione carceraria per non aver garantito un efficace sollievo dal calore sofferto nelle celle, durante i bollenti mesi estivi del 2008. In un primo tempo una corte federale aveva respinto l’azione del detenuto, ma, all’inizio di agosto, la competente corte federale d’appello ha annullato tale sentenza affermando che ci sono i presupposti perché l’ex detenuto possa di nuovo intentare causa “per i danni alla sua salute e la violazione delle protezioni costituzionali contro le punizioni crudeli ed inumane”.

Gli avvocati di Blackmon assunsero un esperto che misurò la temperatura delle celle di Beeville nell’estate del 2010 e calcolò quella che, in proporzione, doveva esserci nell’estate particolarmente calda del 2008. Stabilì che, in celle con le finestre sigillate, prive di qualsiasi impianto di aria condizionata, la temperatura doveva aver raggiunto i… 52 gradi centigradi per dieci giorni consecutivi!

Le conseguenze di un simile calore provocarono ipertermia in molti detenuti, con effetti gravissimi sulla loro salute, in particolare per quelli sofferenti di pressione alta, come Blackmon, che all’epoca aveva 63 anni. Oltre agli effetti immediati, come nausea, emicrania e allucinazioni, la temperatura così elevata lasciò danni permanenti agli apparati respiratorio e cardio-circolatorio di molte persone.

Dopo quella di Blackmon, un’altra causa è stata intentata dai familiari di Larry Gene McCollum, un detenuto di 58 anni morto per ipertermia l’anno scorso, sempre in Texas. Quando McCollum arrivò in ospedale, dopo essere stato trovato esanime nella sua cella, la sua temperatura corporea era di 42 gradi. Morì sei giorni dopo. È stato accertato che, oltre a lui, altri tre prigionieri, di età comprese tra i 44 e i 57 anni, morirono l’anno scorso, nello stesso giorno, in diverse carceri dello stato per lo stesso motivo: la temperatura in quelle prigioni raggiunse i 56 gradi! Gli attivisti per i diritti dei carcerati sostengono inoltre che lo scorso anno almeno altri cinque detenuti morirono in Texas a causa del calore eccessivo.

Le norme prevedono che nelle carceri di contea debba essere garantita ai detenuti una temperatura oscillante tra i 18 e i 29 gradi, ma questi limiti, peraltro non rispettati, non riguardano le prigioni statali. Le vecchie prigioni texane non hanno impianti di aria condizionata, ma solo ventole che fanno circolare l’aria caldissima. In molte celle anche l’acqua fresca non è facilmente ottenibile, e i detenuti cercano, spesso invano, di refrigerarsi impregnando con l’acqua del gabinetto le loro magliette. Solo 21 carceri statali su 111 hanno l’aria condizionata.

Il Dipartimento di Giustizia Criminale del Texas sta valutando le richieste e le accuse, ma con molto scetticismo e scarsissima volontà di collaborazione.

Il senatore John Whitmire, presidente del Comitato parlamentare che supervisiona il sistema di giustizia criminale del Texas, ha detto di voler esaminare le situazioni caso per caso.  Ha comunque chiarito di non essere d’accordo con le pretese di aria condizionata nelle prigioni, sia per il costo, ma soprattutto per principio: “I Texani non si sentono motivati a regalare l’aria condizionata ai detenuti. Queste persone sono stupratori, assassini, criminali. E noi dovremmo pagare per la loro aria condizionata, mentre io non posso fornire aria condizionata ai nostri concittadini che lavorano duramente e pagano le tasse?”.

Sappiamo che il Texas non è l’unico stato in cui regnano temperature inumane nei mesi estivi all’interno delle prigioni: il nostro amico Dale Recinella, cappellano dei prigionieri in isolamento in Florida, ha più volte riferito nelle sue conferenze di aver visto i detenuti ferirsi sbattendo la testa contro i muri a seguito di allucinazioni provocate in estate dall’ipertermia. (Grazia)

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(1) V. ad es. n. 198, “Il Senato Usa…”, “Per le condizioni di detenzione…”

(2) V. ad es. http://www.nytimes.com/2012/08/09/opinion/heat-exhaustion-in-a-texas-prison.html ;

     http://www.ca5.uscourts.gov/opinions/unpub/11/11-40316.0.wpd.pdf

 

 

6) NEL PROCESSO CAPITALE IL CONTENDERE E' LA BARBA DELL’IMPUTATO

 

L’inizio di un processo capitale con forti connotati religiosi si è bloccato per un contrasto su una questione apparentemente secondaria. Lo scontro è avvenuto sul diritto dell’imputato di comparire in aula con la barba, in ossequio alla legge islamica. Sembra invece che l’accusa e l’imputato siano d’accordo sulla pena per 13 omicidi e 33 tentati omicidi compiuti nel 2009: la pena ca­pitale.

 

Il maggiore Nidal Malik Hasan, ufficiale medico psichiatra dell’esercito USA, è accusato di 13 omicidi premeditati e di 33 tentati omicidi compiuti all’improvviso nella base militare federale di Fort Hood in Texas il 5 novembre 2009. Hasan fece fuoco con diverse armi prima di essere abbattuto dalla polizia, rimanendo paralizzato.

A suo tempo (1), dando la notizia della strage compiuta daHasan, ci eravamo domandati, per l’ennesima volta, come mai la società americana preferisca invocare la pena di morte piuttosto che sforzarsi di comprendere le cause dell’estrema violenza che la pervade.

Per tentare di capire il comportamento di Nidal Hasan, di dichiarata fede islamica pur essendo nato e cresciuto negli USA, occorre tener presente il fattore religioso, un fattore che di tanto in tanto genera violenza in un mondo attraversato da divisioni e scontri tra diverse culture (più che da conflitti tra stati, come avveniva in passato). 

Proprio l’aspetto religioso sta caratterizzando l’avvio del processo capitale che è stato istruito negli ultimi tre anni a carico di Hansan. Il 15 agosto una questione apparentemente secondaria ha bloccato il processo nel momento stesso in cui doveva cominciare: la rasatura della barba dell’imputato.

Sorprendentemente, invece, quella che dovrebbe essere la  principale questione del contendere in un processo capitale sembra si sia risolta prima di cominciare: è l’imputato a chiedere la pena di morte.

Il giudice, colonnello Gregory Gross, ha contestato 5 volte ad Hasan il reato di vilipendo alla corte per la presenza della barba (per la verità una barba di dimensioni molto contenute) in violazione alle regole militari. Nel pomeriggio del 15 agosto, dopo l’arrivo di una squadra della polizia militare, Gross ha rinunciato ad ordinare una rasatura forzata.

Quindi la difesa di Hasan ha presentato un ricorso che è stato discusso dalla  competente corte militare d’appello (1) una settimana dopo.

Il 22 agosto gli avvocati dell’accusa hanno sostenuto che Nidal Malik deve essere costretto dal giudice Gross a radersi prima che comincino le fasi più rilevanti del processo capitale. Al limite, la rasatura dovrà essere eseguita forzatamente da un barbiere munito di qualifica professionale ed essere videoregistrata.

Gli avvocati di Hasan sostengono che la barba è un’espressione della sua fede religiosa: “egli è un musulmano praticante ed ha recentemente avuto una premonizione della propria morte imminente. Non vuole morire senza barba perché ritiene che non avere la barba sia un peccato.”

Gli avvocati dell’accusa hanno prodotto un documento di 32 pagine in cui affermano che l’ordine del giudice Gross di radersi è il minimo indispensabile per consentire ad Hasan di confrontarsi con i testimoni. Alle enunciazioni sulla libertà religiosa presenti nella giurisprudenza statunitense, i militari contrappongono chiare dettagliate regole dei processi marziali secondo le quali il giudice presidente ha l’autorità di esigere un aspetto ‘appropriatamente militare’ per gli imputati.

Una prima risposta della corte d’appello è arrivata il giorno 27: il processo capitale a carico di Hasan potrà cominciare indipendentemente dalla risoluzione del dilemma riguardo alla barba dell’imputato.

Tale risposta ingarbuglia ulteriormente la situazione. Non si sa quando e come riprenderà il processo. E allora si presenterà un’altra inusuale questione da risolvere per il giudice Gross: Hasan ha deciso di dichiararsi colpevole all’inizio del processo, anche se ciò non è ammesso in una corte marziale che prevede la pena di morte.

Gross ha anticipato che non accetterà la preannunciata dichiarazione di colpevolezza: la cambierà d’autorità in una dichiarazione di non colpevolezza.

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(1) v. n. 174

(2) Si tratta della U.S. Court of Appeals for the Armed Forces, composta da 5 giudici civili.

 

 

7) QUASI UN ERGASTOLO PER UNO SCIPPO: E' IL TEXAS

 

Spesso in Texas i giudici infliggono pene spropositate. Il nero Willie James Sauls ha ricevuto una condanna a 45 anni di carcere per lo scippo ad un’anziana che riportò un trauma ad una spalla.

 

Scippare una signora di 84 anni facendola cadere e provocandole un trauma ad una spalla, è un gesto gravissimo che merita una severa condanna, ma con il 37-enne nero Willie James Sauls il giudice texano Bob Perkins ha davvero calcato la mano: il 9 agosto gli ha inflitto 45 anni di reclusione!

Sauls l’anno scorso era stato ripreso dalle telecamere all’interno di un supermercato di Austin, mentre si aggirava per mezz’ora alla ricerca di una facile vittima, e successivamente mentre l’aggrediva. Il filmato, mostrato in televisione, ha permesso la sua identificazione da parte di diversi testimoni, tra i quali anche la sua ex fidanzata. Il giudice ha dichiarato che merita questa condanna in quanto recidivo, perché, avendo già ricevuto alcune pene detentive per reati di strada, gli era già stata data l’opportunità di ravvedersi.

Sembra che non si sia trattato di una sentenza eccezionale. La stampa texana ha ricordato che l’identica pena era stata comminata nel mese di giugno al trentenne Steven Lawrence Keller per aver colpito con un pugno e derubato una signora fuori da un bar ad Austin.

 

 

8) NORVEGIA: 77 OMICIDI PUNITI CON 21 ANNI IN UN CARCERE CONFORTEVOLE

 

La stampa statunitense ha commentato con meraviglia, ed anche con ammirato rispetto, la moderazione della giustizia norvegese che ha inflitto soltanto 21 anni di carcere a Anders Behring Breivik, reo confesso di 77 omicidi compiuti nel corso di una strage a sfondo ideologico un anno fa.

 

Il 24 agosto la stampa americana ha riportato con meraviglia l’entità della condanna dell’estremista norvegese che si rese responsabile di separati attacchi contro civili in due diverse località compiendo stragi di dimensioni non certo europee. 

“Colpevole dell’omicidio di 77 persone in tremendi attacchi con bombe ed armi da fuoco a luglio dello scorso anno, l’estremista norvegese Anders Behring Breivik è stato condannato a 21 anni di carcere – meno di quattro mesi per vittima – ponendo fine ad un caso che ha accuratamente messo alla prova la devozione collettiva di quel paese gentile per valori quali la tolleranza, la non violenza e la giustizia misericordiosa, ” scrivono Mark Lewis e Sarah Lyall nel New York Times (1). 

Breivik sconterà la pena in un appartamentino di tre ambienti in un carcere vicino ad Oslo, con attrezzi da ginnastica, televisore e computer (non collegato ad Internet). Se non sarà considerato un pericolo per la società, egli verrà liberato nel 2033 a 53 anni di età. Altrimenti la sua reclusione sarà prolungata di 5 anni in 5 anni.

Con meraviglia, ed anche con ammirazione, i giornalisti del New York Times osservano: “La relativa mitezza della condanna imposta a Breivik, il peggior criminale che la moderna Scandinavia abbia mai conosciuto, non è un’anomalia. Al contrario, è coerente con l’approccio generale della Norvegia alla giustizia. Come il resto dell’Europa – e in contrasto con la maggioranza degli stati Usa il cui sistema di giustizia è considerato da molti Europei crudelmente punitivo – la Norvegia non ha più la pena di morte e considera il carcere più un mezzo di riabilitazione che di retribuzione.”

Gli americani si sono meravigliati anche della facoltà concessa a Breivik durante il processo di parlare a ruota libera esponendo le sue deliranti idee contro il multiculturalismo, contro l’Islam e contro i marxisti che secondo lui stanno sgretolando il suo paese.

Con tutto ciò l’imputato ha raggiunto lo scopo di non essere dichiarato infermo di mente ed avviato ad una casa di cura invece che al carcere.

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(1)V. http://www.nytimes.com/2012/08/25/world/europe/anders-behring-breivik-murder-trial.html?_r=1&ref=sarahlyall

9) SPAVENTOSO CRESCENDO DI ESECUZIONI IN IRAQ

 

Il dittatore Saddam Hussein fu deposto dagli anglo-americani che invasero l’Iraq nel 2003 anche con la scusa di ripristinare la legalità, la democrazia e i diritti umani. Tuttavia in Iraq si intensifica l’ondata di processi iniqui e di esecuzioni capitali favorita dai governi succeduti a quello di Saddam.

 

Tra i motivi dichiarati dell’invasione anglo-americana dell’Iraq del 20 marzo 2003, vi era il ripristino della democrazia e dei diritti umani nel paese fino ad allora governato dal dittatore Saddam Hussein.

Immediatamente dopo la caduta di Saddam, alcuni intravidero un fatto positivo nella scelta, compiuta dall’autorità di transizione, di imporre in Iraq una moratoria sulla pena di morte.

L’uso della pena capitale riprese però ferocemente nell’agosto del 2004 ad opera del nuovo governo iracheno spalleggiato dagli USA,  suscitando forti critiche internazionali (1).

Da allora i processi capitali celebrati in Iraq, anche quelli seguiti dai media internazionali, sono pieni di dubbi, errori, orrori ed ingiustizie.

Lo stesso Saddam Hussein ha subito due processi caotici. Nel corso del più importante dei quali, costellato di intimidazioni e di minacce di morte nei riguardi dei partecipanti, sono state uccise almeno 10 persone, tra cui un giudice, tre avvocati difensori e forse alcuni testimoni a discarico (2).  

Dopo l’esecuzione di Saddam (3), sono stati messi a morte diversi suoi collaboratori (4) e, a centinaia, illustri sconosciuti, molti dei quali, definiti a torto o ragione “terroristi”, per questioni o reati politici.

Uno spaventoso crescendo nelle esecuzioni compiute in Iraq si è registrato nel corso di quest’anno.

Il 29 agosto Haidar al-Saadi, portavoce del Ministro della Giustizia iracheno, ha comunicato l’impiccagione di 5 prigionieri, condannati a morte per “crimini di terrorismo”. Due giorni prima i ‘terroristi’ messi a morte secondo la medesima fonte erano stati 21, tra cui 3 donne (5).

Rilevando che le esecuzioni capitali in Iraq dall’inizio dell’anno sono state almeno 96, in un comunicato del giorno 30 Amnesty International ha chiesto al governo di Baghdad di indire immediatamente una moratoria e di commutare le condanne a morte pendenti (quasi 200 delle quali potrebbero essere presto eseguite).

“Molti sono stati condannati a morte in processi che non  rispettano gli standard internazionali del  giusto processo, anche per il fatto che sono state usate come prove contro di loro ‘confessioni’ estratte con la tortura o maltrattamenti,” si legge nel comunicato. “Alcune stazioni televisive irachene continuano a trasmettere dichiarazioni auto-incriminanti di detenuti, anche prima dell’inizio dei processi, violando il fondamentale diritto di essere considerati innocenti fino a che la colpevolezza non venga provata.”

Dal conto suo Christof  Heyns, Relatore speciale delle Nazioni Unite per le esecuzioni extragiudiziali, sommarie e arbitrarie, ha dichiarato:  “Sono allibito per la quantità di esecuzioni in Iraq. Deploro con forza le esecuzioni portate a termine in questa settimana, e sono particolarmente preoccupato riguardo alle notizie che giungono di continuo su persone che rimangono a rischio di esecuzione. L’uccisione arbitraria di persone, anche quando venga perpetrata dietro lo schermo di ingiusti processi legali, non è solo una preoccupazione interna,” ha dichiarato Heyns. “L’Iraq deve rendersi conto che la comunità internazionale si oppone fortemente alla sua continuata fragrante ignoranza delle norme che riguardano la protezione del diritto alla vita.” (6)

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(1) V. ad es. nn. 111, 113, 114, 120, 158.

(2) V. ad es. nn. 122, 124, 127, 132, 134, 138, 139, 140, 141, 142, 143, 145.

(3) V. n. 145.

(4) V. ad es. nn. 146, 154,156,157N, 176, 198. Rimane in bilico la vita dell’ex Ministro degli Esteri Tareq Aziz, v. nn. 184,185,186,187, Notiziario.

(5) Amnesty International ha appurato che le donne impiccate avevano tra 23 e 49 anni, una delle quali accusata di terrorismo, le altre due di omicidio.

(6) Mesi fa anche Navi Pillay, Alto Commissario ONU per i Diritti Umani, aveva avanzato la medesima critica e la medesima richiesta alle autorità irachene.

 

 

10) FURIA DI ESECUZIONI IN GAMBIA DOPO UNA MORATORIA DI 27 ANNI

 

Il presidente del Gambia Yahya Jammeh ha dato il via libera alla massiccia ripresa delle esecuzioni capitali nel suo paese, considerato abolizionista di fatto dopo 27 anni di moratoria. Invitiamo i lettori a partecipare ad un APPELLO alle autorità del Gambia promosso da Amnesty International.

 

Yahya Jammeh, da quasi un ventennio presidente del Gambia, piccolo stato dell’Africa centro occidentale, il 18 agosto ha annunciato all’improvviso l’imminente esecuzione dei 47 ospiti del braccio della morte e pochi giorni dopo ha dimostrato di fare sul serio. Il giorno 23 ha fatto fucilare le prime nove persone, 8 uomini e una donna. Tre degli uccisi erano stati condannanti per tradimento. Le esecuzioni, che interrompono una moratoria di ben 27 anni, hanno suscitato vibrate proteste nel mondo. Ha protesto Navi Pillay, Alto Commissiario ONU per i Diritti Umani. Perfino il Dipartimento di Stato USA ha criticato Jammeh.

Particolarmente forte è stata la condanna dell’Unione Europea.

“Condanno fortemente le esecuzioni di cui è stato riferito giovedì 23 agosto 2012, dopo che il presidente Jammeh ha manifestato l’intenzione di far eseguire entro la metà di settembre tutte le sentenze di morte pendenti.” Ha dichiarato Catherine Ashton, incaricata per gli affari esteri dell’UE, la quale ha chiesto un immediato arresto delle esecuzioni minacciando sanzioni economiche. Infatti il Gambia, che ha assunto l’impegno di rispettare i diritti umani, riceve – come altri paesi poveri dell’Africa - aiuti dall’Unione Europea.

Amnesty International ha subito indetto una mobilitazione internazionale per evitare che vengano messi a morte i rimanenti 38 condannati alla pena capitale in Gambia.

Invitiamo tutti i lettori a partecipare all’APPELLO proposto da Amnesty USA all’indirizzo:

http://www.amnestyusa.org/get-involved/take-action-now

L’appello che ci interessa è intitolato “Stop Gambia's Execution Spree”.

Fornite i dati richiesti e cliccate su SEND NOW (dopo aver marcato la piccola casella sulla sinistra se non volete ricevere corrispondenza da Amnesty USA).

Per chi non ha dimestichezza con l’inglese: First Name = Nome, Last Name = Cognome, Address line 1 = indirizzo, City = città, Per State scegliete l’ultima alternativa ‘Not in USA’, ZIP = Codice postale, per Country scegliete ‘Italy’.

(Dopo aver partecipato all’appello NON e' necessario che mandiate soldi ad Amnesty USA, ecc.,  come vi verrà richiesto).

 

 

11) PRIMO RICORSO CONTRO LA CONDANNA DI PETERSON IN CALIFORNIA

 

Il californiano Scott Paterson può risultare certamente antipatico per i tratti del suo carattere e il suo comportamento. Tuttavia ciò non significa che egli sia colpevole dell’uccisione di sua moglie Laci ed del figlio non nato Connor. E’ questa la tesi sostenuta del difensore di Peterson che ha presentato il primo appello contro la condanna a morte emessa a furor di popolo nel 2004.

 

Dopo la reintroduzione della pena capitale, a tutti condannati a morte degli Stati Uniti è consentito di presentare un primo appello alla massima corte penale del proprio stato. Si tratta di un ricorso basato unicamente sulle carte, detto “appello automatico”, che non ha apprezzabili probabilità di successo.

Il noto avvocato Cliff Gardner ha presentato “l’appello automatico” alla Corte Suprema della California per il 39-enne Scott Peterson, condannato a morte nel 2004 per l’omicidio della moglie Laci che era all’ottavo mese di gestazione del figlioletto Connor.Il processo Peterson fece un enorme scalpore (v. n. 124).

La sentenza capitale fu pronunciata a furor di popolo in assenza di prove materiali che legassero l’imputato al crimine.

Perfino George W. Bush che era in campagna elettorale, usò il caso di Scott Peterson per dimostrare quale fosse il suo impegno in difesa della vita umana innocente. Per vocazione colpevolista, Bush anticipò il verdetto di morte per Scott, anche se il relativo processo era di là da venire.

Laci era sparita da casa la vigilia di Natale del 2002 senza lasciare traccia. Il marito quella mattina era uscito in barca per pescare e dichiarò di non aver più avuto notizie della moglie. Il cadavere della donna e del feto furono ritrovati nella Baia di San Francisco quattro mesi dopo. Si capì che Laci era stata strangolata, ma non si trovarono tracce del crimine nell’appartamento della vittima.

A far ricadere la colpa sul marito furono il suo atteggiamento di freddo distacco emotivo nel corso delle indagini e durante il processo e il fatto che all’epoca Scott avesse un’amante e raccontasse molte bugie ad entrambe le sue donne.

Nel suo ricorso di oltre 400 pagine, l’avvocato Gardner solleva numerosi punti e in particolare sottolinea come l’enorme scalpore suscitato dai media avesse compromesso l’obiettività della giuria influenzanado in modo irreparabile la sentenza.

“Prima che fosse stato ascoltato un qualsiasi testimone, quasi la metà dei potenziali giurati ammise di aver già deciso che Peterson era colpevole di reato capitale”, scrive Gardner. Al di fuori del tribunale in cui si stava effettuando la selezione dei giurati, una stazione radio aveva affisso un tabellone elettronico con l’indicazione di un numero di telefono: i cittadini potevano usarlo per votare se Peterson era secondo loro “un uomo o un mostro”. Scott Peterson era raffigurato sul tabellone con indosso la divisa arancione dei detenuti. Inoltre, come in molti altri processi capitali, anche nel caso di Peterson il giudice escluse dalla scelta dei giurati quelle persone che si dichiararono contrarie all’inflizione della pena di morte.  

Quando poi la giuria stava per ritirarsi a decidere la pena da infliggere a Peterson, dopo che già era stato dichiarato colpevole di omicidio, una folla di circa 1000 persone, che si era radunata fuori dal tribunale, iniziò a battere le mani e a gridare il proprio crucifige ai giurati.

Negli anni l’interesse del pubblico per caso di Scott Peterson è drasticamente diminuito, così come il numero di corrispondenti e di amici, soprattutto donne, che aveva il condannato.

La California ha al momento 725 condannati rinchiusi nel braccio della morte di San Quentin (non ci sono più state esecuzioni dal 2006) e la Corte suprema sta cercando di far fronte a tutti i ricorsi in atto. Ci vorranno mesi, o forse qualche anno, prima che l’appello di Peterson venga esaminato. Nel frattempo non è escluso che la pena di morte venga abolita nello stato. Ciò potrebbe avvenire già con il referendum che si terrà a fine anno. (Grazia)

 

 

12) CALVARIO AI CONFINI DELLE FORTEZZA EUROPA

 

La notizia terrificante della lenta morte per sete tra giugno e luglio di 54 migranti che tentavano di raggiungere l’Italia dalla Libia attraverso il Mediterraneo ha avuto un limitato rilievo nei nostri media.

 

In un comunicato del 10 luglio, l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) ha riportato “con profondo rammarico” la notizia della morte per sete nel Mediterraneo di 54 migranti che tentavano di raggiungere l’Italia dalla Libia.

Secondo l’unico sopravvissuto - avvistato da pescatori al largo delle coste tunisine aggrappato al rottame di un gommone e ricoverato nell’ospedale di Zarzis - 54 persone, per metà Eritrei, partite con lui a fine giugno, dopo essere arrivate vicino alle agognate coste italiane sono state riportate indietro da forti venti contrari. Esauritesi le scorte di acqua potabile e di carburante, i migranti sono rimasti alla deriva morendo uno dopo l’altro in “un calvario durato 15 giorni”.

L'UNHCR stima che quest'anno siano circa 170 le persone morte o disperse in mare nel tentativo di giungere in Europa dalla Libia. Queste ‘tragedie del mare’, incluso l’ultimo terrificante episodio, hanno scarso e breve rilievo nei nostri media. Probabilmente perché preferiamo non sentire notizie che interrogano la nostra coscienza.

“Mi appello ai comandanti delle imbarcazioni nel Mediterraneo affinché prestino la massima attenzione a possibili casi di migranti e rifugiati in difficoltà che necessitano di essere soccorsi,” ha detto T. Alexander Aleinikoff, vice Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati.“Il Mediterraneo è uno dei tratti di mare più trafficati del mondo ed è fondamentale che l’antica tradizione del salvataggio in mare continui ad essere rispettata”.

Secondo il ministro Andrea Riccardi “occorre rafforzare il dialogo e le politiche di cooperazione con i paesi della sponda sud, specie con i nuovi governi nati o che stanno nascendo dopo la primavera araba”. “Il Mediterraneo deve tornare ad essere un mare sicuro per tutti”, ha aggiunto Riccardi rientrando da Mazzara del Vallo, in Sicilia, dove ha partecipato ad una cerimonia per i morti del mare.

Sacrosante parole quelle di Riccardi, che non ci impediscono di ricordare e denunciare l’inumana politica concordata dall’attuale nostro governo, in continuità con quello precedente, col governo libico nei riguardi dei migranti che cercano di arrivare in Italia dalla Libia (v. articolo seguente).

 

 

13) TRAPELATO IL TESTO DELL’ACCORDO CON LA LIBIA AI DANNI DEI MIGRANTI

 

Le intese dell’attuale governo italiano con la Libia in materia di contrasto all’immigrazione, sono del tutto simili, altrettanto inumane e vergognose, di quelle che vigevano tra Berlusconi e Gheddafi.

 

Dopo che è trapelato il testo dell’accordo segreto tra il governo italiano e quello libico firmato il 3 aprile 2012, tendente a contrastare l’immigrazione verso il nostro paese (1), Amnesty International ha promosso un appello alla autorità italiane e indetto una forte mobilitazione a Lampedusa nella seconda metà di luglio.

Amnesty ha espresso la sua profonda preoccupazione costatando che “l’Italia continua a chiedere supporto alla Libia per fermare le partenze dei migranti e si impegna a fornire strumenti per i controlli delle frontiere libiche, chiudendo un occhio sulle gravi violazioni che migranti e rifugiati subiscono in Libia. Gli accordi non contengono alcuna salvaguardia concreta per i diritti umani né meccanismi di protezione per richiedenti asilo e rifugiati.”

Ricordiamo che quando fu firmato l’accordo contestato, la Corte Europea dei Diritti Umani aveva appena condannato l’Italia per la prassi dei respingimenti (v. n. 195, “Affari, guerra e tortura”).

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(1) Vedi:

www.lastampa.it/_web/tmplframe/default.asp?indirizzo=http://www.lastampa.it/_web/download/pdf/ruotolo.pdf

 

 

14) LA CORTE PENALE INTERNAZIONALE INFLIGGE LA PRIMA CONDANNA

 

La Corte Pena Internazionale istituita nel 1998 e diventata operativa nel 2002, ha avviato diversi processi ma fino ad ora è riuscita a portarne a termine soltanto uno con la condanna di un Congolese.

 

La Corte [o “Tribunale”] Penale Internazionale permanente nacque a Roma sotto l’egida delle Nazioni Unite nel 1998, suscitando grandi speranze negli attivisti per i diritti umani, e divenne operativa nel 2002 (1). Ne fanno parte 121 nazioni (non gli Stati Uniti, la Cina e la Russia).

Solo ora tale Corte – che ha avviato diversi processi - ha inflitto la prima condanna della sua storia. Il 10 luglio Thomas Lubanga, leader dell’Unione dei Congolesi Patrioti, dopo essere stato giudicato colpevole in primavera di aver largamente utilizzato bambini soldato di entrambi i sessi sotto i 15 anni nella guerriglia condotta nella Repubblica Democratica del Congo tra il 2002 e il 2003, ha ricevuto una condanna a 14 anni di reclusione. Lubanga, sospettato di altri e più gravi crimini, è stato processato solo per una parte dei propri misfatti. E’ apparso pentito e collaborativo con la Corte. In attesa di appello, il condannato potrà rimanere nel carcere relativamente confortevole dell’Aia.

Si ritiene che il prossimo obiettivo della Corte internazionale sia il processo a Joseph Kony, leader dell’Armata di Resistenza di Dio (Lord’s Resistance Army), che imperversò per anni in quattro paesi dell’Africa centrale utilizzando bambini soldato.

Altre corti internazionali, create ad hoc per determinate aree e determinati periodi, hanno giudicato e condannato prima d’ora responsabili di gravissimi crimini di guerra e contro l’umanità (2)

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(1) V. ad es. nn. 96, 99, “Gli Stati Uniti…”, 100, 168, “Il presidente del Sudan…”

(2) ad es. il liberiano Charles G. Taylor, v. n. 198

 

 

15) SCUOLA DIAZ: DEFINITIVE LE MITI CONDANNE AI CAPI DELLA POLIZIA

 

Le pene per alcuni dei responsabili delle brutalità che, in occasione del G8 di Genova del 2001, costituirono la peggiore sospensione della democrazia in Italia degli ultimi decenni, sono definitive. A 11 anni dai fatti nessuno andrà in prigione, ma cinque brillanti carriere sono state interrotte.

 

Il 5 luglio scorso la Quinta sezione penale della Cassazione ha confermato le condanne d’appello per i vertici della polizia responsabili dei brutali pestaggi inflitti ai manifestanti ospitati nella scuola “Diaz” durante il G8 di Genova del 2001. La grande maggioranza degli esecutori materiali delle violenze, non identificati, l’hanno fatta franca. (1)

La sentenza comporta la sospensione dal servizio per cinque anni dei funzionari già condannati in appello: il capo dell’anticrimine Francesco Gratteri, l’allora coman­dante del primo reparto mobile di Roma Vincenzo Canterini, l’ex vicedi­rettore dell’Ucigos Giovanni Luperi, l’ex dirigente della Digos di Genova Spartaco Mortola, l’ex vicecapo del Servizio centrale operativo della polizia, Gilberto Caldarozzi (nessuno dei quali andrà in carcere perché è intervenuta la prescrizione).

Il capo della Polizia Antonio Manganelli ha dovuto fare obtorto collo una dichiarazione di scuse, melensa e reticente, nei riguardi delle vittime di allora.

In un comunicato stampa, Amnesty International ha definito questa sentenza ‘storica’, perché dimostra che un po’ di giustizia ha potuto farsi strada nonostante i pesantissimi tentativi delle autorità, politiche e di polizia, di coprire i responsabili di quei tragici fatti.

Amnesty ha però anche ribadito che “i fallimenti e le omissioni dello stato nel rendere pienamente giustizia alle vittime delle violenze del G8 di Genova sono di tale entità che queste condanne lasciano comunque l'amaro in bocca: arrivano tardi, con pene che non riflettono la gravità dei crimini accertati - e che in buona parte non verranno eseguite a causa della prescrizione – e a seguito di attività investigative difficili ed ostacolate da agenti e dirigenti di polizia che avrebbero dovuto sentire il dovere di contribuire all'accertamento di fatti tanto gravi.”

Tra le varie richieste che Amnesty ha avanzato in questa occasione, di particolare importanza sono la richiesta di introdurre nel codice penale il reato di tortura e adottare una definizione di tortura che includa tutte le caratteristiche descritte nell’articolo 1 della Convenzione ONU contro la tortura, nonché la richiesta di ratificare il Protocollo opzionale alla Convenzione ONU contro la tortura e istituire un meccanismo nazionale indipendente per prevenire torture e maltrattamenti e la copertura ‘corporativa’ dei responsabili.

“L’attuale capo della polizia, Antonio Manganelli, e il suo predecessore, Gianni De Gennaro, oggi sottosegretario, sono i massimi responsabili della linea scelta in questi anni: non collaborazione coi giudici, protezione e promozione degli imputati, rifiuto di riconoscere le proprie responsabilità. Le loro dimissioni sono a questo punto una necessità, la premessa logica per un radicale ricambio,” afferma Lorenzo Guadagnucci, del Comitato Verità e Giustizia per Genova, sicuramente scettico riguardo all’accoglimento di tali richieste. Infatti egli è ben cosciente che: “La successione dei fatti è il racconto di una caporetto politica delle forze democratiche e progressiste sul terreno dei diritti costituzionali: la bocciatura in parlamento della commissione d’inchiesta (2007); la nomina del prefetto De Gennaro, responsabile della disastrosa gestione dell’ordine pubblico a Genova, come capo di gabinetto del ministro Amato (2007); l’avallo alle promozioni degli imputati e alla decisione di confermare tutti ai rispettivi posti anche dopo le condanne in appello (2010); l’ascesa di De Gennaro a ruoli di governo (2012).”

Non vogliamo perdere la speranza anche se, purtroppo, la volontà di perseguire i responsabili dei crimini passati è altrettanto debole dell’impegno a prevenire simili crimini in futuro. Lo dimostra il fatto che la legge per l’inserimento del reato di tortura nel codice penale, è ancora in sospeso in Italia, nonostante l’obbligo internazionale di introdurlo sia scattato per noi vent’anni fa.

Patrizio Gonnella, presidente dell’Associazione Antigone per i diritti e le garanzie nel sistema penale, chiede inoltre: “le scuse pubbliche di chi, come Gianfranco Fini, allora troneggiava in tv difendendo i torturatori.”

Gonnella osserva che non è stato possibile imputare ad agenti e funzionari la tortura, “un crimine che prevede una ben diversa sanzione e tempi non così corti di prescrizione. La prescrizione, appunto, ancora una volta impedisce che si abbia piena giustizia. Esistono in Italia due processi penali: il primo è quello nei confronti dei poveri, degli immigrati, dei tossicodipendenti. E’ questo un processo di solito rapido, inesorabile che procede senza garanzie verso la condanna al carcere. Il secondo processo è quello per i colletti bianchi e per gli esponenti delle forze dell’ordine. Nei loro confronti il processo, ricco di garanzie procedurali, va lento verso la morte e verso l’ingiustizia.”

In qualità di sostenitori dei diritti umani, ci uniamo a queste voci nell’auspicare che la sentenza della Cassazione del 5 luglio trasmetta un messaggio di giustizia a tutti i livelli e, in particolare,  acceleri l’introduzione del reato di tortura.

Invitiamo tutti coloro che non l’hanno già fatto a firmare l’appello per l’inserimento del reato di tortura nel nostro codice, promosso dall’Associazione Antigone, andando alla pagina:

http://www.associazioneantigone.it/associazione.htm   (Grazia e Giuseppe)

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(1) Undici anni fa, in occasione del contestatissimo G8 di Genova - nella scuola Diaz prima e nella caserma del quartiere di Bolzaneto poi - oltre 200 persone furono percosse, torturate, detenute dalle ‘forze dell’ordine’ (v. ad es. nn. 178, Notiziario, 180, Notiziario).

(2) Un approfondimento della sentenza della Cassazione viene fatto da Roberto Fantini nel sito http://www.flipnews.org/ tramite interviste ad A. Marchesi, P. Gonnella e L. Guadagnucci.

 

 

16) NEL BRACCIO DELLA MORTE DELLA CALIFORNIA di Fernando E. Caro

 

Il nostro amico e corrispondente Fernando Caro deve dar fondo alle sue riserve di ironia e di forza morale, e dominare i nervi a fior di pelle, per sopravvivere nel braccio della morte della California.

 

San Quentin, 30 luglio 2012.

E’ estate adesso. Questa mattina mi sono alzato piuttosto nervoso e stanco. Il mio sonno notturno è stato interrotto più volte a causa del rumore. Rumore delle porte metalliche sbattute e delle voci delle guardie che urlavano al punto che avrebbero svegliato un morto. Non stupisce che la testa mi sembrasse imbottita di cotone al punto di scoppiare. Eppure, appena tocco con i piedi nudi il cemento della cella, il pensiero della colazione e del caffè mi spronano a vestirmi e ad affrontare un’altra giornata.

Dopo aver acceso una delle luci della mia cella, riempio il bollitore d’acqua e lo innesto nella presa di corrente per scaldarla e farmi il caffè. Ci è permesso di avere solo caffè solubile istantaneo e, col passare degli anni, devo prepararmi un caffè più forte. Alcuni ricercatori hanno affermato che il caffè è una fonte di antiossidanti e combatte le cardiopatie. Per quanto mi riguarda non me ne importa un accidenti! Voglio solo la caffeina. J

Mentre l’acqua si scalda, piego le lenzuola e le coperte e guardo le notizie del mattino sul mio piccolo televisore. Gli stessi giornalisti sugli stessi canali tv, che si lamentano di doversi alzare alle 3 del mattino per andare al lavoro. Io sorrido, gli mostro il dito medio e gli dico di provare a svegliarsi qui dentro! Beh, in effetti oggi sono proprio un po’ irritabile. J

Alle 6 circa, le guardie entrano nel nostro reparto con i vassoi della colazione, dicendo un “buongiorno” forzato e con un’espressione di disgusto sul viso. Gli sorrido, ma nella mente li mando a quel paese. Non voglio offendere l’egocentrismo di nessuno. Tutti nel carcere hanno un ego gigantesco. Egocentrici offesi possono causare combattimenti, piccole rivolte o rappresaglie, a seconda di chi viene offeso.

Come sempre, la colazione è disgustosa. Ne mangio un po’, il resto finisce nel gabinetto. Sono molto contento che i nostri gabinetti non abbiano la facoltà di vomitare! J

Dopo che i vassoi vengono ritirati e le guardie lasciano il reparto, quattro detenuti vengono fatti uscire dalle celle per svolgere i lavori di pulizia. Alle 7 e 30’ usciamo tutti dalle celle. Le sei ore successive vengono trascorse facendo la doccia, telefonando, giocando a carte. Sempre con la stessa retorica scanzonata e con la falsa spavalderia acquisita dai detenuti dopo anni di noia in carcere. Non sono diverso dagli altri, faccio anch’io le stesse cose, solo alla mia età le faccio un po’ meno spesso. Per favore, qualcuno mi spari! J

Se non ci sono visite in programma o un appuntamento dal medico, non lascio il reparto. Alle 13 e 30 veniamo di nuovo chiusi in cella fino al mattino successivo. Che gioia! L

Vi sembro un po’ frustrato? Sono solo onesto. In realtà, sono un tipo simpatico. Non sono un angelo, ma ho un diploma con su scritto “SONO UN TIPO SIMPATICO”. L’ho disegnato io! J

Devo ricordarvi che il senso dell’umorismo è essenziale per mantenere la sanità mentale? J

Sono trascorse due ore da quando sono stato rinchiuso nuovamente in cella. Sono qui seduto a scrivervi. Sì, ho una tazza di caffè vicino a me. J Un altro detenuto, in fondo al reparto, ha appena scoreggiato. L Potete immaginare perché ho avviato il mio piccolo ventilatore elettrico! La vita nel braccio della morte, non vi pare adorabile?? J Proprio adesso è stata consegnata la posta e ho ricevuto due lettere dall’Europa. Il caffè sembra più buono, ora. J

Il braccio della morte è una sfida. Per sopravvivere occorre fede, speranza e forza di carattere. Per essere onesto, devo dire che l’esperienza nel braccio della morte mi ha terrorizzato. Non mi ha reso meschino o cattivo, ma mi ha reso consapevole dello sforzo necessario a guardare avanti e ad aspettare ogni giorno il successivo.

 

17) NOTIZIARIO

 

Giappone. Altre due impiccagioni. A soli cinque mesi dalle tre esecuzioni portate a termine in Giappone dopo una moratoria di fatto di 20 mesi (v. n. 196), l’ennesimo nuovo Ministro della giustizia nipponico, Makoto Taki, ha firmato e fatto eseguire il 3 agosto due ulteriori impiccagioni, quella del 40-enne Junya Hattori, condannato per il rapimento, lo stupro e l’omicidio di una studentessa, e del 31-enne Kyozo Matsumura, che uccise due parenti per derubarli. Le cinque esecuzioni del 2012 hanno dato un duro colpo alle le speranze degli abolizionisti giapponesi e dell’Unione Europea, che erano impegnati per prolungare la moratoria di fatto quale preludio ad una seria messa in discussione della pena capitale nell’unico Paese democratico economicamente avanzato, oltre agli Stati Uniti, che è ancora aggrappato alla più lugubre istituzione del passato.

 

Illinois. Il più famoso ex condannato a morte ruba un deodorante. Su Anthony Porter, accusato di duplice omicidio in Illinois, indagarono il professor David Protess e i suoi studenti di giornalismo che trovarono le prove della sua innocenza e ottennero la confessione del vero colpevole. Il governatore George Ryan, entrato in carica da appena un mese, concesse la grazia a Porter che fu liberato nel 1999 dopo aver passato 17 anni in carcere, quasi tutti nel braccio della morte. Il caso di Anthony Porter è famoso per aver innescato una profonda revisione della pena di morte in Illinois ad opera di Ryan, angosciato dalla possibilità di lasciar uccidere degli innocenti. George Ryan impose una moratoria all’inizio del 2000. Poi, nel gennaio del 2003, prima di lasciare il suo incarico, concesse la grazia a 4 condannati risultati chiaramente innocenti e commutò in pene detentive tutte le altre 167 sentenze capitali pendenti nel proprio stato (v. nn. 103, 123). Abbiamo più volte dovuto costatare che negli Stati Uniti chi emerge – dopo molti anni e spesso per ragioni fortuite - dall’incubo del braccio della morte difficil­mente riesce a ben integrarsi nella società e a condurre una vita normale. Neanche Porter è riuscito a rimanere fuori dei guai ed è finito sul giornale: il 31 luglio ha patteggiato una condanna ad un anno di carcere con la giudice Diane Cannon che gli ha detratto 60 giorni già scontati. Al termine della pena, il pericoloso delinquente rimarrà sotto osservazione per un altro anno. Veramente il reato di cui si è dichiarato colpevole Porter, che ha l’intelligenza di un bambino, a noi non appare così grave: nel 2011 ha sottratto un deodorante da un emporio di Chicago senza pagarlo.

 

Italia. L’iniquo ingranaggio dei CIE. Riportiamo il comunicato diffuso il 18 luglio dall’associazione umanitaria Medici per i Diritti Umani (MEDU) che fa riferimento ad un’ampia statistica (v. http://www.mediciperidirittiumani.org/pdf/LINIQUO_INGRANAGGIO.pdf ) e al proprio recente Rapporto sull’inumano sistema dei ‘centri di espulsione’ dei migranti vigente in Italia: “Nel 2011 sono stati 7735 (6832 uomini e 903 donne) i migranti trattenuti nei 15 centri di identificazione ed espulsione (CIE) operativi in Italia e di questi solo la metà (3880) sono stati effettivamente rimpatriati. I dati nazionali 2011 sui CIE, forniti dal Dipartimento della Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno, confermano che queste strutture, oltre ad essere del tutto inadeguate a garantire la dignità e i diritti fondamentali dei migranti trattenuti, si dimostrano, nei fatti, pressoché irrilevanti e scarsamente efficaci nel contrasto dell’immigrazione irregolare. Il prolungamento a 18 mesi dei tempi massimi di trattenimento (giugno 2011) sembra aver contribuito unicamente ad esacerbare gli elementi di violenza e disumanizzazione dei CIE come già rilevato nel recente rapporto di Medici per i Diritti Umani (MEDU) “Le sbarre più alte” e come dimostra la serie senza precedenti di rivolte e fughe di massa dell’ultimo anno (787 i migranti fuggiti dai CIE nel 2011 rispetto ai 321 del 2010). Un dato che sconcerta è l’alto numero di cittadini dell’Unione europea internati nei centri di identificazione ed espulsione. Nel 2011, infatti, sono transitati nei CIE ben 494 migranti di origine rumena, terza nazionalità in assoluto per numero di presenze. Anche alla luce dei dati del 2011 e in considerazione delle gravi criticità ripetutamente riscontrate nel corso degli anni sulla natura e il funzionamento dei CPTA/CIE, MEDU ritiene necessario l’abbandono dell’attuale sistema di detenzione amministrativa nell’ambito di una sostanziale revisione del Testo Unico sull’immigrazione improntata a una prospettiva di apertura e reale integrazione. Una riforma che, a partire da una diversa disciplina degli ingressi, renda dunque possibili strategie di gestione dell’immigrazione irregolare più razionali e rispettose dei diritti fondamentali della persona. Dei CIE si può e si deve fare a meno.”

 

Libia. Annunciato per settembre il processo a Saif al-Islam Gheddafi. Il 23 agosto si è appreso che è stato programmato per settembre in Libia il processo a Saif al-Islam,figlio ed erede designato del defunto colonnello Muammar Gheddafi. Secondo il portavoce dell’accusa Taha Nasser Baara, “una commissione dell’ufficio del procuratore generale ha completato le sue indagini sui crimini commessi da Saif al-Islam a partire dal 15 febbraio 2011, inizio della rivoluzione, e ha preparato l’incartamento relativo.” Saif al-Islam è detenuto a Zintan a 170 chilometri da Tripoli fin dalla sua cattura avvenuta nel novembre scorso. I miliziani che lo detengono hanno chiesto che il processo si svolga a Zintan. Secondo l’accusa libica non vi sarebbero obiezioni ad un tale processo da parte della Corte Penale Internazionale (ICC). Invece tale Corte – che ha chiesto di processare Saif al-Islam Gheddafi all’Aia per crimini contro l’umanità - ha chiarito di non aver ancora appurato l’ammissibilità di un processo da parte dei Libici. Le organizzazioni per i diritti umani ritengono che il prigioniero non possa subire un processo regolare in patria, processo che per di più si concluderebbe con una pressoché sicura condanna a morte. Saif al-Islam Gheddafi ha chiesto di essere processato dalla ICC. Il suo legale ha riportato una sua dichiarazione: “Non ho paura di morire ma se mi uccidono dopo un tal tipo di processo in Libia si dovrà parlare solo di omicidio compiuto tramite esecuzione.”

 

Usa. Mitt Romney, candidato repubblicano alla presidenza, crede nella pena di morte. La politica annunciata dal candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti,  Mitt Romney e dal vice-presidente designato Paul Ryan, è una politica di ‘destra’, con tagli di miliardi di dollari alla spesa pubblica, agli aiuti alle categorie deboli, come gli anziani, i malati, i disoccupati, agli studenti, gli affamati. E’ anche una politica conservatrice  per quanto riguarda i diritti umani e la pena di morte. Per noi la rielezione di Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti potrebbe costituire un ‘male minore’. Ce lo conferma una recente uscita di Rommey il quale, il 10 luglio in Colorado, rispondendo ad una domanda del pubblico a proposito della recente proibizione della pena dell’ergastolo obbligatoria per i minorenni omicidi (v. n. 198), ha lasciato indeterminata la questione ma ha tirato in ballo la pena di morte. Ha detto: “Mi sono convinto che la pena di morte tende e prevenire alcuni dei più odiosi crimini”, fermandosi per ricevere un applauso.

 

 

Questo numero è aggiornato con le informazioni disponibili fino al 31 agosto 2012

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