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FOGLIO DI COLLEGAMENTO INTERNO

DEL COMITATO PAUL ROUGEAU / ELLIS(ONE) UNIT


Numero 87 - Giugno 2001

 

 

 

 

 

 

 

 

SOMMARIO:

 

 

1) McVeigh ucciso: per Bush il bene ha prevalso sul male

2) Annullata la sentenza per Johnny Penry: il nostro impegno serve!

3) La pena di morte per i ritardati al centro di un infuocato dibattito

4) L’oscuro braccio della morte del Giappone

5) Gli Stati Uniti e il Giappone rischiano una disonorevole esclusione

6) Gli Stati Uniti condannati dalla Corte Internazionale dell’Aja

7) Primo Congresso mondiale contro la pena di morte: la dichiarazione              finale

8) Così scrive Sergio che vive in Texas e crede nella pena di morte

9) Incontro con Rick Halperin e James Ehrman

10) Il caso degli Stati Uniti, un’anomalia nel processo abolizionista

11) Ucciso tre volte uno schizofrenico

12) Notiziario: Cina, Yemen, Arabia Saudita

 

 

1) McVeigh ucciso: per Bush il bene ha prevalso sul male

 

 

George Bush da governatore del Texas ha sempre sentito il dovere di onorare con parole di requiem le sue vittime più illustri, come Karla Faye Tucker e Gary Graham. Da presidente degli Stati Uniti ha fatto una dichiarazione particolarmente solenne l’11 giugno dopo l’esecuzione di Timothy McVeigh: “Questa mattina gli Stati Uniti d’America hanno eseguito la più dura delle sentenze per il più grave dei crimini. Alle vittime dell’attentato di Oklahoma City è stata data giustizia, non vendetta. Un giovane uomo ha incontrato il destino che ha scelto per se stesso sei anni fa.

 

“Per i sopravvissuti e per i familiari dei morti, il dolore continua. La punizione finale del reo da sola non può dar pace agli innocenti. Non si può recuperare la perdita e pareggiare la bilancia, e non si è inteso far questo.

 

“Oggi ogni persona vivente che fu colpita dal male fatto a Oklahoma City può trovare riposo sapendo che c’è stata una resa dei conti. In ogni momento a partire dal 19 aprile 1995 fino a questa ora abbiamo visto il bene prendere il sopravvento sul male. L’abbiamo visto nei soccorritori che soffrivano insieme alle vittime. Lo abbiamo visto nella comunità che si è addolorata e si è tenuta stretta alla memoria degli scomparsi.

 

“Lo abbiamo visto nel lavoro dei detective, dei capi e degli agenti di polizia e lo abbiamo visto nelle corti. Il giusto processo si è fatto. Il caso è stato provato. Il verdetto è stato raggiunto con calma e i diritti dell’accusato sono stati pienamente rispettati e protetti fino alla fine.

 

“Secondo le leggi del nostro paese la vicenda è conclusa. La vita e la storia portano tragedie e spesso queste non possono essere spiegate. Ma esse possono essere riscattate.

 

“Vengono riscattate dispensando la giustizia, anche se la giustizia eterna non spetta a noi irrogarla. Vengono riscattate ricordando coloro che hanno sofferto, inclusi la madre, il padre e le sorelle di Timothy McVeigh e confidando in disegni più grandi di noi.

“Dio nella sua misericordia dia pace a tutti, alle vite prese sei anni fa, alle vite che continuano e alla vita che oggi è finita.”

 

Questi i sentimenti di Bush e la retorica governativa. Passando alle cifre: il Governo federale ha speso 82,5 milioni di dollari per investigare sul delitto di McVeigh e per ottenere la sentenza di morte. Inoltre la difesa d’ufficio assicurata all’accusato è costata 13,8 milioni di dollari. In tutto 96,3 milioni di dollari. Di fronte a questa cifra (pari ad oltre 210 miliardi di lire) sono poca cosa alcuni milioni di dollari spesi dal Governo e dai privati per l’evento finale (misure di sicurezza, elicotteri in volo, postazioni dei media, trasporto dei testimoni e dei manifestanti, trasmissione in TV a circuito chiuso dell’esecuzione a 232 familiari delle vittime di McVeigh, ecc.) ed è quasi trascurabile la spesa di qualche decina di dollari per il materiale essenziale: i farmaci usati per uccidere il reo.

 

Oltre 1400 inviati dei mezzi di comunicazione di massa hanno dato la massima ‘copertura’ giornalistica al rito mortale, i commenti amari o feroci dei familiari delle vittime di McVeigh sono stati accuratamente raccolti e pubblicizzati, si è discusso parecchio a proposito della pena di morte anche se i tre quarti dei cittadini statunitensi si sono detti favorevoli all’esecuzione del condannato.

 

Tutto era stato predisposto per ospitare in apposite aree un gran numero di dimostranti pro e contro l’uccisione di McVeigh. Ma il rinvio dell’esecuzione inizialmente prevista per il 16 maggio ha sconvolto i piani degli Americani che programmano con molto anticipo ogni giorno di assenza dal lavoro. Nella notte tra il 10 e l’11 giugno sono arrivate a Terre Haute poco più di 200 persone: abolizionisti che hanno vegliato e pregato per le vittime dell’attentato di Oklahoma City e per lo stesso McVeigh.

 

L’apparato ufficiale degli Stati Uniti, dando assoluto rilievo – politico, organizzativo, finanziario e mediatico – al processo e all’esecuzione di Timothy McVeigh, ha calcato i tratti di un disegno terribile tacciato in una brutta pagina della storia, quasi avesse voluto prevenire ogni dubbio interpretativo nei futuri studiosi della civiltà americana. Sì, hanno voluto uccidere e lo hanno fatto al massimo livello di consapevolezza.

 

Contributo essenziale al macabro disegno di morte è stato l’atteggiamento glaciale dello stesso McVeigh che pure si è illuso di essere stato un grande avversario del sistema che lo ha ucciso, che pure ha lasciato come testamento spirituale il verso di William Henley: “Sono il padrone del mio destino, il comandante del mio spirito.” (Una piccola discrepanza: il condannato, già legato al lettino dell’esecuzione, ha chiesto di vedere un prete. Un sacerdote cattolico gli ha somministrato l’Unzione degli infermi).

 

 

2) ANNULLATA LA SENTENZA PER JOHNNY PENRY: IL NOSTRO IMPEGNO SERVE!

 

 

La sera del 16 novembre scorso, in quelle che dovevano essere le ultime ore di vita di John Paul Penry, molte persone che vegliavano commosse hanno provato una grande gioia, quando ormai tutto sembrava perduto, al sopraggiungere della notizia della sospensione dell'esecuzione.

 

Queste persone apprendono ora con esultanza che la condanna capitale di Johnny è stata annullata dalla Corte Suprema federale. Il Texas dovrà ricominciare da zero la fase del processo in cui viene emessa la sentenza.

 

Amara e violenta è stata invece la reazione della famiglia della vittima di Penry: “Siamo veramente frustrati. Siamo veramente disgustati di questa decisione. Siamo furiosi. Siamo addolorati. Ci sentiamo feriti, contro chi si può urlare se la Corte Suprema se ne viene fuori con una decisione di questo genere? Non possiamo urlarle contro – ha dichiarato alla stampa Ellen May portavoce della famiglia Carpenter – Riteniamo che Penry meriti la pena di morte e non ci accontenteremo di nulla che sia meno di ciò.”

 

Ma non tutti lo vogliono morto. Questo uomo-bambino, che si diverte a colorare con i pastelli le illustrazioni degli album da disegno, che nell'infanzia è stato torturato e privato dell'amore che gli era dovuto, forse non si rende conto di quante persone gli vogliono adesso bene, di quante persone hanno pregato, trepidato e gioito per lui.

 

Coloro che si battono per la difesa dei diritti umani sono ben consapevoli del fatto che i loro ideali cozzano inevitabilmente contro incomprensioni e contro interessi spaventosi, che il più delle volte prevalgono causando cocenti e sofferte sconfitte.

 

La pena di morte è, come tutte le altre violazioni dei diritti umani, una conseguenza delle strategie politiche, una risposta interessata, inefficace e dannosa, al desiderio di "giustizia" e di "sicurezza" della popolazione.

 

Gli abolizionisti vengono chiamati di volta in volta "amici dei delinquenti", "sovversivi" o "incoscienti". La loro attività, quasi mai compresa nel modo giusto, viene sminuita, criticata o derisa. Questo fa sì che tutti coloro che si schierano dalla parte dei più deboli in un tentativo di far valere la Giustizia, quella vera, si ritrovino con nemici su tutti i fronti e che le sconfitte subite facciano loro provare in modo esasperato un senso di profonda frustrazione e scoramento. La tentazione di arrendersi, di lasciar perdere tutto, può essere fortissima.

 

Per fortuna gli abolizionisti molte volte sono persone coraggiose e, soprattutto, hanno la fondata consapevolezza di stare dalla parte giusta. E di quando in quando, in mezzo al buio delle delusioni, si accendono delle piccole luci, segnali che qualcosa di buono sta accadendo.

 

Ci si rende conto, allora, che le parole degli abolizionisti non sono sempre e soltanto "voci che gridano nel deserto", ma trovano orecchie disposte ad ascoltarle e cuori disposti ad accoglierle e a meditarle.

 

Il caso di John Paul Penry ci deve convincere dell'importanza e della necessità di persistere nella nostra battaglia: senza la mobilitazione di tante associazioni, senza l'opera tenace di pubblica sensibilizzazione, senza il bombardamento di appelli, messaggi e petizioni diretti al Governatore, alla Commissione delle Grazie e ai media, certamente Johnny, come numerosi altri che sono stati salvati, sarebbe già stato ucciso da un pezzo, e l'umanità avrebbe aggiunto il peso di un altro delitto al suo già sovraccarico bilancio di crimini.

 

 

3) LA PENA DI MORTE PER I RITARDATI AL CENTRO DI UN INFUOCATO DIBATTITO

 

 

I tempi sono maturi per la mesa fuori legge della pena di morte per i ritardati mentali in tutti gli Stati Uniti, ma le resistenze dei gruppi più conservatori sono ancora in grado di rimandare questo progresso della civiltà. Particolarmente deludenti sono state le equivoche prese di posizione in materia del Presidente Bush e del Governatore del Texas nel mese di giugno.

 

Dopo un lungo dibattito, come avevamo annunciato nel numero scorso, era passata in Texas una legge, corrispondente all’orientamento della grande maggioranza dei cittadini, che bandiva la pena di morte per i ritardati mentali. Mancava solo la firma del Governatore Perry il quale ha rimandato il suo intervento all’ultimo istante monitorando accuratamente le pressioni pro e contro il provvedimento. Si sono schierati a favore della legge l’autorevole Associazione per il Ritardo mentale, Amnesty International, la Chiesa cattolica e molti intellettuali. Contro la legge hanno lottato strenuamente i pubblici accusatori, dodici famiglie di persone assassinate e le associazioni per i “diritti” delle vittime del crimine. Alla fine, domenica 17 giugno, Rick Perry, il nuovo governatore “progressista” che ha favorito grandi miglioramenti nel sistema penale del Texas, ha preso la penna ed ha opposto il veto alla proposta di legge supportata dal Senatore Rodney Ellis. Quest’ultimo, vivamente deluso, ha detto: “E’ una decisione miope che macchia ulteriormente l’immagine del Texas nella nazione e nel mondo. Sono imbarazzato per il Texas.”

 

Le dichiarazioni con cui Perry ha accompagnato il suo veto, nella prima parte si identificano con un’uscita del Presidente Bush subito prima di intraprendere il suo viaggio in Europa. “Non vengono mai ‘giustiziati’ ritardati mentali negli Stati Uniti” aveva detto Bush l’11 giugno suscitando una serie di irridenti smentite, a cominciare da quelle della grande stampa nazionale e di Amnesty International. “Non ‘giustiziamo’ ritardati mentali al giorno d’oggi”, ha affermato Perry il 17 giugno.

 

Perry si è affrettato a rassicurare l’opinione pubblica che lui non è contrario al bando delle esecuzioni dei ritardati mentali ma vuole soltanto evitare che sia qualcun altro al di fuori delle giurie a decidere sull’esistenza del ritardo mentale (riferendosi al fatto che la proposta di legge, di cui abbiamo parlato nel numero scorso, in certi casi prevedeva all’intervento di giudici e di esperti).

 

E’ fin troppo evidente che la decisone di Perry ha avuto a che fare con la posizione di gruppi retrivi molto influenti nel suo stato. Le organizzazione forcaiole hanno prodotto la maggioranza dei 1500 messaggi spediti a ridosso del 17 giugno in cui si chiedeva al Governatore di respingere la legge approvata dal Parlamento.

 

Ha vinto ancora una volta – per una delle ultime volte – Justice for All, ha vinto la famiglia di Pamela Moseley Carpenter che fu uccisa da John Penry. Tuttavia, proposte di legge come quella bloccata da Perry hanno camminato senza incontrare alcun ostacolo in Florida, Arizona, Connecticut e Missouri nei mesi scorsi. Queste leggi hanno portato a 15 il numero degli stati abolizionisti nei riguardi dei ritardati mentali. Ad essi si stanno aggiungendo anche la North Carolina e la California.

 

Ora la stampa nazionale si augura che la preannunciata sentenza della Corte Suprema federale che dovrà decidere sull’ammissibilità costituzionale della pena di morte per i ritardati mentali vada nella direzione giusta. Anche il governatore Rick Perry ha ripetutamente dichiarato di attendere con deferenza e rispetto tale decisione che verrà resa nota in autunno.

 

 

4) L’OSCURO BRACCIO DELLA MORTE DEL GIAPPONE La delegazione giapponese al Primo Congresso mondiale sulla pena di morte comprendeva Sakae Menda, un fragile uomo di 76 anni che ha passato 34 anni e mezzo nel braccio della morte, sotto la continua minaccia dell’esecuzione. Menda, che è stato liberato nel 1983 dopo essere stato riconosciuto innocente, dice di non provare rancore nei riguardi delle autorità. Prima di andare a Strasburgo ha fatto la sua relazione a Roma, durante un incontro con la delegazione giapponese organizzato presso la Camera dei Deputati da Amnesty International e dalla Comunità di Sant’Egidio. “Quello che ho passato non può essere descritto – ha detto Menda – i prigionieri sono isolati in celle individuali e non gli è consentito nemmeno di fare un po’ di ginnastica. Non ci consentivano neanche di alzarci in piedi o di sdraiarci senza permesso.”

 

Solo da pochi mesi a questa parte la terribile realtà dei bracci della morte giapponesi ha avuto una certa risonanza nei media anche a causa dell’interessamento del Consiglio d’Europa. I Giapponesi stessi ne sanno pochissimo.

 

In Giappone una sentenza di morte dovrebbe essere eseguita entro sei mesi dal momento in cui diventa definitiva, ma in genere passano anni e anni senza che accada nulla. Non vi è alcun preavviso, se una mattina il condannato vede fermarsi una guardia davanti alla porta della sua cella capisce che di lì a un’ora sarà impiccato. Non potrà comunicare con nessuno dei suoi cari. Un ministro di culto autorizzato ad assistere all’esecuzione dovrà mantenere il segreto su quanto avrà visto. La famiglia del condannato verrà informata ad esecuzione avvenuta. In pochissimi casi il corpo del ‘giustiziato’ viene ritirato dai familiari.

 

Le esecuzioni capitali in Giappone sono rare ma sono aumentate negli ultimi anni. Se ne contano 39 dal 1993 ad oggi. La difesa legale assicurata agli accusati di reati capitali è scarsissima e aleatoria. L’accusato è alla mercé della polizia, che gli estorce la confessione: questa costituirà la principale prova a carico. In Giappone oltre il 99% degli accusati di un reato penale finisce per essere giudicato colpevole. Le condizioni di detenzione dei condannati a morte, isolati permanentemente in piccolissime celle, sono durissime. Dopo che la sentenza diviene definitiva inizia un processo di separazione totale del detenuto dal mondo esterno. Sono consentiti brevi colloqui, senza contatto fisico e in presenza di una guardia, e la corrispondenza, soltanto con i familiari. Le famiglie molto spesso rompono i legami col parente condannato a morte il quale rimane totalmente solo. In alcune carceri ai condannati si proibisce perfino di parlare con le guardie.

 

Una delegazione del Consiglio d’Europa, che si è recata a fine febbraio nel carcere di Tokio per incontrare un condannato a morte su richiesta della famiglia di costui, si è vista opporre un netto rifiuto da parte del Ministro della Giustizia del Giappone. “Ci hanno spiegato che non è possibile incontrare alcun detenuto per non turbare la serenità di spirito dei prigionieri. Non ho mai sentito qualcosa di simile.” ha detto il capo delegazione, lo svedese Gunnar Jansson.

 

 

5) GLI STATI UNITI E IL GIAPPONE RISCHIANO UNA DISONOREVOLE ESCLUSIONE

 

 

Il 25 giugno l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ha approvato una risoluzione che chiede la rimozione del Giappone e degli Stati Uniti d’America dallo status di ‘osservatori’ al Consiglio d’Europa stesso, a meno che questi due paesi non compiano significativi progressi verso l’abolizione della pena di morte entro l’anno 2002. Anche se il provvedimento di espulsione avrebbe scarse conseguenze pratiche, esso risulterebbe oltremodo imbarazzante per questi due paesi alleati dei paesi europei. Attualmente fanno parte del Consiglio d’Europa 43 stati, mentre Canada, Giappone, Messico e Stati Uniti hanno il ruolo di ‘osservatori’.

 

La presa di posizione europea segue di pochi giorni le esecuzioni di Timothy McVeigh e di Juan Raul Garza, le prime due esecuzioni a livello federale compiute dagli Stati Uniti a partire dal 1963. I 603 membri dell’Assemblea parlamentare hanno chiesto a Stati Uniti e Giappone di adottare una immediata moratoria delle esecuzioni capitali, di migliorare le condizione di detenzione dei condannati a morte e di fare passi a livello legislativo verso l’abolizione della pena capitale.

 

 

6) GLI STATI UNITI CONDANNATI DALLA CORTE INTERNAZIONALE DELL’AJA

 

 

Il 27 giugno è stata resa nota la sentenza inappellabile della Corte Internazionale dell’Aja – il massimo organo giudiziario della Nazioni Unite – al termine della causa intentata dalla Germania contro gli Stati Uniti per la violazione del Trattato di Vienna sulle Relazioni consolari. La sentenza riguarda il comportamento degli Stati Uniti in occasione della cattura, del processo, della condanna a morte e dell’esecuzione dei fratelli LaGrand, di nazionalità tedesca. La Corte ha accettato a larghissima maggioranza le tesi della Germania ed ha condannato gli Stati Uniti.

 

Ricordiamo che la Germania aveva citato gli Stati Uniti alla Corte Internazionale per non aver messo Karl e Walter LaGrand in contatto con il Consolato tedesco né quando furono arrestati ed accusati di un omicidio e di un ferimento nel corso di una tentata rapina nel 1882, né quando furono processati dallo stato dell’Arizona nel 1984. Karl LaGrand fu ucciso con l’iniezione letale il 24 febbraio 1999. Gli avvocati difensori di Walter LaGrand ricorsero alla Corte Internazionale il 2 marzo 1999, alla vigilia dell’uccisione del loro cliente nella camera a gas, denunciando la violazione dei diritti consolari di quest’ultimo. Il 3 marzo la Corte inviò un Ordine di sospensione dell’esecuzione al Governo degli Stati Uniti. L’ordine fu inoltrato senza commento dal Dipartimento di Stato al Governatore dell’Arizona che lo ignorò, lasciando ammazzare Walter come programmato, ponendosi anche in contrasto con la richiesta delle Commissione delle Grazie.

 

Gli Stati Uniti sono stati riconosciuti colpevoli sia per il mancato rispetto delle mutue obbligazioni tra la Germania e gli USA, sia per aver violato i diritti individuali del fratelli LaGrand. Più precisamente è stato fatto carico agli Stati Uniti:
1) di non aver consentito agli imputati di giovarsi dell’assistenza consolare tedesca al momento della loro cattura e durante il processo,
2) di non aver successivamente sottoposto a revisione le sentenze capitali pronunciate in violazione del Trattato di Vienna,
3) di aver ignorato l’ordine di sospensione dell’esecuzione di Walter La Grand.

 

Durante il dibattimento tenutosi dal 13 al 17 novembre 2000 (vedi n. 81), la linea di difesa degli Stati Uniti, che ammettevano pienamente di non aver ottemperato agli obblighi consolari nel caso LaGrand, è stata da una parte quella di ottenere una dichiarazione di incompetenza in materia dalla Corte dell’Aja, dall’altra di sostenere che gli USA avevano già completamente rimediato agli errori commessi presentando la proprie scuse alla Germania. Gli Stati Uniti hanno anche sferrato un pesante contrattacco ‘politico’ alla causa intentata contro di loro. In sede dibattimentale hanno affermato che la Germania tendeva a distorcere la legge internazionale nel tentativo di negare agli USA il diritto di applicare la pena di morte, entrando così pesantemente nei procedimenti giudiziari americani, cioè negli affari interni di uno stato sovrano.

 

La sentenza emessa il 27 giugno dalla Corte Internazionale dell’Aja ha un grande significato di principio ma non immediate conseguenza pratiche. Infatti la parte sanzionatoria della sentenza è irrilevante, consistendo semplicemente in un invito agli USA di attenersi alla promessa da loro fatta di comportarsi in modo corretto in futuro nei riguardi di cittadini tedeschi. Purtroppo non influisce in maniera diretta sui casi di decine di stranieri non tedeschi condannati a morte negli Stati Uniti in violazione del Trattato di Vienna. Secondo Amnesty International sono una novantina gli stranieri nei bracci della morte degli USA, in grandissima maggioranza processati violando gli obblighi consolari. Dal 1977 in poi sono stati ‘giustiziati’ almeno 14 stranieri che non si erano potuti giovare dell’assistenza del proprio consolato.

 

 

7) PRIMO CONGRESSO CONTRO LA PENA DI MORTE: LA DICHIARAZIONE FINALE

 

 

Il Primo Congresso Mondiale contro la pena di morte si è tenuto a Strasburgo dal 21 al 23 giugno, sotto l’ala del Parlamento Europeo e in presenza di una moltitudine di autorità istituzionali dei paesi abolizionisti, tra cui una ventina di Presidenti di assemblee parlamentari. E’ stato caratterizzato da una serie di interessanti testimonianze, come quella della delegazione giapponese, e dalle relazioni degli esperti e dei leader delle organizzazioni abolizioniste provenienti da varie parti del mondo. Appena saranno pubblicati gli atti congressuali daremo notizia dei principali risultati acquisiti. Di seguito riportiamo una sintesi della Dichiarazione finale del Congresso.

 

(…) La pena di morte sta a significare il trionfo della vendetta sulla giustizia e viola il primo dei diritti degli esseri umani, il diritto alla vita. La pena capitale non ha mai prevenuto i crimini. E’ un atto di tortura ed è il trattamento più crudele, inumano e degradante. Una società che commina la pena di morte simbolicamente incoraggia la violenza. Ogni società che rispetta la dignità della sua gente deve battersi per abolire la pena di morte.

 

(…) Siamo felici che molti Presidenti di parlamenti abbiano deciso di lanciare il 22 giugno dal Parlamento Europeo un “Appello solenne al mondo per la moratoria delle esecuzione quale passo verso l’abolizione”.

 

(…) chiediamo che: · gli stati ratifichino tutti i trattati e le convenzioni abolizioniste internazionali e regionali,
· i paesi che hanno sospeso le esecuzioni rimuovano la pena di morte dalle loro leggi,
· i paesi che condannano a morte i minorenni all’epoca del crimine pongano fine a questa aperta violazione della legge internazionale,
· non possano essere condannati a morte i disabili mentali,
· gli stati che hanno abolito o sospeso la pena di morte non estradino nessuno in paesi in cui essa viene ancora applicata, indipendentemente dalle assicurazioni che la pena di morte non verrà imposta,
· gli stati rendano note regolarmente ed apertamente informazioni sulle sentenze capitali, sulle condizioni di detenzione dei condannati e sulle esecuzioni.

 

Appoggiamo la verifica del Consiglio d’Europa della compatibilità dello status di osservatori, riconosciuto agli Stati Uniti e al Giappone, con il mantenimento della pena di morte.

 

Facciamo appello al Consiglio d’Europa e all’Unione Europea affinché insistano perché la Turchia, la Russia e l’Armenia aboliscano permanentemente la pena capitale e per tutti i reati e commutino tutte le sentenze di morte.

 

(…) Ci associamo alle petizioni promosse da Amnesty International, dalla Comunità di Sant’Egidio, da Insieme contro la pena di morte, dalla Federazione della Lega per i Diritti umani, da Nessuno tocchi Caino e da ogni altra organizzazione e facciamo appello a tutti i militanti abolizionisti di firmare la seguente petizione: “Noi, cittadini del mondo, chiediamo un immediato arresto di tutte le esecuzioni dei condannati a morte e l’abolizione universale della pena di morte”.

 

Infine chiediamo a ciascuno stato di fare ogni possibile passo verso l’adozione da parte delle Nazioni Unite di una moratoria mondiale delle esecuzioni, in vista dell’abolizione universale.

 

Strasburgo 22 giungo 2001.

 

 

8) COSI’ SCRIVE SERGIO CHE VIVE IN TEXAS E CREDE NELLA PENA DI MORTE

 

 

Un fitto scambio di messaggi si è originato dalla risposta di Grazia ad un commento assai poco benevolo nei riguardi della causa abolizionista inviato da Sergio al Comitato Paul Rougeau. Sergio è un cittadino di Houston che crede fermamente nella pena di morte, così come noi crediamo nella necessità di abolirla. Riportiamo una sintesi dell’interessante carteggio tra Sergio e Grazia, che avrà forse un seguito nel prossimo numero.

 

 

Caro Sergio,
grazie per aver accettato di discutere con me il problema della pena di morte! Prima di tutto, ti dirò che ciò che penso su questo argomento viene dal cuore ed è una “traduzione verbale” dei miei sentimenti in proposito. Intendo dire che non sono abituata a tenere conferenze.

Il punto principale che mi fa opporre “radicalmente” alla pena di morte è questo: ogni vita è preziosa e nessuno è autorizzato a togliere la vita ad un altro essere umano. Nessuno, neanche lo stato, neanche un re o un presidente hanno il diritto di uccidere, sia pure il peggiore degli uomini.

(Sergio) E’ bello che tu abbia simili sentimenti per la vita umana e concordo pienamente con te su questo punto. Ogni vita umana è preziosa. Ma per quanto riguarda il mio sostegno “radicale” alla pena di morte, credo che un essere umano che uccide un altro essere umano durante uno stupro, una rapina o uno spaccio di droga deve essere punito. Gli animali uccidono per sopravvivere, alcuni uomini sono peggiori degli animali perché uccidono un altro essere umano per un paio di dollari.

(Grazia) E’ vero, gli esseri umani possono essere molto migliori o molto peggiori degli animali, a seconda di “come” usano la loro intelligenza. Nessuno può mettere in dubbio che uccidere per stupro o rapina sia una cosa orribile che non deve essere fatta. Dobbiamo ridurre al minimo la possibilità che questa cosa orribile accada. Ciò è possibile con adeguate misure di prevenzione, con l’aiuto sociale e con la promozione del rispetto per la vita umana nella società, che determina un cambiamento culturale.

 

Se tutti capiscono e concordano che i criminali che uccidono agiscono in un modo orribile, non tutti ancora hanno capito – ed è la ragione per cui stiamo discutendo questo argomento – che anche uccidere in modo premeditato e a sangue freddo (come nel caso della pena di morte) un altro essere umano è un atto orribile. Uccidere è un crimine e criminali sono coloro che uccidono, indipendentemente dall’innocenza delle loro vittime.

(Sergio) Dici che uccidere è un crimine, che criminali sono coloro che uccidono. Così chiameresti criminali tutti quei soldati che hanno sacrificato le loro vite difendendo il mondo dai Nazisti? O un poliziotto che uccide un criminale per difendere un onesto cittadino dovrebbe essere definito un criminale?

(Grazia) Sappiamo tutti che nelle guerre moderne vengono uccisi molti innocenti (vecchi, donne, bambini) e che, ai nostri tempi, le armi da guerra sono tremende. E’ pertanto sempre più necessario rinunciare anche alla violenza bellica – usata come mezzo per risolvere i conflitti tra i popoli - e sostituirla con la forza degli strumenti giuridici basati sul rispetto dei diritti umani. Quando parli di un’aggressione a mano armata, che mette a repentaglio la vita delle persone, se questa viene fermata con il minimo possibile uso delle armi – come mezzo di “legittima difesa” – l’eventuale perdita di vite umane – sebbene terribile – è meno grave che uccidere a sangue freddo una persona che è già stata messa in condizione di non nuocere, com’è il caso di un criminale detenuto.

(Grazia) Gli omicidi dovrebbero essere isolati dalla società in modo da non poter più nuocere (e nelle nostre moderne società ci sono molti modi di rinchiudere le persone in modo tale che non possano fuggire) lasciando loro la possibilità di ripensare ai loro crimini e pentirsi.

(Sergio) Credi onestamente che un criminale che abbia scontato la sua pena in prigione, se dopo essere uscito uccide un poliziotto durante un normale blocco stradale, si pentirà quando tornerà in prigione?!!!!!!

(Grazia) Se anche alcuni criminali rimangono pericolosi per un lungo periodo – e questo vale solo per una parte di loro – non significa che l’unica alternativa possibile sia ucciderli! La maggior parte dei paesi del mondo, che hanno abolito la pena di morte, non risolve il problema uccidendo.

(Sergio) In genere questi assassini non hanno alcun rimpianto per i loro crimini.

(Grazia) Chi può saperlo?

(Grazia) La pena di morte non è un deterrente (i paesi dove è praticata non hanno minore criminalità di quelli in cui c’è la pena capitale)

(Sergio) Hai delle prove?

(Grazia) Sì, ci sono molte statistiche e cifre che lo dimostrano. Non le ho subito a portata di mano, ma, se vuoi, farò una veloce ricerca e te le farò conoscere.

(Sergio) La pena di morte non è intesa per essere un deterrente al crimine, ma per PUNIRE coloro che commettono i crimini!!!!

(Grazia) Allora dobbiamo intenderci sul significato di “punire”. Se puniamo le persone con lo scopo di farle riflettere sui loro atti e di pentirsi, allora la punizione ha il significato di “correzione”. Se per punire uccidiamo, allora la punizione non ha come finalità la correzione, ma ha solo lo scopo di far soffrire chi ha fatto soffrire altre persone. Questo modo di considerare la punizione deriva solo dal desiderio di vendetta.

(Grazia) La pena di morte non è un modo di aiutare i familiari delle vittime a dimenticare (dà loro soltanto il freddo piacere della vendetta, ma questo è un sentimento che non aiuta a vivere meglio quando hai perso una persona cara – e in ogni caso il suo effetto finisce rapidamente).

(Sergio) A me sembra che tu abbia più a cuore i criminali che le vittime. Non c’è alcun “freddo piacere della vendetta” ma, secondo me e per quel che sento dire dai parenti delle vittime, la certezza assoluta che quei criminali non commetteranno altri crimini. I familiari delle vittime non vogliono che altre persone debbano soffrire per l’assassinio di una persona amata.

(Grazia) Mi preoccupo delle sofferenze e delle ingiustizie patite dai familiari delle vittime! Ma uccidere l’assassino dei loro cari viene quasi sempre pubblicizzato come un modo per dare loro sollievo, proprio come un mezzo di vendetta. Se così non fosse, perché allora i familiari delle vittime verrebbero autorizzati e invitati ad assistere all’esecuzione del criminale? Se fosse solo per avere la sicurezza che un assassino non nuocerà più ad altre persone, dovrebbe bastare leggere sui giornali la notizia della sua esecuzione! Il desiderio di vederlo morire è fredda vendetta.

(Grazia) Pensa, inoltre, al rischio di uccidere un innocente! E’ vero che il vostro sistema giudiziario dà al condannato la possibilità di avanzare parecchi appelli, ma, allora, come mai nel braccio della morte la grande maggioranza di prigionieri è costituita da persone povere? Pensi davvero che gli assassini esistano solo in quella categoria di persone? Non è invece molto più probabile che i ricchi possano permettersi la difesa di avvocati in gamba che li tolgono dai guai?

(Sergio) Non credo che il solo fatto di essere povero ti dia il diritto di uccidere un essere umano e poi andare soltanto in prigione dove ricevi cibo e un riparo. I trafficanti di droga hanno molto denaro per potersi pagare la difesa legale.

(Grazia) Non intendevo dire che i poveri hanno diritto di uccidere! Ciò che volevo dire è che solo i poveri finiscono nel braccio della morte, mentre i ricchi possono pagarsi un buon avvocato che li salva. Ciò significa che la pena di morte è ingiusta e discriminante.

(Grazia) Pensa per quante persone che uccidono deliberatamente, non viene neppure presa in considerazione la pena di morte! Prendi per esempio il caso di un ricco industriale che inquina le acque contravvenendo alle leggi antinquinamento (e lo fa solo per fare più soldi): le acque avvelenate possono provocare il cancro e uccidere molte persone, ma quell’industriale non verrà mai condannato a morte! Al massimo (e non accade sempre) dovrà pagare una multa e risarcire i danni ai familiari delle vittime. Per non parlare dei più grandi assassini della storia, persone come Stalin, Pinochet o Pol-Pot, che spesso non solo non sono stati condannati a morte, ma hanno anche evitato qualsiasi punizione.

(Grazia) Negli USA vengono costruite prigioni sempre più grandi e sempre più sicure per chiudervi sempre più criminali. Il problema della criminalità e della sua vasta diffusione anche tra i più giovani ha le sue radici nella società e nei suoi valori sbagliati amplificati dai media. So che questo è un argomento troppo ampio da discutere così semplicemente, e che gli interessi economici ad esso connessi sono enormi. Ma, come sai, gli investimenti a lungo termine sono spesso più redditizi di quelli che hanno un immediato ritorno.

(Sergio) Il concetto di base è che i criminali hanno avuto la possibilità di pensare prima di commettere il crimine (questo è ciò che ci distingue dagli animali). Hanno avuto la possibilità di fermarsi e di non uccidere. Poi quando vengono condannati a morte chiedono pietà. Se il criminale avesse avuto pietà per la sua vittima, nessun criminale verrebbe punito con la pena di morte.

(Grazia) Giustamente, dici che un criminale dovrebbe pensare prima di uccidere qualcuno (anche se spesso è preda di forti passioni). Che cosa dovremmo dire di uno stato che uccide a sangue freddo e in modo discriminante, spesso dopo una ciclo di processi mal condotto?

(Sergio) Sarebbe bello vivere in un mondo senza crimini, senza odio, senza fame, senza malattie, ma la triste realtà non è così.

(Grazia) Se vogliamo un mondo migliore, coloro che hanno il cervello e il cuore ben disposti devono fare il primo passo per avviarsi in questo cammino. Una delle cose più facili da fare è abolire la pena di morte, poi ci sono molte altre iniziative da intraprendere: migliorare l’assistenza sanitaria, il sistema educativo ecc. La lista è interminabile. Ma se nessuno ferma la violenza da una parte, anzi, al contrario, la sostiene, avremo sempre molti crimini, da entrambe le parti, e molte vittime.

 

 

9) INCONTRO CON RICK HALPERIN E JAMES EHRMAN

 

 

Nella calda serata del 12 giugno la libreria Bibli a Roma era affollata come non mai per il ritorno di Rick Halperin a Roma. Erano passati due anni dallo storico tour che lo vide anche a Palazzo Vecchio a Firenze col Comitato Paul Rougeau. Parecchi sono rimasti in piedi, nella calca, per seguire il coinvolgente dibattito durato tre ore e mezza. I principali oratori nell’incontro di quest’anno erano gli stessi del 1999.

 

Oltre a Rick Halperin c’era Riccardo Noury, memoria storica della Sezione Italiana di Amnesty International, c’era Jim Ehrman, consigliere per gli Affari sociali all’Ambasciata Americana, c’era Carlo Santoro della Comunità di Sant’Egidio, “moderava” Norberto Barbieri. Ad una precisa, approfondita ma agile esposizione della storia della pena di morte negli ultimi venticinque anni negli USA fatta da Riccardo Noury, sono seguiti i lunghi appassionati interventi di Rick Halperin che ha attaccato l’uso della pena capitale nel suo paese definendolo una realtà assai peggiore di quanto non appaia a prima vista. Non si tratta di una pena ma di violenza e di sopraffazione del potere, in un paese violento in cui è diffusissima e libera la vendita delle armi personali.

 

Rick Halperin ha descritto vividamente i cinque metodi di esecuzione capitale ancora previsti negli Stati Uniti ed ha rivolto con forza agli Americani la domanda se sia possibile pensare che le risposte più appropriate ai crimini siano gli orribili rituali della fucilazione, dell’impiccagione, della sedia elettrica, della camera a gas o dell’iniezione letale (questi ultimi due metodi di sterminio furono messi a punto dai nazisti). Se la risposta è no, la sua successiva domanda è: ‘Perché allora si continua ad usare la pena di morte ?’ Nella storia negli Stati Uniti le idee mitiche, come quelle di libertà, uguaglianza, giustizia… hanno dato i corrispettivi privilegi solo alle classi avvantaggiate.

 

Nei confronti dei gruppi e degli individui ‘perdenti’ si sono verificati ogni sorta di soprusi: dal genocidio legalizzato degli indigeni, alla loro segregazione, allo sfruttamento degli schiavi neri importati dall’Africa, alla discriminazione razziale, alla negazione dei diritti civili per le donne e per gli indigeni (gli Indiani d’America sono stati ammessi al voto solo nel 1924), ai linciaggi, alla pena di morte.

La pena di morte è dunque un’istituzione che deriva direttamente dal peggiore passato degli Stati Uniti. Innegabile è il carattere di discriminazione razziale che si riscontra ancor oggi nell’applicazione della pena capitale, sia nella composizione delle giurie formate quasi sempre da bianchi, sia nella sproporzionata emissione di sentenze capitali nei casi in cui la vittima del crimine è di razza bianca e l’imputato appartiene ad una minoranza etnica.

Non è vero che l’imputato venga giudicato da una giuria composta da suoi ‘pari’, cioè rappresentativa della popolazione. Accurati procedimenti di selezione eliminano dalle giurie coloro che sono contrari alla pena di morte, perfino l’appartenenza ad Amnesty International può essere un motivo di esclusione. In quattro stati le sentenze di morte possono essere inflitte da un giudice anche contro il parere della giuria, in altri stati non è prevista la giuria popolare ed è il solo giudice ad infliggere la pena capitale. Rick Halperin ha ricordato gli aspetti più aberranti della pena di morte che può essere inflitta ai minorenni e ai ritardati mentali, la scarsa qualità della difesa d’ufficio nei casi capitali, la violazione dei diritti costituzionali degli stranieri immigrati che a volte non comprendono bene la lingua inglese usata in tribunale. Ha concluso con una nota di ottimismo affermando che il processo di abolizione della pena di morte negli USA è comunque iniziato.

Altrettanto interessante, anche se diametralmente contrapposto, è stato lungo discorso di James Ehrman, che si era puntigliosamente documentato sugli argomenti di teoria politica da lui avanzati per ‘spiegare’ – in realtà per difendere o per lo meno per nobilitare – l’uso della pena di morte nel suo paese. In estrema sintesi, Ehrman afferma:
1) Il potere per gli Americani spetta la popolo e la Costituzione tende solo a delimitare l’ingerenza del Governo nella sovranità del popolo, a differenza di quanto avviene in Europa dove l’eredità storica delle antiche monarchie assolute rende per certi aspetti i cittadini ancora sudditi e sottomessi allo stato. Di conseguenza negli Stati Uniti è il popolo la sorgente della giustizia ed è il popolo che commina direttamente le pene – attraverso giurie costituite da ‘pari’ – e anche la pena di morte. Il Governo e i dirigenti ai vari livelli non hanno voce in capitolo.
2) In America vale il principio di “responsabilità” dei cittadini – sottolineato in maniera estrema dal nuovo Presidente Bush – i quali sono liberi a tutti i livelli ma di conseguenza responsabili fino in fondo dei loro atti. In Italia, al contrario, il buonismo imperante finisce per deresponsabilizzare la gente e consentire ai colpevoli di farla franca il più delle volte.
3) Il principio di “uguaglianza” impedisce ai politici americani di svolgere un ruolo guida nella società, essi devono agire solo in conseguenza al volere popolare e sono soggetti ai rigori della legge come tutti gli altri cittadini. In America non si può concepire un ruolo guida delle élite – anzi non vi sono élite - nei riguardi della popolazione verso l’abolizione della pena di morte, come sembra essere invece ritenuto accettabile in Europa occidentale.
4) In America lo stato nasce perfettamente aconfessionale tanto che non occorrono garanzie costituzionali della libertà religiosa. Ciò non vuol dire che gli Americani non siano religiosi, anzi lo sono molto più degli Europei. Nonostante il loro rigoroso agnosticismo gli esponenti politici europei sono legati al potere della chiesa che influisce sul loro operato. Solo la legge è cosa sacra nella vita americana. La legge punisce in maniera inflessibile, senza alcuna pietà: sarà Dio – per chi crede – ad avere pietà del reo nell’aldilà. Il perdono appartiene alla sfera religiosa: Dio perdona, la legge no.

 

 

10) IL CASO DEGLI STATI UNITI, UN’ANOMALIA NEL PROCESSO ABOLIZIONISTA

 

 

Oggi, applicando i criteri di Amnesty International, possiamo dire che la pena di morte è stata abolita per legge o di fatto in ben oltre la metà dei paesi del mondo: 109 paesi, a fronte degli 86 che la mantengono.

La pena di morte, come la tortura e i supplizi più raccapriccianti, ha accompagnato la lunga storia dell’uomo sulla terra. Anche se in passato in alcuni periodi e in alcuni paesi questa pena non è stata applicata, l’idea abolizionista, come la intendiamo oggi, è recentissima, risalendo alla seconda metà del ‘700.

Avviatosi lentamente, il processo abolizionista ha marciato sempre più velocemente nel secolo appena trascorso e soprattutto nel dopo guerra. Negli anni settanta quando si discuteva di abolire la pena di morte in numerosi paesi dell’Europa occidentale, 40 paesi l’avevano abolita e 122 la mantenevano. Oggi, come abbiamo ricordato all’inizio, i paesi abolizionisti sono 109.

Mentre in Francia e in Inghilterra si discuteva della pena di morte, gli Stati Uniti d’America marciavano rapidamente verso la sua abolizione. Basti pensare che nel 1968 la percentuale dei cittadini statunitensi contrari alle esecuzioni aveva superato quella dei favorevoli (cosa che non avveniva certamente in Europa occidentale). Nel 1972, dopo che non si erano registrate esecuzioni per cinque anni, la Corte Suprema federale dichiarò praticamente incostituzionale l’uso della pena capitale.

 

Dopo altri quattro anni però si registrarono alcuni fatti che, visti inizialmente come modesti incidenti di percorso sulla strada dell’abolizione, dovevano invece rappresentare l’inizio di un cambiamento di tendenza. Il 2 luglio 1976 la Corte Suprema federale tolse il divieto della pena capitale e sei mesi dopo un condannato a morte dello Utah, tale Gary Gilmore, che aveva prodotto una serie di ricorsi per farsi ammazzare, ottenne di essere fucilato: era il 17 gennaio 1977. Cadeva una moratoria decennale ma nessuno poteva immaginare la carneficina che sarebbe cominciata di lì a sette-otto anni.

 

L’ultima esecuzione in Europa occidentale era avvenuta in Francia nel 1977. Negli anni ottanta il processo abolizionista si era consolidato nel Vecchio continente quando si assistette con stupore e preoccupazione ad una repentina ripresa delle esecuzioni capitali negli Stati Uniti: 5 uccisioni legali nel 1983 e 21 nel 1984! Prima ve ne erano state, al massimo, una o due in un anno.

 

Per capire come sia stata possibile la forte ripresa delle esecuzioni capitali negli Stati Uniti occorre certamente tener conto delle caratteristiche della cultura americana. Ma possiamo intanto osservare che è mancata la testimonianza positiva degli intellettuali, degli esponenti politici e religiosi, dei media… nel momento in cui il tornaconto politico a breve termine indusse i candidati alle cariche amministrative, politiche o giudiziarie a cavalcare lo spettro della pena capitale per rispondere alle richieste irrazionali degli elettori spaventati da un incremento massiccio della criminalità.

 

E’ certo però che la ripresa delle esecuzioni negli USA è stata una malaugurata deviazione dal cammino comune dei paesi occidentali verso l’abolizione definitiva della pena di morte.

 

Per di più, dato il ruolo giuocato dagli Stati Uniti sullo scenario internazionale, la posizione degli USA, insieme a quella del colosso cinese, oppone un momentaneo formidabile ostacolo al processo abolizionista che sta andando avanti robustamente in tutte le parti del mondo.

 

Come abbiamo dimostrato nel numero precedente (pag. 2), negli Stati Uniti il momento peggiore sembra essere comunque passato. Dopo l’acme raggiunto nel 1999, si sta verificando una netta inversione di tendenza. La presa di coscienza degli ‘opinion leader’ e dei legislatori americani, correggendo gli aspetti più aberranti dell’uso della pena capitale, pone le premesse per una riflessione sulla pena di morte in sé e per sé.

 

In questi mesi i giornali americani locali, non solo i grandi giornali nazionali come il Washington Post e il New York Times, sono diventati estremamente critici nei riguardi dell’uso della pena di morte di cui sempre più frequentemente, con ricerche e con editoriali, denunciano l’ingiustizia e l’orrore.

 

Quest’anno per la prima volta si assisterà al passaggio di un consistente numero di leggi che restringono l’uso della pena di morte e ne eliminano gli aspetti più criticabili. Ciò costituisce senz’altro un passo in avanti ma, come abbiamo detto, può essere anche visto come un ripiegamento dei sostenitori della pena di morte su posizioni meno esposte alle critiche per ritardarne la definitiva abolizione.

 

In ogni caso gli americani si accorgeranno presto che non è possibile rendere accettabile un mostro con una semplice operazione di maquillage.

La deviazione degli Stati Uniti dal cammino comune dei paesi occidentali è cominciata esattamente venticinque anni fa. Dovesse durare altri cinque anni, trent’anni di ritardo nell’abolizione della pena di morte, confrontati ai tempi in cui matura la civiltà umana, possono sembrare un periodo brevissimo. Tuttavia per i 3711 ospiti dei bracci della morte di 38 stati un anno può essere lungo un’eternità.

 

 

11) UCCISO TRE VOLTE UNO SCHIZOFRENICO

 

 

“Pena crudele ed inusuale” contraria all’Ottavo emendamento della Costituzione USA, così un avvocato d’ufficio dell’Ohio, negli ultimi ricorsi, ha definito la pena di morte per Jay D. Scott. Il tentativo di far dichiarare incostituzionale l’esecuzione della sentenza nei riguardi di Scott è stata un’estrema mossa difensiva che non ha trovato eco in nessuna delle corti. L’ultima chance che rimaneva al condannato sofferente di schizofrenia era quella di essere talmente fuori di testa all’inizio della terza procedura di esecuzione nell’arco di due mesi da non comprendere ciò che stava accadendo. Ciò non è avvenuto ed egli è stato ucciso nel Centro di Correzione di Lucasville nell’Ohio il 14 giugno, dopo 17 anni passati nel braccio della morte.

 

Come non definire crudele il trattamento inflitto a Jay Scott che era giunto due volte a pochi minuti dalla somministrazione dell’iniezione letale – il 17 aprile e il 15 maggio – quando fu sospesa la procedura? E la seconda volta l’ordine di sospendere l’esecuzione arrivò dopo che gli erano stati inseriti gli aghi nelle vene. Certo crudele ma non inusuale, infatti sono moltissimi i casi in cui un condannato raggiunge una o più volte l’estremo limite del suo calvario, per essere salvato ed essere sottoposto di nuovo alla procedura di esecuzione. Magari ad un giorno di distanza, come accadde un anno fa in Florida a Thomas Provenzano, il detenuto che credeva di essere Gesù Cristo.

 

 

12) NOTIZIARIO

 

 

Cina – Esecuzioni a raffica ed espianto di organi. Mente prosegue la campagna “Colpire duro!” - con i suoi processi sommari e una grandine di esecuzioni precedute dalla meste esposizioni pubbliche dei condannati - il dott. Wang Guoqi, trasferitosi in America un anno fa, ha reso una testimonianza agghiacciante davanti alla Sottocommissione per i Diritti umani del Congresso degli Stati Uniti. Il 27 giugno Wang ha affermato di aver prelevato organi da oltre 100 cadaveri di giustiziati in Cina e di aver operato in tal modo anche su persone ancora viventi, vittime di esecuzioni intenzionalmente ‘mal riuscite’. Ha confermato così le ricorrenti denunce riguardanti dottori cinesi che, coordinandosi perfettamente con gli esecutori delle sentenze, prelevano organi e tessuti subito dopo le esecuzioni, in certi casi per realizzare profitti all’estero. Il 28 giugno il Governo USA ha fatto le sue rimostranze al Governo cinese. Il Governo cinese ha smentito seccamente la testimonianza del dott. Wang Guiqi.

 

 

Yemen – ‘Giustiziato’ con tre colpi di fucile nella schiena davanti a 50 mila spettatori il 20 giugno Mohammad Adam Omar, un sudanese accusato di aver ucciso due donne. In seguito un ufficiale gli ha sparato di punto in bianco un colpo in testa quando si è visto che non era ancora morto e che cominciava a muoversi. Prima di ‘giustiziare’ il condannato, era stato offerto alla grande folla lo spettacolo dell’inflizione di 80 frustate ad Omar per essere stato un consumatore di alcol.

 

 

Arabia Saudita – “Gli ho perdonato, per piacere ad Allah!” ha gridato il padre della vittima il 27 giugno nel momento in cui un soldato sfoderava la spada per decapitare il ventenne Jahwi Hussein Qasim Abubakr, condannato a morte per omicidio. Abubakr, graziato all’ultimo momento secondo la legge islamica, si è prostrato lodando Dio. VIENI A LAVORARE CON NOI

 

 

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Questo numero è stato chiuso il 30 giugno 2001.

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