FOGLIO DI COLLEGAMENTO INTERNO
DEL COMITATO PAUL ROUGEAU
Numero 329 - Maggio, Giugno, Luglio 2025

Richard Jordan
SOMMARIO :
1) Leader religiosi della Florida a DeSantis: “Fermate le esecuzioni”
2) Dentro la camera della morte: un giornalista racconta l’ultima ora di Richard Jordan
3) Iran, esecuzioni lampo dopo il conflitto con Israele: tre uomini messi a morte e oltre 700 arresti per presunti legami con lo Stato ebraico
4) Iran, nuova legge espande la pena di morte: proteste in carcere e condanne internazionali
5) Vietnam, svolta storica: abolita la pena di morte per otto reati
6) Pakistan, Egitto e Corea del Nord: condanne capitali che sollevano allarme internazionale
1) LEADER RELIGIOSI DELLA FLORIDA A DESANTIS: “FERMATE LE ESECUZIONI”
Ottantadue esponenti di diverse confessioni chiedono una pausa nella pena di morte, denunciando disparità razziali, errori giudiziari e danni morali.
FLORIDA - Un’inedita alleanza interreligiosa ha deciso di alzare la voce contro la pena di morte e, soprattutto, contro la velocità con cui lo Stato la sta applicando. Ottantadue leader spirituali provenienti da diverse tradizioni – cattolica, protestante, evangelica, quacchera, mennonita e interconfessionale – hanno firmato una lettera indirizzata al governatore Ron DeSantis, chiedendogli di sospendere la firma di nuovi mandati di esecuzione.
Il documento è stato consegnato il giorno 8 luglio, durante una manifestazione che si è tenuta a Tallahassee. L’iniziativa ha previsto un incontro nella First Presbyterian Church, seguito da una marcia verso il Campidoglio statale, ed è stata trasmessa in diretta streaming a partire dalle 11 del mattino, ora locale.
Un anno record per le esecuzioni in Florida
Il 2025 si sta rivelando un anno cupo per la pena di morte nello Stato: con otto esecuzioni già effettuate e altre due programmate, la Florida ha raggiunto il numero più alto di condanne capitali eseguite in un solo anno da quando la pena di morte è stata reintrodotta a livello statale mezzo secolo fa. L’ultima esecuzione è stata eseguita solo lo scorso mese ai danni di Thomas Gudinas, colpevole del rapimento, stupro e omicidio di una donna nel 1994.
Per i leader religiosi firmatari, questa corsa alla sedia elettrica o alla camera dell’iniezione letale non è solo moralmente sbagliata, ma rischia di minare la fiducia stessa dei cittadini nel sistema giudiziario.
Il testo della lettera
Nel documento, i leader spirituali dichiarano di essere “profondamente turbati dall’espansione della pena di morte e dal ritmo delle esecuzioni sotto la vostra amministrazione”.
E aggiungono: “Siamo uniti nel chiedervi di sospendere la firma dei mandati di esecuzione e di creare uno spazio per un dialogo serio sulla domanda se questo ritmo di esecuzioni sia davvero ciò che è meglio per la popolazione della Florida.”
Il testo sottolinea la comune convinzione nel “valore sacro di ogni vita umana” e l’insegnamento condiviso che “nessuno è oltre la possibilità di redenzione”.
Uno dei punti centrali del documento riguarda le disuguaglianze razziali insite nel sistema penale. Secondo i firmatari, la Florida ha una “storia preoccupante di condanne capitali viziate da errori e pregiudizi”, e guida la nazione nel numero di persone condannate a morte poi riconosciute innocenti e liberate.
Questo, sottolineano, dimostra che “il rischio di mettere a morte un innocente non è un’ipotesi, ma una realtà documentata”.
I leader religiosi richiamano l’attenzione su un aspetto meno discusso: l’impatto morale e psicologico sugli operatori penitenziari incaricati di eseguire le condanne. “Le esecuzioni infliggono una ferita morale anche al personale delle carceri,” si legge nella lettera, “costringendo uomini e donne a partecipare a un atto che molti percepiscono come contrario alla propria coscienza.”
Inoltre, evidenziano come il denaro speso per il mantenimento del sistema della pena capitale distolga risorse da programmi di prevenzione del crimine, sostegno alle vittime e miglioramento della sicurezza pubblica.
Una mobilitazione senza precedenti
Tra i firmatari figurano oltre quaranta leader cattolici, venticinque ministri protestanti di chiese metodiste, battiste e luterane, pastori di chiese evangeliche e non denominazionali, due rappresentanti della comunità quacchera, un leader mennonita e diversi esponenti di organizzazioni interreligiose.
La varietà di appartenenze dimostra che il movimento contro la pena di morte in Florida non è confinato a un’area teologica o politica, ma abbraccia trasversalmente comunità diverse per storia e credo.
Demetrius Minor, predicatore della Tampa Life Church e membro dell’iniziativa Faith & Community del governatore DeSantis, ha voluto dare un segnale forte. Pur essendo sostenitore di molte politiche dell’attuale amministrazione, Minor ha dichiarato pubblicamente:
“La Florida non può dichiararsi uno Stato che valorizza la vita mentre continua a portare avanti le esecuzioni. Chiedo al governatore di onorare la vita sospendendo le esecuzioni.”
Le sue parole dimostrano che l’opposizione alla pena di morte può nascere anche all’interno di cerchie vicine al potere politico.
Reazioni politiche
Al momento, dall’ufficio del governatore non sono giunte risposte ufficiali alla lettera. DeSantis, in passato, ha difeso con forza la pena di morte, sostenendo che sia uno strumento necessario per i crimini più gravi.
Tuttavia, l’iniziativa dei leader religiosi potrebbe costringere l’amministrazione a confrontarsi con un’opposizione inedita: quella di figure moralmente autorevoli per una parte consistente dell’elettorato conservatore.
La Florida non è l’unico Stato a registrare un aumento delle esecuzioni. In diversi stati del sud degli Stati Uniti, i governi hanno accelerato i procedimenti, riducendo in alcuni casi i margini di appello e aumentando le modalità di esecuzione disponibili.
Per le organizzazioni abolizioniste, come Death Penalty Action e Floridians for Alternatives to the Death Penalty, il caso della Florida è emblematico: “Se uno Stato con il più alto numero di condannati innocenti liberati continua a mettere a morte persone con questo ritmo, significa che il sistema non ha imparato nulla dai propri errori,” ha dichiarato un portavoce.
Le ragioni della sospensione
Oltre alla questione morale, i leader religiosi vedono nella sospensione delle esecuzioni un’opportunità per avviare una riflessione pubblica più ampia. Tra le domande che pongono:
· La pena di morte riduce davvero il crimine?
· Esistono alternative più efficaci e meno costose?
· Qual è l’impatto reale sulle famiglie delle vittime?
· Quali garanzie si possono offrire contro gli errori giudiziari?
Secondo i firmatari, una pausa permetterebbe di affrontare tali questioni senza la pressione di mandati di esecuzione imminenti.
Un appello alla coscienza collettiva
Molti dei leader coinvolti hanno radicato la loro argomentazione nella teologia e nella morale religiosa. “Nessuna persona è oltre la redenzione,” afferma la lettera, “e la giustizia autentica deve unire responsabilità e compassione.”
In questo senso, la campagna non si limita a una battaglia politica, ma si presenta come un richiamo etico a tutta la cittadinanza.
È stato indetto un corteo l’8 luglio, un momento simbolico e mediatico importante, ma i promotori sono consapevoli che il cammino sarà lungo. Sono già in programma incontri con legislatori statali, conferenze nelle università e campagne social coordinate per mantenere alta l’attenzione sul tema.
Gli organizzatori sperano che, se anche il governatore non accoglierà la richiesta di sospensione, il dibattito possa generare un cambiamento graduale nell’opinione pubblica e, alla lunga, nelle leggi dello Stato.
Una Florida divisa
La questione della pena di morte continua a dividere profondamente l’elettorato della Florida. I sondaggi mostrano un’opinione pubblica quasi spaccata a metà, con una lieve maggioranza ancora favorevole alla pena capitale, soprattutto nei casi di omicidi particolarmente efferati.
Ma l’iniziativa dei leader religiosi dimostra che, anche in uno Stato storicamente favorevole alla pena di morte, esiste una fetta crescente di cittadini e figure di riferimento disposta a metterla in discussione.
Questa mobilitazione, che intreccia fede, etica e giustizia, apre uno spazio nuovo per il dialogo su un tema che tocca corde profonde della coscienza collettiva. Resta da vedere se il governatore DeSantis sarà disposto ad ascoltare o se la Florida continuerà sulla strada di un’applicazione rapida e frequente della pena capitale, con tutte le implicazioni morali e sociali che ne derivano.
2) DENTRO LA CAMERA DELLA MORTE: UN GIORNALISTA RACCONTA L’ULTIMA ORA DI RICHARD JORDAN
Dopo oltre 45 anni nel braccio della morte, il più anziano condannato del Mississippi è stato messo a morte il 25 giugno 2025.
Jackson, Mississippi – Il 25 giugno 2025, nella prigione statale del Mississippi, è stata eseguita la condanna a morte di Richard Jordan, 78 anni, il più anziano detenuto del braccio della morte nello Stato. Condannato per l’omicidio di Edwina Marter nel 1976, Jordan aveva trascorso quasi mezzo secolo in attesa dell’esecuzione, tra ricorsi, annullamenti e nuovi processi.
Un giornalista presente alla procedura ha raccontato i momenti finali con toni sobri e dettagli precisi. Alle 18:00, Jordan è stato condotto nella camera della morte e fissato al lettino dell’iniezione letale, indossando una camicia bianca e pantaloni arancioni. Lo sguardo, riferisce il reporter, era fermo e privo di esitazioni.
Prima che iniziasse l’iniezione, Jordan ha pronunciato le sue ultime parole: “Mi dispiace per il dolore che ho causato. Spero che la famiglia possa trovare pace.” Non ha menzionato il crimine né espresso rancore verso le autorità.
Il silenzio nella stanza era rotto solo dal ticchettio dell’orologio e dal suono degli strumenti medici. Alle 18:12, è stata somministrata la prima sostanza; in meno di due minuti, il respiro di Jordan si è affievolito fino a fermarsi. L’ora del decesso è stata dichiarata alle 18:17.
All’esterno della prigione, piccoli gruppi di manifestanti – sia abolizionisti sia sostenitori della pena di morte – esponevano cartelli e recitavano preghiere.
Per alcuni, l’esecuzione ha rappresentato la conclusione di un caso giudiziario tra i più lunghi del Mississippi; per altri, un richiamo a riflettere sul significato di giustizia dopo decenni di attesa.
3) IRAN, ESECUZIONI LAMPO DOPO IL CONFLITTO CON ISRAELE: TRE UOMINI MESSI A MORTE E OLTRE 700 ARRESTI PER PRESUNTI LEGAMI CON LO STATO EBRAICO
A poche settimane dalla fine delle ostilità, Teheran accelera la repressione interna: processi rapidi, confessioni forzate e accuse di spionaggio contro minoranze e attivisti.
Teheran – La fragile calma seguita alla fine della guerra-lampo tra Iran e Israele è stata subito incrinata da una nuova ondata repressiva senza precedenti. Nel giro di pochi giorni, le autorità iraniane hanno messo a morte tre uomini accusati di aver collaborato con Israele e arrestato più di 700 persone in tutto il Paese per presunti legami con lo Stato ebraico.
Le esecuzioni, condotte in due carceri di Teheran e Mashhad, sono state annunciate dai media di Stato come “misure necessarie per proteggere la sicurezza nazionale”. Ma per le organizzazioni per i diritti umani, si tratta di un segnale allarmante della volontà del governo di sfruttare il clima post-bellico per colpire oppositori politici, minoranze etniche e religiose, e persino semplici cittadini sospettati senza prove concrete.
Tre vite spezzate in tempi record
Secondo l’agenzia ufficiale IRNA, i tre giustiziati erano stati condannati per “spionaggio e collaborazione con il regime sionista”. Le identità complete non sono state diffuse, ma fonti indipendenti sostengono che almeno due di loro appartenessero alla minoranza araba ahwazi, già spesso nel mirino delle autorità per presunti legami con potenze straniere.
I processi si sarebbero svolti a porte chiuse, in tempi estremamente brevi, e con difese legali limitate. Amnesty International e Human Rights Watch hanno denunciato la mancanza di trasparenza e l’uso di confessioni estorte sotto tortura. “Non si può parlare di giustizia quando l’esito del processo è deciso in partenza,” ha dichiarato un portavoce di HRW.
Oltre 700 arresti in una settimana
Parallelamente alle esecuzioni, le forze di sicurezza iraniane hanno lanciato una vasta operazione in diverse province. Secondo fonti locali, gli arresti hanno riguardato attivisti politici, membri di ONG, giornalisti e appartenenti a minoranze religiose, tra cui baha’i e sunniti.
Le accuse ufficiali spaziano dalla “propaganda contro lo Stato” alla “collaborazione con entità ostili”. In molti casi, si tratta di imputazioni generiche che consentono alle autorità di detenere gli arrestati senza processo per periodi prolungati.
Un clima di paura e silenzio
La campagna repressiva ha creato un’atmosfera di paura diffusa. Familiari degli arrestati riferiscono di non avere notizie sui loro cari, di non sapere in quali carceri siano detenuti e di non avere accesso ad avvocati. “Non so se mio fratello sia vivo,” ha detto una donna di Ahvaz in una testimonianza raccolta da un’emittente persiana all’estero. “Ci hanno detto di non parlare con i media se vogliamo rivederlo.”
Molti temono che l’ondata di arresti sia solo l’inizio e che altri procedimenti sommari possano portare a nuove esecuzioni nel giro di poche settimane.
Repressione mirata alle minoranze
Osservatori indipendenti sottolineano che il governo iraniano sembra utilizzare la scusa della “minaccia israeliana” per giustificare azioni contro comunità già vulnerabili. Gli ahwazi, minoranza araba nel sud-ovest dell’Iran, subiscono da anni discriminazioni economiche e culturali; i baha’i,
principale minoranza religiosa non musulmana, sono perseguitati sistematicamente; anche i curdi sunniti sono spesso accusati di separatismo o spionaggio.
“È un copione che abbiamo già visto,” afferma un analista politico in esilio. “Ogni volta che il Paese attraversa una crisi esterna, il governo colpisce anche i nemici interni.”
Reazioni internazionali
La comunità internazionale ha reagito con preoccupazione. L’Unione Europea ha rilasciato una dichiarazione ufficiale in cui condanna le esecuzioni e chiede la sospensione immediata della pena di morte in Iran, definendola “un atto irreversibile che non può essere giustificato neppure dalle circostanze eccezionali”.
Negli Stati Uniti, il Dipartimento di Stato ha accusato Teheran di “utilizzare il pretesto della sicurezza nazionale per sopprimere le libertà fondamentali e intimidire la popolazione”.
Pena di morte in Iran: numeri in crescita
L’Iran è tra i Paesi con il più alto numero di esecuzioni al mondo. Secondo dati aggiornati al primo semestre 2025, più di 400 persone sono state messe a morte dall’inizio dell’anno, con un ritmo che appare in accelerazione. Le condanne riguardano una vasta gamma di reati, dai crimini legati alla droga all’omicidio, fino ad accuse politiche come “guerra contro Dio” (moharebeh).
L’uso della pena capitale per reati politici o vagamente definiti è una delle critiche più frequenti da parte di gruppi per i diritti umani. “Il sistema giudiziario iraniano manca delle garanzie minime di un processo equo,” afferma Amnesty International, “e questo rende ogni esecuzione un atto arbitrario.”
Propaganda e controllo interno
I media di Stato iraniani hanno presentato le esecuzioni come un “trionfo della giustizia” e un messaggio chiaro a Israele e ai suoi presunti agenti interni. Le trasmissioni televisive hanno mostrato immagini dei condannati con occhi bendati, scortati da guardie armate, accompagnate da commenti patriottici e musiche solenni.
Questo tipo di narrazione mira a rafforzare il consenso interno, alimentando il senso di minaccia esterna e giustificando misure straordinarie in nome della sopravvivenza dello Stato.
Silenzi e resistenze sotterranee
Nonostante la paura diffusa, piccole forme di resistenza continuano a emergere. Attivisti in esilio hanno diffuso online i nomi e le storie di alcuni arrestati, mentre reti clandestine all’interno del Paese cercano di documentare abusi e trasmettere informazioni oltre i confini.
Ma l’accesso a internet rimane fortemente controllato: nelle ultime settimane, sono stati registrati rallentamenti e blackout mirati nelle province a maggioranza araba e curda, proprio durante le operazioni di arresto.
Il rischio di un’escalation
Gli esperti avvertono che questa fase repressiva potrebbe innescare nuove tensioni sociali, soprattutto nelle regioni già instabili. “Più il governo reprime, più aumenta il rischio di radicalizzazione e di proteste spontanee,” spiega un ricercatore specializzato in Medio Oriente. “L’Iran sta giocando una partita rischiosa: la repressione può garantire un controllo temporaneo, ma erode ulteriormente la legittimità interna.”
Conclusione
A poche settimane dalla fine della guerra con Israele, l’Iran sta vivendo un’altra battaglia: quella contro la propria popolazione. Le tre esecuzioni e le centinaia di arresti segnalano non solo la volontà di punire duramente chiunque sia percepito come “nemico interno”, ma anche l’uso strategico della pena di morte come strumento politico e di propaganda.
La comunità internazionale osserva con attenzione, ma l’efficacia delle sue pressioni resta incerta. All’interno del Paese, il silenzio imposto dalla paura lascia spazio solo a sussurri di protesta, soffocati da un apparato di sicurezza che appare più determinato che mai a mantenere il controllo.
4) IRAN, NUOVA LEGGE ESPANDE LA PENA DI MORTE: PROTESTE IN CARCERE E CONDANNE INTERNAZIONALI
Da giugno 2025, collaborare con Stati considerati ostili – come USA e Israele – può costare la vita. La riforma scatena una ondata di proteste in 47 carceri iraniane e preoccupa attivisti e diplomatici.
Teheran – Il Parlamento iraniano ha approvato a giugno una legge che segna una svolta drammatica nella politica penale del Paese: la pena di morte sarà applicabile a chiunque sia ritenuto colpevole di “collaborazione con Stati ostili”, in particolare Stati Uniti e Israele. La norma, entrata in vigore subito dopo la firma della Guida Suprema, amplia l’elenco dei reati punibili con l’esecuzione, già tra i più estesi al mondo.
Secondo il testo, la definizione di “collaborazione” è ampia e vaga, includendo attività come fornire informazioni, assistere cittadini stranieri o “propagare idee contrarie alla sicurezza nazionale”. Gli attivisti temono che questo possa tradursi in una nuova arma giudiziaria per colpire dissidenti politici, giornalisti, minoranze religiose e chiunque mantenga contatti con l’estero.
L’Iran è uno dei Paesi con il più alto tasso di esecuzioni pro capite. Con la nuova legge, il numero delle esecuzioni rischia di crescere ulteriormente, colpendo un ventaglio ancora più ampio di comportamenti. Organizzazioni come Amnesty International denunciano che la riforma viola il diritto internazionale, che limita la pena capitale ai “crimini più gravi” – definizione che non comprende accuse politiche o reati di opinione.
La scintilla nelle carceri
L’annuncio della riforma ha avuto un effetto immediato all’interno del sistema penitenziario iraniano. Già il 1° luglio, in almeno 47 carceri del Paese sono scoppiate proteste coordinate, guidate da prigionieri politici e detenuti comuni.
Secondo fonti interne, i detenuti hanno rifiutato il cibo, scandito slogan contro la pena di morte e organizzato sit-in nei cortili delle prigioni. In alcune strutture, le autorità avrebbero risposto con trasferimenti punitivi, isolamento e percosse.
Un detenuto del carcere di Evin, a Teheran, ha fatto sapere attraverso una lettera trapelata all’estero: “Questa legge è una condanna preventiva per chiunque il regime voglia eliminare. Non resteremo in silenzio mentre ci tolgono anche l’ultima speranza di giustizia.”
Le autorità iraniane hanno minimizzato la portata delle manifestazioni, parlando di “piccoli disordini interni rapidamente controllati”. Tuttavia, testimonianze raccolte da ONG per i diritti umani raccontano un’altra storia: perquisizioni nelle celle, confisca di lettere e libri, e visite familiari sospese in diverse carceri.
Secondo Iran Human Rights, in almeno cinque istituti penitenziari i prigionieri ritenuti leader delle proteste sono stati trasferiti in luoghi sconosciuti, sollevando timori per la loro incolumità.
Obiettivo: consolidare il potere
Per analisti e osservatori internazionali, la nuova legge e la dura risposta alle proteste carcerarie rientrano in una strategia più ampia del governo iraniano: rafforzare il controllo interno in un momento di crescente pressione esterna e malcontento popolare.
Dopo le recenti tensioni militari con Israele e il deterioramento delle relazioni con gli Stati Uniti, le autorità di Teheran sembrano intenzionate a inviare un messaggio chiaro: qualsiasi legame, reale o percepito, con nemici esterni sarà punito nel modo più severo possibile.
Preoccupazioni internazionali
Le reazioni non si sono fatte attendere. L’Unione Europea ha espresso “profonda preoccupazione” per l’approvazione della legge e per le notizie sulle proteste represse nelle carceri. “Chiediamo all’Iran di rispettare i suoi obblighi internazionali in materia di diritti umani, incluso il diritto a un processo equo e la limitazione della pena di morte ai crimini più gravi,” ha dichiarato un portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna.
Anche le Nazioni Unite hanno condannato la riforma, con l’Alto Commissario per i diritti umani che ha definito la legge “un passo indietro che rischia di portare a esecuzioni arbitrarie su larga scala”.
Il rischio per le minoranze
Tra le comunità più esposte al rischio di nuove condanne capitali ci sono i curdi, i baha’i, i sunniti e la minoranza araba ahwazi, spesso accusati di separatismo o spionaggio. Per molti di loro, anche semplici contatti con organizzazioni internazionali o media stranieri potrebbero essere interpretati come “collaborazione con Stati ostili”. Un avvocato per i diritti umani in esilio ha spiegato: “La vaghezza della legge è la sua arma più potente. Permette di accusare chiunque senza bisogno di prove concrete.”
Una sfida per la società civile
Nonostante la repressione, gruppi di attivisti iraniani, sia all’interno che all’estero, stanno cercando di coordinare campagne di sensibilizzazione. Hashtag contro la pena di morte e in solidarietà con i prigionieri in protesta sono comparsi sui social, anche se l’accesso a internet in Iran rimane pesantemente monitorato e soggetto a blackout mirati.
Le famiglie dei detenuti, pur sotto minaccia, hanno iniziato a rilasciare dichiarazioni anonime a media indipendenti. Una madre ha raccontato: “Mio figlio era dentro per aver partecipato a una manifestazione pacifica. Ora temo che possa essere messo a morte con questa nuova legge.”
Conclusione
L’adozione della legge che estende la pena di morte e le proteste che ne sono seguite mostrano un Iran più che mai determinato a usare lo strumento capitale non solo come punizione, ma come mezzo di controllo politico.
Per la comunità internazionale, la sfida sarà tradurre la condanna in azioni concrete che possano realmente incidere sulle scelte di Teheran. Per i detenuti e i loro familiari, invece, la battaglia è quotidiana e riguarda la sopravvivenza stessa.
Se la repressione delle proteste in carcere e l’applicazione della nuova legge procederanno di pari passo, l’Iran rischia di entrare in una nuova fase di violazioni sistematiche dei diritti umani, con conseguenze difficilmente reversibili.
5) VIETNAM, SVOLTA STORICA: ABOLITA LA PENA DI MORTE PER OTTO REATI
La riforma riduce l’elenco dei crimini capitali, commutando in ergastolo centinaia di condanne e segnando un passo importante verso la limitazione della pena capitale.
Hanoi – Il Vietnam ha compiuto un passo significativo nella direzione della riforma penale: l’Assemblea nazionale ha approvato a giugno 2025 un emendamento al codice penale che abolisce la pena di morte per otto reati, tra cui traffico di droga, corruzione, spionaggio e vandalismo su larga scala.
Secondo il Ministero della Giustizia, la riforma comporterà la commutazione in ergastolo per centinaia di detenuti attualmente nel braccio della morte, con effetto immediato. L’obiettivo dichiarato è “umanizzare il sistema giudiziario” e “armonizzarsi con gli standard internazionali sui diritti umani”.
Oltre ai già citati traffico di droga e corruzione, l’abolizione della pena capitale riguarda reati come il vandalismo contro infrastrutture strategiche, alcuni casi di spionaggio, saccheggio in tempo di guerra e frodi economiche di entità eccezionale. La pena di morte rimane in vigore per omicidi aggravati, crimini di guerra e alcuni reati contro la sicurezza nazionale.
Il Vietnam è stato a lungo criticato da organizzazioni come Amnesty International e Human Rights Watch per l’uso della pena capitale, in particolare per i reati legati alla droga, che in passato rappresentavano una quota significativa delle esecuzioni.
Impatto immediato e reazioni
La riforma è stata accolta positivamente sia a livello nazionale che internazionale. Le Nazioni Unite hanno definito la decisione “un progresso concreto verso la riduzione dell’uso della pena di morte nel Sud-Est asiatico”, auspicando ulteriori passi verso la sua abolizione completa.
In patria, gruppi per i diritti umani hanno elogiato la scelta, ma hanno sottolineato che “restano preoccupazioni per l’uso della pena capitale in procedimenti giudiziari che non garantiscono pienamente il diritto a un processo equo”.
Un segnale regionale
L’iniziativa vietnamita si inserisce in un contesto più ampio di cambiamento nella regione: negli ultimi anni, anche Malesia e Thailandia hanno ridotto l’applicazione della pena di morte, mentre Singapore continua a mantenerla, soprattutto per i reati di droga.
Per molti osservatori, la mossa di Hanoi rappresenta un segnale politico di apertura e modernizzazione, destinato a influenzare il dibattito sulla pena capitale in altri Paesi vicini.
6) PAKISTAN, EGITTO E COREA DEL NORD: CONDANNE CAPITALI CHE SOLLEVANO ALLARME INTERNAZIONALE
Dal rifiuto di clemenza a un malato mentale in Pakistan alle esecuzioni pubbliche in Corea del Nord, passando per un processo contestato in Egitto: un mese nero per i diritti umani.
Islamabad – Il caso Imdad Ali
In Pakistan, la Corte Suprema ha respinto l’ultimo ricorso di clemenza per Imdad Ali, un uomo condannato a morte nel 2002 per omicidio. Il caso ha suscitato particolare indignazione perché Ali soffre di schizofrenia paranoide, condizione confermata da più perizie mediche nel corso degli anni.
Amnesty International denuncia che l’esecuzione di persone con gravi malattie mentali viola il diritto internazionale e la Convenzione sui diritti delle persone con disabilità, ratificata dal Pakistan. Nonostante gli appelli di ONG e diplomatici, le autorità non hanno annunciato alcuna sospensione della procedura, alimentando critiche sulla scarsa tutela delle persone vulnerabili nel sistema penale pakistano.
Il Cairo – Otto condanne a morte in un processo controverso
In Egitto, un tribunale ha emesso otto condanne a morte per persone accusate di aver preso parte ad attacchi contro le forze di sicurezza. Secondo le autorità, gli imputati erano membri di un gruppo armato responsabile di attentati contro postazioni militari e di polizia.
Tuttavia, organizzazioni indipendenti parlano di “processi iniqui” e denunciano l’uso di confessioni ottenute sotto coercizione, oltre alla mancanza di accesso a un’adeguata difesa. Negli ultimi anni, l’Egitto ha incrementato l’uso della pena di morte in casi di sicurezza nazionale, spesso con procedimenti di massa e scarsa trasparenza.
Pyongyang – Esecuzioni pubbliche per traffico di droga
In Corea del Nord, fonti locali riportano che le autorità hanno messo a morte in pubblico diverse persone accusate di traffico di stupefacenti. Gli episodi, avvenuti in aree rurali, sarebbero stati organizzati come monito per scoraggiare attività illegali.
Il regime nordcoreano applica la pena capitale per un’ampia gamma di reati, inclusi crimini economici, atti di disobbedienza politica e offese contro il leader supremo. Le esecuzioni pubbliche, spesso alla presenza di centinaia di cittadini, sono denunciate dalle ONG come “strumenti di terrore di Stato” volti a rafforzare il controllo sociale.
Un filo rosso: mancanza di garanzie e uso politico della pena di morte Nonostante i tre casi provengano da contesti diversi, hanno elementi comuni: processi rapidi e poco trasparenti, applicazione della pena di morte per reati non sempre rientranti nei “più gravi” secondo il diritto internazionale, e utilizzo della condanna capitale come strumento politico o deterrente sociale.
Le Nazioni Unite hanno espresso “profonda preoccupazione” e rinnovato l’appello a una moratoria globale delle esecuzioni, ricordando che nessuno Stato dovrebbe mettere a morte persone malate di mente o ricorrere alla pena capitale in violazione delle garanzie di un processo equo.
Questo numero è aggiornato con le informazioni disponibili fino al 31 luglio 2025