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FOGLIO  DI COLLEGAMENTO  INTERNO

 

DEL COMITATO PAUL ROUGEAU

 

Numero 189  -   Aprile 2011

Khalid Shaikh Mohammed

SOMMARIO:

 

1) La vendetta per l’11 settembre, a Guantanamo

2) Una vittoria legale per Mumia Abu-Jamal                   

3) Rapporto inconcludente, e forse finale, sul caso Willingham               

4) Si passa al Pentobarbitale, con qualche difficoltà                                 

5) Minacciata la pena di morte per Mubarak e un suo ex ministro         

6) La pena di morte non aiuta i parenti delle vittime del crimine 

7) Meno esecuzioni: non è detto sia una vittoria per i diritti umani         

8) Marie Deans, “stupida coraggiosa” e intrepida abolizionista              

9) Anthony Graves sta perdendo la pazienza                    

10) Le carceri che stritolano le vite                        

11) Notiziario: California, Iran, Italia, Usa           

 

 

1) LA VENDETTA PER L’11 SETTEMBRE, A GUANTANAMO

 

Il processo capitale contro i cinque prigionieri di più ‘alto valore’ catturati nel corso della ‘guerra al terrore’ si svolgerà nella base della Marina militare USA di Guantanamo Bay nell’isola di Cuba. Il presidente Barack Obama conferma così il luogo scelto dal predecessore George W. Bush per vendicare gli attacchi apocalittici portati al cuore degli Stati Uniti da al-Qaeda l’11 settembre 2001.

 

Eric Holder, Attorney General (ministro della giustizia) degli Stati Uniti ha annunciato che saranno processati da una Commissione Militare di Guantanamo sia Khalid Shaikh Mohammed, sospetto pianificatore degli attacchi dell’11 settembre 2001, sia altri quattro detenuti di “alto valore”, ex militanti di al-Qaeda: Walid bin Attash, Ramzi Binalshibh, Ali Abd al-Aziz Ali e Mustapha Ahmed al-Hawsawi (1).

Si tratterà per tutti e cinque, come è stato detto e ripetuto numerose volte, sia sotto l’amministrazione Bush che sotto l’amministrazione  Obama, di un processo capitale, anche se non è ancora chiaro quale metodo verrà scelto per eseguire le sentenze di morte emesse dalle Commissioni Militari (2).

L’annuncio, fatto da Holder il 4 aprile in concomitanza del lancio della campagna di Barack Obama per la rielezione alla presidenza  USA,  conferma la permanenza del campo di detenzione nell’isola di Cuba, anche se il presidente Obama, subito dopo la sua elezione, ordinò di chiudere entro un anno il simbolo disonorevole della ‘guerra al terrore’ scatenata da George W. Bush. L’annuncio altresì cancella definitivamente l’opzione di processare i detenuti di “alto valore” nelle normali corti di giustizia federali, opzione clamorosamente annunciata da Holder a novembre (v. n. 174) ma contrastata dai conservatori e stroncata dal Congresso.

Si ritorna pertanto alla situazione del 2008 quando, sotto la presidenza Bush, l’accusa iniziò il processo contro gli stessi cinque prigionieri presso le Commissioni Militari di Guantanamo (v. nn. 160, 162 Noti­ziario).

Sicuramente il cambio di strategia del governo Obama tiene conto non solo alle richieste dei conservatori ma anche del fatto che alla maggioranza del popolo americano non importa nulla se le Commissioni Militari istituite da George W. Bush non danno agli imputati le stesse garanzie delle normali corti di giustizia che giudicano i cittadini americani.

In questa occasione, Karen Greenberg, che dirige il Centro su Legge e Sicurezza presso l’Università di New York e segue i processi dei sospetti di terrorismo, ha ribadito che le Commissioni Militari costituiscono un meccanismo non collaudato, sconosciuto e segreto. Secondo la Greenberg aver fiducia in un tale sistema è come “mettere la testa sotto la sabbia”.

Anche se sono state emendate sotto l’amministrazione Obama, le Commissioni Militari conservano le caratteristiche di una giustizia sommaria che hanno indotto i critici a chiamarle “kangaroo courts”, corti di canguri, (v. ad es. nn. 91, 120, 125, 131, 139, 140, 142, 148, 166).

All’inizio di aprile, dopo l’annuncio che il processo si sarebbe tenuto a Guantanamo, sono state rivelate le imputazioni contro i cinque sospetti terroristi. Si tratta di un insieme ampio e dettagliato di accuse, fin troppo coerente ed esauriente.

La costruzione di un impianto accusatorio così perfetto  – indipendentemente dal modo in cui si intende provarlo al processo – lascia interdetti. Nessuno nega che gran parte delle informazione necessarie a costruire le accuse è stata ottenuta con la tortura o comunque con pressioni interminabili e insostenibili esercitate su persone fisicamente e psichicamente alla mercé degli inquisitori, senza uno straccio di difesa legale. Non è escluso che – come avviene in casi del genere - i prigionieri siano stati indotti a fornire delle informazioni suggerite dai medesimi inquisitori.

Ampie riserve sul processo rimarranno anche se le trascrizioni di alcune dichiarazioni degli imputati non saranno presentate come prove d’accusa perché ottenute nel corso di sedute di tortura (si sa ad esempio che le confessioni rese da Khalid Sheikh Mohammed quando venne sottoposto per ben 183 volte alla tortura del ‘sottomarino’ non verranno usate al processo in ossequio alle modifiche introdotte dall’amministrazione Obama nel funzionamento delle Commissioni Militari).

Tra l’altro occorrerebbe capire perché Mohammed confessò nel 2007 - nel corso di uno dei colloqui di routine che vengono fatti a Guantanamo per verificare la sussistenza dello stato di “nemico combattente” – di essere l’autore della cospirazione dell’11 settembre 2001 e di altri piani terroristici e chiese di essere messo a morte. E perché tutti e cinque gli accusati scrissero a dicembre 2008 al giudice militare preannunciando che si sarebbero dichiarati colpevoli al processo.

Riserve rimarranno anche se, a quanto sembra, l’amministrazione americana sarà in grado di produrre un numero impressionante di dati a conferma delle accuse. Dati che riguardano relazioni, comunicazioni e spostamenti degli accusati a partire dal 1999 - anno in cui Khalid Sheikh Mohammed avrebbe proposto ad Osama Bin Laden di usare degli aerei come armi da scagliare contro obiettivi statunitensi - fino all’apocalisse dell’11 settembre 2001. Si tratterebbe di transazioni bancarie, richieste di visti, registrazioni di voli e tabulati telefonici relativi a decine di telefonate sospette.

Vediamo per sommi capi quali sono le accuse.

Il kuwaitiano Khalid Sheikh Mohammed (chiamato “KSM” dagli accusatori) ha architettato, diretto e controllato fino all’ultimo tutta l’operazione.

Il suo piano entrò nella fase operativa già prima del 2000.

“All’incirca dal dicembre 1999, fino all’incirca a giugno del 2000, al-Qaeda ha selezionato gli operativi per il pilotaggio degli aerei da dirottare e mandato gli operativi negli Stati Uniti per conseguire un addestramento al volo e portare avanti in altri modi il complotto” dice l’atto di accusa.

Il saudita Walid bin Attash, poco più che ventenne, viaggiò in aereo da Bangkok a Hong Kong in prima classe con un coltello da tasca “e si avvicinò alla cabina di pilotaggio per saggiare le misure di sicurezza”. Poi fece altri viaggi in aereo sempre per verificare la possibilità di portare il coltello senza essere scoperto.

Nel frattempo lo yemenita Ramzi Binalshibh fece amicizia ad Amburgo col futuro dirottatore Mohamed Atta, tentò quattro volte di entrare negli USA nel 2000 ma non riuscì ad ottenere il visto. Poi su richiesta di KSM divenne l’intermediario tra quest’ultimo ed i futuri dirottatori.

Ali Abd al-Aziz Ali, nipote di KSM, reperì a Dubai del software per simulatori di volo da fornire ai dirottatori e cominciò a trasferire denaro su conti statunitensi.

Quanto al saudita Mustapha Ahmed al-Hawsawi, è accusato di essere stato il principale finanziatore degli attacchi contro gli USA. Suoi denari sarebbero arrivati anche a Zacarias Moussaoui, il mancato pilota suicida che fu arrestato ad agosto del 2001 e condannato all’ergastolo il 3 maggio 2006 (v. n. 139).

Tra il 9 e il 16 luglio del 2001 Ramzi Binalshibh si incontrò col pilota Mohamed Atta in Spagna discutendo dei potenziali obiettivi degli attacchi.

Alla fine di agosto del 2001 KSM comunicò a bin Laden la data degli attacchi. Tra il 4 e il 10 settembre  i due si trasferirono dagli Emirati Arabi al Pakistan.

Walid bin Attash era insieme a bin Laden nel giorno degli attacchi.

Ricordiamo che tutti e cinque gli imputati furono arrestati dai Pakistani in Pakistan tra il 2002 e il 2003. Dopo di che sparirono inghiottiti dalle prigioni segrete della CIA per riapparire a Guantanamo a settembre del 2006  insieme ad altri 8 detenuti di ‘alto valore’.

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(1) Ai cinque si sarebbe dovuto aggiungere il saudita Mohammed Qahtani, il cosiddetto 20-esimo dirottatore che non era riuscito ad aggiungersi ai 19 dirottatori suicidi. Non si capisce perché ciò non sia avvenuto. Si sospetta che le prove contro di lui siano costituite solo da dichiarazioni rilasciate sotto tortura (v. n. 160) anche se l’amministrazione sostiene che le informazioni da lui fornite  “sono vere” perché “corroborate da altre fonti.”

(2) Non si tratterà comunque del primo processo capitale a Guantanamo, i cinque saranno infatti preceduti da Abd al-Rahim al-Nashiri (v. Notiziario).

 

 

2) UNA VITTORIA LEGALE PER MUMIA ABU-JAMAL

 

Lo stretto margine lascito dalle corti alla difesa di Mumia Abu-Jamal, il giornalista e attivista nero della Pennsylvania accusato dell’omicidio di un poliziotto, si dimostra praticabile: la Corte federale d’Appello del Terzo Circuito ha confermato l’annullamento della fase di inflizione della pena del processo capitale a suo carico tenutosi nel 1982. Se non verrà riprocessato entro 180 giorni, Mumia avrà salva la vita, anche se resterà condannato all’ergastolo senza possibilità di liberazione.

 

Il nero Wesley Cook, ribattezzatosi Mumia Abu-Jamal, brillante giornalista ed attivista per i diritti dei Neri, fu condannato a morte in Pennsylvania quasi trent’anni fa per l’omicidio del poliziotto 25-enne Daniel Faulkner, crimine di cui si è sempre dichiarato innocente. Egli è riuscito a creare nel corso degli anni un grande interesse attorno al suo caso giudiziario guadagnandosi schiere di sostenitori nel mondo e soprattutto in Francia. Ha sempre voluto mantenere un ruolo attivo nelle propria difesa legale entrando spesso in conflitto con gli ottimi avvocati che si sono prestati a difenderlo. Anche se le sue opzioni difensive si sono molto ridotte nel corso degli anni per le decisioni delle corti, gli rimangono fondate speranze, se non di uscire di prigione, almeno di rimanere in vita.

Il 26 aprile si è verificato un evento positivo nell’interminabile iter giudiziario di Abu-Jamal. Un  panel di tre giudici della Corte federale d’Appello del Terzo Circuito, in una sentenza di 32 pagine, ha affermato per la seconda volta la correttezza dell’annullamento - da parte della competente Corte distrettuale - della la fase di inflizione della pena con cui si concluse il processo contro Mumia nel 1982.

Secondo la Corte d’Appello, la giurisprudenza consolidata prevede che nei casi capitali le circostanze attenuanti non debbano essere riconosciute all’unanimità della giuria per essere prese in considerazione da ciascun giurato al momento di decidere tra la massima pena detentiva e la pena di morte. Non così le circostanze aggravanti, che richiedono l’unanimità. Nel processo contro Mumia Abu-Jamal del 1982 le istruzioni date dal giudice alla giuria potevano far credere che fosse necessaria l’unanimità anche per le attenuanti.

“Per dette ragioni – ha sentenziato la Corte d’Appello - confermiamo l’accoglimento [nel 2001] da parte della Corte Distrettuale del ricorso in merito alle istruzioni relative alle circostanze attenuanti. […] La Pennsylvania può condurre entro 180 giorni una nuova udienza per l’inflizione della pena tenendo conto di questa opinione oppure […] condannare [Mumia] all’ergastolo.”

Degli argomenti avanzati dalla difesa di Mumia Abu-Jamal, fino ad ora soltanto l’eccezione riguardo alle istruzioni date alla giuria ha avuto successo: nel 2001 presso la competente Corte distrettuale, nel 2008 presso la Corte d’Appello del Terzo Circuito (e di nuovo ora dopo che la Corte Suprema degli Stati Uniti nel gennaio 2009 aveva ordinato alla Corte d’Appello di riconsiderare la propria sentenza del 2008). Non si è riusciti a far valere l’obiezione sulla composizione razzista della giuria in cui sedettero solo due Neri accanto a dieci Bianchi (v. n. 158).

L’accusatore Seth Williams ha ventilato un suo ricorso alla Corte Suprema contro la decisione della Corte d’Appello del Terzo Circuito.  È dubbio però che un tale ricorso possa essere preso in considerazione. Pertanto è probabile che si profili per Mumia Abu-Jamal un nuovo processo (limitato alla fase di inflizione della pena) o – anche in considerazione dei tanti anni trascorsi dai fatti – semplicemente una sua condanna al carcere a vita.

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(*) Ricordiamo che, negli USA, ciascuna corte federale d’appello ha giurisdizione su un insieme di stati detto ‘circuito’. Vi sono in tutto 13 corti federali d’appello. La corte federale d’appello che ha competenza sulla Pennsylvania, è la corte del Terzo Circuito. Quella che riguarda il Texas è la corte del Quinto Circuito...

 

 

3) RAPPORTO INCONCLUDENTE, E FORSE FINALE, SUL CASO WILLINGHAM

 

E’ abbastanza probabile che l’establishment conservatore del Texas sia infine riuscito a neutralizzare l’azione della Commissione per le Scienze Forensi che, dal 2006, è impegnata a discutere sulla validità scientifica del prove con cui fu condannato a morte nel 1992  Cameron Todd Willingham, accusato di aver dato fuoco alla propria abitazione al fine di uccidere le sue tre figliolette.

 

Ci siamo occupati ripetutamente e a fondo del caso di Cameron Todd Willingham, accusato di aver dato fuoco alla propria casa per uccidere le sue tre figliolette, che fu ‘giustiziato’ in Texas nel 2004 quando erano già sorti seri dubbi sulla validità delle prove usate contro di lui per farlo condannare a morte (1).

La Commissione per le Scienze Forensi del Texas, interpellata fin dal 2006, doveva esprimersi sulla correttezza della perizia tecnica effettuata dagli investigatori che ebbero un ruolo determinante nel far condannare Willingham alla pena capitale nel 1992, ma, di rinvio in rinvio, è riuscita ad eludere fino ad ora, e forse definitivamente, il suo compito.

Il 14 aprile la Commissione ha reso nota una deludente  “bozza di rapporto” sul lavoro svolto. Si tratta di un fascicolo quasi del tutto inutile, definito dal quotidiano Dallas Morning News (2) “una miscellanea di raccomandazioni, alcune importanti, altre banali, ed un chiaro esempio di lavoro incompiuto.”

E tale relazione potrebbe diventare la parola finale della Commissione nel momento in cui Greg Abbott,  Attorney General (ministro della giustizia) del Texas, si deciderà a dire se la Commissione ha o meno giurisdizione sul caso Willingham, un caso che si è aperto prima della sua costituzione, avvenuta nel 2005. Un parere in merito è stato chiesto ad Abbott nel gennaio scorso dalla Commissione che si è tardivamente interrogata sui propri poteri (v. n. 187).

Non ci sarebbe da meravigliarsi se l’Attorney General, ben incardinato nell’establishment del Texas, bloccasse la Commissione per favorire i vigili del fuoco che eseguirono a suo tempo la perizia a scapito di Willingham e il governatore che negò la grazia al condannato.

Per ora il rapporto elenca soltanto agli standard da seguire nelle investigazioni sugli incendi, standard raccolti e compilati dalla Commissione negli ultimi due anni. Il rapporto evita accuratamente di esprimere opinioni sul caso Willigham (anche se leggendolo si capisce che gli investigatori nel suo caso si basarono su criteri soggettivi, non scientifici, via via sempre più squalificati dal progresso delle scienze forensi).

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(1) V. ad es. nn. 124, 166, 171, 172, 173, 179, 182, 184, 187

(2) In un editoriale del giorno 21.

 

 

4) SI PASSA AL PENTOBARBITALE, CON QUALCHE DIFFICOLTÀ

 

Sembra ormai chiaro che i problemi causati negli USA agli stati forcaioli dalla penuria di Pentotal, una delle tre sostanze tradizionalmente usate per le iniezioni letali, saranno superati sostituendo progressivamente al Pentotal il Pentobarbitale, un farmaco con analoghi effetti anestetici ma assai più facilmente reperibile. Tuttavia l’avvicendamento dei farmaci si rivela più complicato di quanto possa sembrare a prima vista e il ritmo delle esecuzioni capitali ne risulta alquanto rallentato.

 

Sono meno di 20 gli stati nordamericani che utilizzano effettivamente la pena di morte, nel senso che hanno compiuto esecuzioni capitali negli ultimi 3 anni (1) o che hanno programmato esecuzioni nel 2011(2). Quasi tutti questi stati si sono trovati in difficoltà a causa della penuria di Pentotal, l’anestetico ultra rapido usato tradizionalmente per le iniezioni letali. Terminata la produzione di Pentotal negli USA nella primavera del 2010, gli stati hanno tentato con sempre maggiori difficoltà di rifornirsi prima all’interno e poi all’estero, spesso in maniera clandestina ed irregolare, incontrando alla fine il rifiuto delle ditte farmaceutiche e dei paesi esteri di mettere a disposizione il farmaco per le esecuzioni capitali  (v. nn. 183, Notiziario, 184, 185,186, 187, 188).

Da notare infine anche l’intervento della DEA - ente federale che controlla l’uso delle droghe e dei farmaci - che a marzo ha sequestrato il Pentotal in Georgia, e in aprile anche in Alabama, Kentucky e Tennessee, nell’intento di verificare la qualità e la correttezza dell’acquisizione dell’anestetico.

Per uscire dall’empasse, una decina di stati che usano la pena di morte hanno sostituito o prospettato di sostituire  il Pentotal con il Pentobarbitale, un anestetico ultra rapido di più facile reperimento, usato anche per l’eutanasia degli esseri umani o degli animali domestici (3).

La sostituzione a sua volta comporta delle difficoltà sia per i ricorsi dei condannati a morte (che contestano l’utilizzo di una sostanza non prevista nei protocolli esistenti o di cui non si conosce esaurientemente l’azione nelle iniezioni letali), sia per il rifiuto della casa produttrice del Pentobarbitale, la Lundbeck Inc., con sede in Danimarca, di vendere Pentobarbitale da usare per le esecuzioni.

Dato però che l’uso del Pentobarbitale – a differenza del Pentotal – è oggi molto diffuso,  sarà praticamente impossibile  per la Lundbeck Inc. evitare che il farmaco, di rivenditore in rivenditore, finisca in possesso degli stati forcaioli. Al limite, la Lundbeck potrà scrivere sulle confezioni di 50 milioni di dosi di Pentobarbitale vendute ogni anno: “vietato l’utilizzo per le iniezioni letali.”

Continua comunque, nelle more dell’avvicendamento dei farmaci, la leggera diminuzione del ritmo delle esecuzioni già in atto dallo scorso anno negli Usa.

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(1) Alabama, Arizona, Florida, Georgia, Indiana, Louisiana, Mississippi, Missouri, Ohio, Oklahoma, South Carolina, Tennessee, Texas, Utah, Virginia, Washington.

(2) Alabama, Arizona, Mississippi, Nebraska, Ohio, South Carolina, Tennessee, Texas.

(3) Tra di essi: Ohio, Oklahoma, Texas, Alabama, Arizona, Georgia, Louisiana, Mississippi, Missouri.

 

 

5) MINACCIATA LA PENA DI MORTE PER MUBARAK E UN SUO EX MINISTRO

 

Anche in ossequio alle richieste delle folle, il regime militare insediatosi in Egitto l’11 febbraio, ha messo in stato d’arresto l’ex presidente Hosni Mubarak, due sui figli ed altri esponenti del passato regime. Per Mubarak e per l’ex Ministro degli Interni Habib al-Adly, si prospetta la pena di morte.

 

Ai rilevanti motivi di preoccupazione riguardo al rispetto dei diritti umani da parte del regime militare insediatosi in Egitto (v. n. 187) si aggiunge la notizia della messa sotto accusa per reati capitali dell’ex presidente Hosni Mubarak e dell’ex ministro degli interni Habib al-Adly.

Mubarak, presidente della Repubblica araba egiziana per 30 anni, ha lasciato il suo incarico l’11 febbraio in seguito alle massicce dimostrazioni di piazza a lui ostili. Secondo i dati ufficiali, durante i 18 giorni della rivoluzione si sono contati 846 morti e migliaia di feriti. Le vittime sono state causate soprattutto dai tentativi di reprimere con le armi da fuoco le manifestazioni, da parte della polizia, delle forze speciali e, in misura minore, dell’esercito.

Rifiutando gli inviti a lasciare il paese e proposte di ospitalità all’estero, Mubarak si è rifugiato in una sua residenza di Sharm El-Sheikh, la località turistica sul Mar Rosso. Ma il 13 aprile, in seguito a nuovi aspri moti di piazza contro il regime militare che non lo perseguiva, è stato posto in stato di detenzione per 15 giorni ed interrogato dall’Accusatore Generale Abdel-Meguid Mahmoud (che Mubarak stesso aveva nominato prima di lasciare il potere).

Colto da disturbi cardiaci, Hosni Mubarak è stato ricoverato nell’ospedale internazionale di Sharm dove l’interrogatorio è proseguito. Nello stesso momento i due figli di Mubarak, colti dalla disperazione, venivano arrestati e rinchiusi nella prigione di Tora al Cairo, prigione in cui si trovano anche numerosi altri esponenti del deposto regime.

Il 23 aprile si è saputo che la detenzione dell’ex presidente si sarebbe protratta almeno di altri 15 giorni e che contro di lui sono state formulate accuse che comportano la pena di morte: complicità in omicidio per aver ordinato di sparare contro i manifestanti nella piazza Tahrir e in altri luoghi, corruzione e sperpero del pubblico denaro per aver assicurato una massiccia fornitura di gas naturale a Israele a prezzi stracciati, in cambio di tangenti, tramite un affarista internazionale, tale Hussein Salem.

Il 26 aprile sono state formulate accuse di complicità in omicidio per la sanguinosa repressione delle proteste di piazza anche nei riguardi dell’ex ministro degli interni Habib al-Adly e di sei suoi collaboratori. Il processo contro al-Adly, che potrebbe terminare con una condanna a morte, è stato aggiornato a fine maggio.

Secondo il giornalista di Al Jazeera Rawya Rageh che segue le vicende egiziane: “Si tratta del processo fatto dalla rivoluzione, con il quale molti vogliono vendicare i morti e i feriti che ci sono stati durante la rivolta di 18 giorni […] Anche in termini simbolici, non è solo un processo agli individui ma anche un processo ad un’istituzione, l’istituzione della violenza come viene qui descritta.”

6) LA PENA DI MORTE NON AIUTA I PARENTI DELLE VITTIME DEL CRIMINE

 

Uno studio conferma che la supposta ‘chiusura’ del dolore assicurata ai parenti delle vittime di omicidi dall’inflizione del pena di morte ai colpevoli non è altro che un mito, un mito coltivato cinicamente dalle autorità e dai media per interessi politici e di audience.

 

Negli Stati Uniti la parola closure (che significa chiusura, conclusione) viene usata molto spesso per indicare l’ipotetica fine del dolore provato dai parenti delle vittime di omicidi e il recupero della serenità da parte loro.

Thomas Mowen e Ryan Schroeder, sociologi dell’università di Louisville in Kentucky, osservano che la necessità di fare vendetta e di assicurare la closure ai familiari delle vittime con l’esecuzione del colpevole sono ormai divenuti i principali argomenti a sostegno della pena capitale avanzati dai politici (1), i quali ricorrono sempre meno agli argomenti tradizionali: lo speciale potere dissuasivo dal commettere crimini che avrebbe la pena di morte, un supposto risparmio causato dal non dover mantenere a vita i colpevoli in prigione e la sicurezza sociale.

Da una ricerca condotta da Mowen e Schroeder esaminando i resoconti dei processi capitali comparsi nella stampa dal 1992 al 2009 e discutendo i risultati di altre ricerche (2), risulta però che la supposta closure prodotta dalla pena di morte non è altro che un mito: la gran parte dei familiari delle vittime non riceve conforto durante le fasi di un processo capitale, e neppure dopo l’esecuzione del colpevole.

Soltanto il 2,5% dei familiari hanno in effetti riferito una chiusura del proprio dolore dovuta alla pena di morte. E tra questi molti erano sostenitori della pena capitale da sempre. La maggioranza non ne ha ricavato alcun beneficio. Anzi, sostiene Thomas Mowen, le aspettative di sollievo e conforto derivanti dalla pena di morte, inculcate dai politici nei familiari delle vittime, hanno determinato nella maggior parte dei casi una sofferenza persino maggiore.

Come notano i due studiosi, si assiste negli ultimi due decenni ad una crescente opposizione alla pena di morte da parte dei familiari delle vittime degli omicidi.

E’ indubbio l’aumento della tendenza dei parenti delle vittime dei crimini a chiedere clemenza nei riguardi dei colpevoli o a favorire un patteggiamento che ponga rapidamente fine ad un processo capitale con l’inflizione di una pena detentiva. In effetti la pena di morte può aggravare la sofferenza dei familiari: i processi capitali, con i loro interminabili appelli, costituiscono una sorta di tortura prolungata per persone terribilmente provate e psicologicamente esauste.

Quindi, anche se la macchina della morte americana cerca di addossare ai familiari delle vittime il carico morale delle esecuzioni, i fatti dimostrano il fallimento del tentativo di chi in realtà ha soltanto l’interesse di sfruttare l’emotività collettiva per motivi politici o di audience.

Le richieste di moderazione dei familiari delle vittime vengono sottaciute, assecondando il potere politico e il pubblico che sono a favore della pena di morte: ‘il sistema’ tende a proteggere il mito della closure (3)

Quando i familiari delle vittime non desiderano la pena di morte per il colpevole, vengono emarginati dal sistema giudiziario, al punto da non permettere loro di fare dichiarazioni durante i processi capitali (4). Negli articoli di giornale, mentre viene riservato ampio spazio ai familiari che chiedono vendetta, per gli altri lo spazio è scarso o inesistente.

Probabilmente il sostegno popolare alla pena capitale potrebbe essere ridotto, se si conoscesse l’effettiva esperienza vissuta dai familiari delle vittime del crimine. (Grazia)

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(1) La retribution (vendetta) è concettualmente assai legata alla closure, di cui appare quasi un pre-requisito.

(2) V. http://wcr.sonoma.edu/v12n1/Mowen.pdf

(3) V. anche mio art. nel n. 113

(4) Gli accusatori ottengono di escludere dal dibattimento coloro che sono contrari alle pena di morte.

 

 

7) MENO ESECUZIONI: NON È DETTO SIA UNA VITTORIA PER I DIRITTI UMANI

 

A partire da febbraio del 2010 abbiamo discusso più volte sull’ergastolo senza possibilità di liberazione, una punizione che alcuni considerano nient’altro che una particolare forma di pena di morte ed altri un’alternativa alla pena capitale, accettabile almeno in via transitoria (v. nn. 177, 179, 180, 182). A volte gli abolizionisti arrivano addirittura a proporre l’introduzione un tal tipo di ergastolo negli ordinamenti che non lo prevedono per accelerare l’abolizione della pena capitale. Noi riteniamo che l’ergastolo irrevocabile sia una pena inumana, e in quanto tale incompatibile con qualsiasi normativa che rispetti i diritti umani essenziali, nonché contraria alla Costituzione italiana secondo la quale le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato.” Se è esagerato affermare che nel mondo la discussione sull’ergastolo è inesistente, dobbiamo riconoscere che è molto ridotta rispetto a quella riguardante la pena di morte. In tale contesto ha avuto una meritata risonanza un articolo del 25-enne Tom Stoate sul tema dell’ergastolo senza possibilità di liberazione, pubblicato il 21 aprile nel quotidiano inglese on-line Guardian.co.uk con il titolo: “La diminuzione delle esecuzioni non costituisce sempre una vittoria per i diritti umani” e il sottotitolo: “Nei paesi in cui la pena capitale è stata bandita l’alternativa inumana può essere l’ergastolo senza possibilità di liberazione”(*). Riportiamo un ampio estratto di tale articolo, con ammirazione per un pubblicista così giovane che riesce ad affrontare con decisione, competenza e lungimi­ranza un argomento che rappresenta ancora un tabu persino per Amnesty International (v. n. 179).

 

Le statistiche sulla pena capitale appena pubblicate da Amnesty International evidenziano un “decennio di progressi”.

Per gli oppositori della pena capitale, i cali significativi delle esecuzioni che si verificano di anno in anno costituiscono una vittoria. Secondo quanto riporta Amnesty, dei 67 paesi che hanno comminato sentenze capitali nel 2010, soltanto 23 hanno anche compiuto esecuzioni. Queste statistiche, tuttavia, non ci dicono una cosa molto importante: che ne è dei prigionieri che sono sfuggiti all’esecuzione nei rimanenti 44 paesi?

Pochissima attenzione viene prestata alle sanzioni che dovrebbero sostituire la pena capitale, o a ciò che accade dopo l’abolizione della pena di morte. […]

L’interesse per l’ergastolo senza possibilità di liberazione sulla parola, attualmente la più diffusa alternativa alla pena capitale, è comprensibile. Esso permette ai governanti di dire che proteggono la popolazione rimuovendo permanentemente i peggiori criminali dalla società. Calma le proteste del pubblico contro la messa in circolazione sulla parola dei detenuti più pericolosi. E consente agli abolizionisti di mostrare che non sono indulgenti nei riguardi del crimine, evitando nello stesso tempo il pericolo di giustiziare persone innocenti. Ma la condanna a vita senza libertà sulla parola scambia una punizione durissima con un’altra altrettanto dura: l’esecuzione è barattata con una morte lenta senza speranza, in condizioni indicibili. […]

Oggi nel mondo, quei fortunati che sfuggono alla morte per impiccagione, decapitazione, elettrocuzione, iniezione letale, fucilazione o lapidazione trascorrono la loro vita in condizioni che violano i divieti internazionali delle punizioni crudeli ed inumane, come viene riconosciuto dai più recenti e autorevoli studi di diritto penale. L’imprigionamento per una vita intera può anche essere inteso come una forma di ‘sparizione’. […]

Amnesty, da parte sua, non propone soluzioni e si limita ad opporsi ad alternative che costituiscano una punizione degradante. In “Death Penalty: Questions and Answers” (Pena di Morte: Domande e Risposte), Amnesty giustamente evidenzia l’effetto brutalizzante dell’omicidio di stato, il suo costo, i travisamenti della giustizia, il suo sproporzionato uso contro le comunità povere e le minoranze, il suo negativo impatto sulle famiglie delle vittime. Ma Amnesty non arriva a confrontarsi con la domanda più importante: “Quali alternative proponete e come si possono convincere i governi a realizzarle?” […]

Per un verso Amnesty fa bene ad astenersi dal fare prediche. Trovare alternative praticabili e accettabili dal pubblico in sistemi penitenziari disperatamente carenti di risorse finanziarie è una sfida difficilissima. […] Ma la neutralità di Amnesty tra varie alternative è sintomatica di un problema più generale: come affrontare il modo in cui opera il sistema di giustizia criminale in paesi che mantengono la pena di morte? I politici sono riluttanti a spendere le scarse risorse disponibili o il loro capitale politico per riabilitare impopolari e vilipesi gruppi di prigionieri.

Il compito di un avvocato, intanto, finisce una volta commutata la sentenza di morte del cliente. Pochi titoli di giornale si occupano del seguito, e pochi attivisti internazionali si precipitano per assicurarsi che coloro che sono stati liberati dal braccio della morte non siano torturati in prigione, non contraggano tubercolosi o HIV, non perdano i contatti con le loro famiglie, non muoiano nello squallore più terrificante. […]

La condanna a vita senza la possibilità di ottenere la libertà sulla parola non può essere l’alternativa. Le linee guida sia delle Nazioni Unite che del Consiglio d’Europa riguardo ai prigionieri di lungo termine ammettono che un piccolissimo numero di detenuti possano restare in prigione vita natural durante, ma soltanto a condizione che venga riesaminato periodicamente il loro rischio di recidività. […]

Lo scopo della campagna abolizionista dovrebbe essere una risposta umana, proporzionata e conforme ai diritti umani, ai perpetratori e alle vittime del crimine.  Essa potrebbe richiedere una regolamentazione globale che unifichi l’attuale enorme e spesso grossolanamente sproporzionata gamma di sentenze. Certamente richiederà di creare e di promuovere tra gli avvocati la capacità di contestare gli abusi riguardanti i diritti umani in prigione e di educare gli staff carcerari e la polizia ad affrontare in modo efficace e positivo i criminali più pericolosi. Dovrà anche far riconoscere che l’alta percentuale di detenuti con malattie mentali nel braccio della morte potrebbe esser meglio trattata in ambienti clinici piuttosto che punitivi.

E i crimini più gravi, quelli contro l’umanità? Basta paragonare l’approccio del Sud Africa post-apartheid, dove molti criminali presero parte al processo di riconciliazione piuttosto che ricevere sentenze punitive, o la partecipazione dei perpetratori del genocidio del Ruanda al servizio comunitario e al dialogo aperto con le vittime, con lo spettacolo orrendo dell’esecuzione di Saddam Hussein. […] (Traduzione di Anna Maria Esposito)

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(*) V. www.guardian.co.uk/commentisfree/libertycentral/2011/apr/21/falling-execution-rates-hollow-victory

 

 

8) MARIE DEANS, “STUPIDA CORAGGIOSA” E INTREPIDA ABOLIZIONISTA

 

La vita di Marie McFadden Deans è stata generosamente spesa per aiutare, sostenere e difendere i condannati a morte in Virginia e in South Carolina. E con indubbio successo, un successo in gran parte silenzioso perché costituto dai legami di amicizia che stabilì con decine di ospiti dei bracci della morte, ma in parte eclatante come quando riuscì a sottrarre dalle mani del boia e a far liberare Earl Washington Jr., condannato a morte innocente in Virginia.

 

Marie McFadden Deans per decenni ha aiutato, sostenuto e difeso i condannati a morte della Virginia e del South Carolina.

Tutto cominciò nel 1972, quando la suocera di Marie fu assassinata da un evaso. Un poliziotto arrivato sulla scena del crimine disse a Marie: “Troveremo quel bastardo, e morirà”. “Catturatelo, ma che non sia ucciso con la scusa di farmi un piacere,” fu la risposta.

Da quel momento Marie cominciò ad occuparsi dei condannati alla pena capitale, diventando un “angelo nel braccio della morte”. A lei per la verità questo soprannome non piaceva e si autodefinì la “stupida coraggiosa”. E coraggiosa fu davvero.

Fondò due importanti e significative organizzazioni: “Murder Victims' Families for Reconciliation” (costituita da familiari di vittime di crimini convinti che la pena capitale non sia la risposta giusta all’uccisione dei loro cari) e la “Virginia Coalition on Jails and Prisons” (che si batte per i diritti legali dei condannati a morte).

Inoltre Marie studiò personalmente i casi di molti detenuti e per ognuno cercò di trovare buoni avvocati che lavorassero gratis. Il dato che dimostra il suo successo è costituto dai 200 uomini di cui ha organizzato la difesa legale, due soli dei quali sono stati condannati a morte.

Non contenta di ciò, cercò anche di aiutare i condannati a morte negli appelli successivi al processo. Fu in gran parte merito suo se Earl Washington Jr. riuscì a sottrarsi alle mani del boia e alla fine conseguì la libertà completamente scagionato. Earl era un ragazzo afro-americano minorato mentale e poverissimo. Fu condannato a morte in Virginia per un omicidio che non aveva commesso, in seguito alla confessione resa alla polizia, che ebbe buon gioco nel manipolare un ragazzo minorato e di colore. Fu proprio Marie che, dopo aver esaminato le carte della polizia ed i documenti del processo, scoprì molti elementi che portavano a sospettare di una condanna ingiusta. Lottò per trovare una squadra di avvocati difensori per salvare Earl. Questi sostennero che la sua confessione era stata estorta ed infine ottennero il test del DNA, che scagionò il giovane. Earl, che era arrivato a 9 giorni dall’esecuzione, fu tolto dal braccio della morte nel 1994, scarcerato nel 2001 e ufficialmente discolpato nel 2007 (v. nn. 139, 141, Notiziario).

Marie fece anche un lavoro oscuro e meritorio andando a visitare per oltre trent’anni i condannati a morte e per molti di loro divenne l’unica amica in un ambiente atroce. Per accompagnare i suoi amici fino alla fine presenziò a 34 esecuzioni, in Virginia e in South Carolina, che lasciarono nel suo animo cicatrici indelebili.

Oggi gli abolizionisti ricordano con commozione ed ammirazione la “stupida coraggiosa” che si è spenta il 15 aprile in una casa di cura per malati terminali, all’età di 70 anni. Questa donna coraggiosa e schiva, che, superate ansie a paure, riuscì a vincere battaglie ‘impossibili’ in due degli stati più forcaioli della nazione americana. (Grazia)

 

 

9) ANTHONY GRAVES STA PERDENDO LA PAZIENZA

Ad Anthony Graves, condannato a morte innocente in Texas, che ha riconquistato la libertà nell’ottobre scorso dopo 18 anni di detenzione, viene tuttora negato il previsto indennizzo. Per di più egli subisce delle trattenute sullo stipendio da parte dello stato del Texas che vuole rifarsi per i sussidi elargiti ai suoi figli mentre egli si trovava nel braccio della morte. Il colmo si è raggiunto quando è stata confiscata a Graves la somma di 250 dollari che gli spettavano quale emolumento e rimborso spese per aver fatto una conferenza di grande successo in una università.

 

Quando al danno si aggiunge la beffa persino un uomo pacifico come Anthony Graves, emblema della pazienza, può perdere le staffe.

Per anni ci siamo occupati estesamente sul Foglio di Collegamento di Anthony Graves, innocente condannato a morte in Texas e alla fine liberato con tante scuse nell’ottobre 2010 perché non vi era alcuna prova di colpevolezza a suo carico, tranne la chiamata in correità di un presunto complice, Robert Carter, estorta dall’accusa e ritrattata più volte da Carter, fin sul lettino dell’esecuzione (v. articolo nel n. 184 e articoli ivi citati).

Quando Graves fu posto in libertà, il governatore del Texas Rick Perry ebbe l’impudenza di dichiarare che il suo caso dimostra che il sistema della giustizia del Texas funziona... ma ora lo stato sta negando ad Anthony Graves l’indennizzo finanziario a cui avrebbe diritto: 80 mila dollari per ogni anno di ingiusta carcerazione. Si tratta di un indennizzo minimo indispensabile dal momento che la vita di Graves è stata devastata ed egli si è trovato costretto a inventarsi il modo di sbarcare il lunario, cominciando da zero, all’età di 45 anni.

Nel frattempo, per evitargli di morire di fame, Anthony Graves è stato assunto come investigatore dal Texas Defender Service, l’organizzazione che difende i condannati a morte e che ha contribuito alla sua liberazione.

Graves si è visto negare fino ad a oggi l’indennizzo perché, quando fu scarcerato, nessuno scrisse che lui era actual innocent (effettivamente innocente): i suoi difensori non richiesero una dichiarazione scritta, dal momento che la sua innocenza era evidente. Purtroppo proprio questo cavillo ha permesso allo stato di non pagargli fino ad oggi alcun risarcimento.

Questo il danno. Adesso veniamo alla beffa, anzi alle beffe.

Lo stato sta trattenendo dall’attuale stipendio di Anthony 175 dollari al mese per recuperare il sussidio concesso dallo stato del Texas ai suoi due figli dal 1998 al 2002 (periodo in cui egli non poteva provvedere al loro mantenimento dal momento che era... nel braccio della morte).

Il salasso dallo stipendio di Graves è stato disposto dall’ufficio dell’Attorney General del Texas Greg Abbott, lo stesso che si oppose in tutti i modi per quattro anni alla liberazione di Graves dopo la sentenza in suo favore emessa della competente corte d’appello federale (v. n. 185). Jeff Blackburn, uno degli avvocati di Graves, ha dichiarato senza mezzi termini di ritenere che tale provvedimento sia una vendetta di Abbott nei riguardi dell’ex condannato a morte, scattata dopo che questi ha osato far causa allo stato per la mancata concessione dell’indennizzo. Egli definisce Abbott “come minimo un ipocrita e come massimo un mostro crudele.”

Ed ora la beffa ulteriore, che, se non è la peggiore, è quella che ha fatto perdere la pazienza all’ex condannato a morte: lo stato ha requisito ad Anthony (sempre a titolo di rimborso del sussidio) 250 dollari che gli spettavano per aver tenuto con molto successo una conferenza agli studenti del Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università Prairie View A&M.   

A questo punto Anthony Graves ha  sbottato: “Se ritenete che debba restituire qualcosa, è un conto, non piango per questo, ma non perseguitatemi in ogni cosa che faccio, sono stanco di essere preso a calci dallo stato”. (Grazia)

 

 

10) LE CARCERI CHE STRITOLANO LE VITE

 

In Italia non c’è la tortura perché non ci sono leggi sulla tortura. In Italia non c’è la pena di morte perché le leggi l’hanno abolita. Ma sono tante le morti in carcere (v. n. 184). Anche quando si tratta di suicidi, queste morti hanno il sapore dell’omicidio:  il ‘sistema’ soffoca e stritola pian piano le sue vittime fino a farle morire. Tipico è il caso del 22-enne Carlo Saturno morto dopo otto giorni di coma. Il giovane era stato trovato impiccato nel carcere di Bari il 30 marzo. Riportiamo un articolo su Carlo Saturno scritto a caldo da Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione “Antigone,  e diffuso in rete il 12 aprile con il titolo: Il “suicidio” di Carlo Saturno.

 

Un ragazzo di sedici anni viene seviziato in un carcere minorile. Non è l’unico. Squadracce di poliziotti creano il terrore nell’istituto: pestano sistematicamente i ragazzi, li tengono nudi in celle di isolamento. Impauriscono anche medici e assistenti sociali. Partono le denunce. Il carcere minorile viene chiuso. Le indagini questa volta sono condotte in modo rigoroso. Sarà perché a presentare l’esposto è stato un sottosegretario alla Giustizia che faceva il magistrato. Nove poliziotti penitenziari sono rinviati a giudizio. Vengono sospesi dal servizio. Inizia il processo. Il ragazzo si costituisce parte civile. Gli avvocati che difendono i poliziotti iniziano a usare tecniche dilatorie tipiche dei colletti bianchi: richieste di rinvio, posizioni stralciate, eccezioni varie. Il processo rallenta. I poliziotti sono riammessi in servizio. Il ragazzo torna in carcere. Questa volta è un carcere per adulti, adesso ha 22 anni. Si reca alle udienze dove è parte civile contro i suoi torturatori. Quando torna in carcere pratica più volte atti di autolesionismo. Si taglia, come si dice in gergo carcerario. Litiga con i suoi custodi. Non è ancora chiaro chi questi custodi siano e che relazioni abbiano con i poliziotti accusati. Alcuni potrebbero addirittura coincidere. Un giorno di aprile il giovane è pronto per recarsi a una nuova udienza. Vuole raccontare i maltrattamenti che subiva sei anni prima. Invece viene trovato [… impiccato] con un lenzuolo usato come corda. La famiglia non crede al suicidio. Chi lo ha conosciuto non crede al suicidio. L’udienza per le sevizie viene rinviata di vari mesi. Nel frattempo sarà scattata la prescrizione. Sembra il Sud America di trent’anni fa. Invece è la Puglia.

Il ragazzo si chiamava Carlo Saturno. Il carcere chiuso è quello di Lecce. Quello dove è morto è invece il carcere di Bari. Il processo per le violenze che si sta estinguendo per prescrizione è a Lecce. A Bari vi è una inchiesta aperta per istigazione al suicidio. L’amministrazione penitenziaria ha avviato una sua inchiesta amministrativa. In Italia la tortura non è un crimine. Non è mai stato inserito nel codice penale nonostante vi sia un obbligo internazionale, come tanti mai rispettato. I fatti di tortura vengono perseguiti come se fossero banali percosse o semplici abusi di potere. Dequalificati a stupidaggini, hanno tempi di prescrizione molto brevi. La tortura, invece, è un delitto imprescrittibile. Solo che in Italia non c’è. Sarà perché è impunemente praticata?

 

 

11) NOTIZIARIO

 

California. Non si farà il nuovo braccio della morte. Il 28 aprile il governatore della California, Jerry Brown, ha annunciate di aver annullato il progetto di costruzione di un nuovo braccio della morte del costo di 365 milioni di dollari, in gestazione dal 2003. “Nel momento in cui i bambini, i disabili e i vecchi sopportano le conseguenze di penosi tagli a programmi essenziali [in loro favore], lo stato della California non può giustificare una spesa massiccia di denaro pubblico per i peggiori criminali del nostro stato” ha affermato Brown aggiungendo che si troveranno altre soluzioni ai problemi di alloggio dei detenuti. Di nuovo, rimarrà solo la camera della morte inaugurata a febbraio.

 

Iran. Impiccati due minorenni all’epoca del crimine. Amnesty International denuncia il forte aumento delle esecuzioni capitali in Iran in aprile, dopo il picco di almeno 86 impiccagioni registrato in gennaio (v. n. 187) e una successiva diminuzione. Secondo Amnesty, resoconti ufficiali ci dicono che almeno 135 persone sono state messa a morte quest’anno in Iran, 10 delle quali in pubblico. Rapporti credibili parlano di ulteriori 40 esecuzioni, di cui 3 in pubblico. In violazione dei trattati internazionali sui diritti umani, il 20 aprile sono stati messi a morte in Iran due minorenni all’epoca del crimine, noti con le sole iniziali “A. N.” e “H. B.”, impiccati in pubblico a Bandar Abbas nel sud del paese.

 

Italia. Non ci sono eroi, né martiri. Piuttosto ‘restiamo umani’. Nel giorno di Pasqua si sono svolti a Bulciago in provincia di Lecco i funerali di Vittorio Arrigoni, il giovane pacifista filopalestinese dell’International Solidarity Movement (v. http://palsolidarity.org/ ) rapito ed ucciso barbaramente dieci giorni prima nella striscia di Gaza. “Vittorio non é un eroe né un martire - ha detto Egidia Beretta, mamma di Vittorio, al centro di un discorso funebre di sette minuti che si era puntigliosamente preparato - ma solo un ragazzo come tanti di voi che ha voluto riaffermare con una vita speciale che i diritti umani sono universali e che come tali vanno rispettati e difesi in qualsiasi parte del mondo, che l’ingiustizia va raccontata e documentata perché nessuno di noi nella nostra comoda vita possa dire ‘io non c’ero, io non sapevo’ ” Concordiamo con Egidia che il suo Vittorio non è un eroe né un martire, perché gli eroi e i martiri non esistono, a differenza di quello che vogliono farci credere in altri funerali. Ma almeno lei con la sua umanità, con la sua misura, con il suo comportamento esemplare, ci è andata abbastanza vicino. “Restiamo umani” come diceva sempre Vittorio Arrigoni, solo questo è ciò che conta.

 

Usa. Avviato il primo processo capitale presso le Commissioni Militari di Guantanamo. Il 23 aprile il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti ha fatto sapere che l’ufficio del capitano di marina John Murphy, capo degli accusatori per i crimini di guerra, ha chiesto la pena di morte per Abd al-Rahim al-Nashiri, il primo detenuto “di alto valore” ad essere processato dalle Commissioni Militari di Guantanamo. Ad al-Nashiri, sospetto operativo di al-Qaeda nel Golfo Persico, si attribuisce l’organizzazione dell’attacco suicida contro la nave da guerra statunitense “Cole” ancorata nel porto di Aden nel 2000, che causò 17 vittime tra i militari imbarcati (v. n. 175).  Il tenente della Marina Stephen Reyes, avvocato d’ufficio, sostiene che si è deciso di processare al-Nashiri a Guantanamo perché le prove contro di lui sono costituite da confessioni estratte sotto tortura. “Le Commissioni Militari mancano delle protezioni procedurali necessarie nei casi capitali,” ha dichiarato Reyes. “A causa della normativa raffazzonata, il mio cliente potrebbe essere condannato e messo a morte senza neanche avere la possibilità di veder testimoniare chi lo accusa”.

 

 

Questo numero è aggiornato con le informazioni disponibili fino al 30 aprile 2011

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