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FOGLIO  DI COLLEGAMENTO  INTERNO

 

DEL COMITATO PAUL ROUGEAU

 

Numero  179 -  Aprile 2010

John Paul Stevens

SOMMARIO:

 

1) Convocazione dell'Assemblea ordinaria dei Soci del 6 giugno 2010

2) Perché ho fatto tutto questo per lui ? di Stefania Silva

3) Spunti di riflessione dall’Europa di Stefania Silva

4) Fissata la data di esecuzione per Gaile Owens

5) Imbarazzo in Utah all’approssimarsi di una fucilazione

6) Si terrà il 30 giugno l’udienza sulle prove per Troy Davis

7) Preoccupa la successione del giudice Stevens alla Corte Suprema

8) Omicidi mirati, discutibili solo se riguardano cittadini americani

9) Riprende pigramente il riesame del caso di Todd Willingham

10) Gli abolizionisti cattolici statunitensi incalzano la gerarchia

11) Ancora sull’ergastolo: la posizione di Amnesty

12) Notiziario: Texas, Usa

 

 

1) CONVOCAZIONE DELL'ASSEMBLEA ORDINARIA DEI SOCI DEL 6 GIUGNO 2010

 

L'Assemblea ordinaria dei Soci del Comitato Paul Rougeau è convocata per domenica 6 giugno 2010 alle ore 10:00.  L'Assemblea si terrà in Firenze presso l’abitazione di Loredana Giannini, Via Francesco Crispi, 14.  L'ordine del giorno è il seguente:

1. Relazioni sulle attività svolte dal Comitato Paul Rougeau dopo                        l’Assemblea del 3 maggio 2009;

2. situazione iscritti al Comitato Paul Rougeau, gestione dei soci;

3. illustrazione ed approvazione del bilancio per il 2009;

4. ratifica di eventuali dimissioni dal Consiglio direttivo; elezione di membri      del Consiglio direttivo.

    Eventuale breve sospensione dei lavori dell’Assemblea per consentire          una riunione del nuovo Consiglio direttivo con il rinnovo delle cariche            sociali.

5. Eventuale prosieguo dell’impegno del Comitato Paul Rougeau in aiuto di        Larry Swearingen condannato a morte in Texas;

6. eventuale tour in Italia di Dale e Susan Recinella nell’anno 2011 per una        serie di conferenze;

7. creazione di una rete di soci disposti a partecipare ad azioni urgenti              selezionate dal Comitato;

8. redazione del Foglio di collegamento;

9. gestione del sito del Comitato;

10. discussione delle strategie abolizioniste;

11. ripresa della campagna riguardante le condizioni di detenzione nel                braccio della morte del Texas;

12. discussione, programmazione e approvazione del prosieguo delle                  attività in corso; proposte di nuove attività da parte dei soci,                            programmazione ed approvazione delle stesse;

13. raccolta fondi e allargamento della base associativa;

14. ricerca di adesioni ideali di personalità al Comitato Paul Rougeau;

15. varie ed eventuali.

Firmato: Giuseppe Lodoli, Presidente del Consiglio direttivo del Comitato Paul Rougeau

 

AVVERTENZE:  L’Assemblea dei Soci sarà aperta ai simpatizzanti non soci che avvertano in anticipo della loro partecipazione.

Nel tardo pomeriggio del giorno 5 si terrà una riunione informale preparatoria dell’assemblea sempre in via Crispi, 14.

La fine dei lavori dell’assemblea è prevista per le ore 16 circa di domenica 6.

Il luogo dell'Assemblea è raggiungibile dalla Stazione di Santa Maria Novella anche a piedi in 20’. Percorso: Stazione, Via Nazionale, P.zza Indipendenza, Via S. Caterina d’Alessandria. Arrivati all’in­crocio col Viale S. Lavagnini lo si attraversa al semaforo e si prosegue lungo Via A. Poliziano che si percorre interamente, fino a sboccare in Viale Milton, in corrispondenza di un ponte sul Mugnone. Si attraversa il ponte e si giunge in Via XX Settembre;  si gira a sn costeggiando il Mugnone fino ad incro­ciare, sulla ds, Via Crispi. Si gira dunque a ds e si percorre Via Crispi fino al n°14. Per chi preferisce l’autobus, dalla stazione  le linee utili sono: 4  (direzione Poggetto, scendere in Via dello Statuto, parallela alla vicina Via Crispi ); 13 (dir. Piazzale Michelangelo, scendere in Via XX Settembre); 28 (dir. Sesto), scendere in Via dello Statuto. Tutti questi autobus si prendono alla fermata che si trova all'uscita della stazione, sul lato dove si trova la farmacia della stazione.

Dalla Stazione di Campo di Marte c’è l’autobus n. 12, la fermata è all'uscita dalla stazione, i nomi delle fermate  del bus e gli orari festivi da Campo di Marte sono i seguenti: Campo di Marte (salita) - Masaccio - Botticelli - Pascoli - Ponte Rosso - Puccinotti (discesa); 9,32 - 9,52 - 10,14 - 10,34 - 10,54 - 11,14 - 11,40 - 12,10 - 12,50.Una volta scesi in Via Puccinotti superare la piazza della Vittoria (quella con i pini marittimi) e all' incrocio con via Crispi (primo semaforo dopo la piazza) girare a ds.

Pernottamento: Coloro che vogliono pernottare a Firenze ci devono informare quanto prima della propria venuta in maniera da riservare per tempo le camere necessarie.

Per una migliore organizzazione dei lavori e del soggiorno dei partecipanti, preghiamo i soci di avvertire in ogni caso della loro venuta an­che se non intendono pernottare a Firenze.

Per tutte le informazioni organizzative e per prenotare il pernottamento a Firenze contattaci subito per e-mail all’indirizzo prougeau@tiscali.it

 

 

2) PERCHÉ HO FATTO TUTTO QUESTO PER LUI ? di Stefania Silva

 

Stefania si è prodigata con intelligenza ed estrema determinazione nel tentativo quasi impossibile di scongiurare l’esecuzione del suo amico Kevin Scott Varga programmata in Texas per il 12 maggio. I risultati da lei ottenuti ci sembrano incredibili. Ma forse non bastano per ottenere il ‘miracolo’. Lei si domanda come mai sia riuscita a fare tutto ciò e cerca di darsi qualche risposta… Forse c’è dell’altro.

 

Il suo nome è Kevin Scott Varga, ha 41 anni, ci scriviamo da poco meno di sei anni.

La sua data di esecuzione è fissata per il 12 maggio.

Da quando il giudice ha fissato la ‘sua data’, era il 12 febbraio, ho pubblicato una petizione per chiedere clemenza al Governatore e alla Commissione per le Grazie del Texas, alcune firme le ho raccolte su carta; in tutto sono circa 1.400, senza contare quelle raccolte dalla comunità di Sant’Egidio.

La maggior parte delle firme, sono già state inoltrate alle autorità del Texas.

Ho ottenuto un intervento del papa Benedetto XVI, il quale, attraverso il Nunzio Apostolico a Washington, ha inoltrato richiesta di grazia, sia presso il Governatore, sia presso il Board of Pardons and Paroles.  

Lucia Squillace e Elena Gaita mi hanno aiutato generosamente a scrivere una quantità di lettere e di documenti, a tradurli in inglese e a mandarli in ogni dove.

 

Ho avuto la preziosa collaborazione, tra gli altri, di un’amica autrice di un programma andato in onda nel 2007 su La7 che riguardò anche Kevin. Il programma è stato ritrasmesso con l’apertura di un blog, nel quale è visibile l’intera intervista di Kevin.

L’Unità ha pubblicato la trascrizione dell’intervista a Kevin.

Ho fatto interviste radiofoniche con Radio Globo e Radio Popolare di Milano.

Ho contattato l’AGI e l’ANSA, nonché un giornalista de L’Espresso.

Ho scritto al presidente Napolitano e ai presidenti delle istituzioni europee.

Ho scritto al sindaco di Roma; pare che il suo comunicato sia pronto.

Sto organizzando un sit in davanti al Colosseo, da tenersi il giorno prima dell’esecuzione (il 12 sarò a casa davanti al pc e con il telefono in mano, per poter almeno salutare Kevin un’ultima volta).

Quando ho inviato la lettera giunta dalla Santa Sede alla madre di Kevin, lei è riuscita a far pubblicare la notizia su un quotidiano locale, la giornalista mi ha scritto e ha voluto delle dichiarazioni; seguirà la storia fino alla fine.

Gran magra consolazione, direi.

Allora ho scritto una lettera a tutti i giornali del Texas: si intitola “Spunti di riflessione dall’Europa”

Ora, questo è stato fatto.

Perché ho fatto tutto questo per lui?

E’ lecito chiederselo.

Perché è stato il mio primo corrispondente, perché ne ho visti morire troppi in questi anni; molti erano solo nomi, amici di amici, ma quando sostituisci un volto e una voce a un numero di matricola, le cose cambiano.

E non poco.

Kevin è stato l’inizio del mio impegno contro la pena di morte, che continuerà anche se le cose dovessero seguire il loro innaturale percorso.

Ma non sono pronta a lasciarlo andare, non senza aver speso ogni energia perché la sua vita possa essere salvata.

 

 

3) SPUNTI DI RIFLESSIONE DALL’EUROPA di Stefania Silva

 

A nome di tutti gli amici italiani di Kevin Verga, Stefania ha inviato un lettera, di cui riportiamo qui la versione italiana, ai giornali del Texas. Si tratta di uno sforzo quasi disperato di colmare l’abisso culturale che ci separa dallo ‘stato della morte’ per antonomasia.  Non sappiamo se la lettera verrà pubblicata da qualche giornale e in quale misura potrà essere compresa dai cittadini del Texas

 

Ci troviamo in questi giorni a sostenere un detenuto nel braccio della morte del Texas, la cui data di esecuzione è fissata per il 12 maggio.

Stiamo facendo una corsa contro il tempo per ottenere più adesioni possibili alla petizione al Governatore Perry, per ottenere l’interesse delle istituzioni italiane, Paese da cui scriviamo.

Rilasciamo interviste per le radio, cerchiamo giornalisti italiani e stranieri che si interessino al caso di Kevin Scott Varga, contattiamo politici, organizziamo manifestazioni, scriviamo alle massime autorità Italiane ed Europee.

Televisioni ne parlano, giornali ne scrivono, radio ci intervistano, politici ci rispondono o promettono di farlo.

Poi leggiamo i giornali americani e l’unica notizia che riguarda Kevin Scott Varga, è la sua data di esecuzione.

Niente che parli di come tra pochi giorni, una vita verrà tolta a sangue freddo.

Niente che ispiri una riflessione su questa pena di cui vorremmo  poter parlare al passato.

Certo, per me che scrivo, Kevin Varga è un nome, un volto, una voce, una storia, un amico; per voi è uno dei tanti detenuti nel braccio della morte del Texas, in attesa di esecuzione.

E poi, abbiamo ottenuto che il papa Benedetto XVI intercedesse per Kevin.

E solo a questo punto, un giornale, Il Rapid City, ha scritto di Kevin, ridandogli dignità di uomo, di figlio, intervistando sua mamma, promettendo di seguire la sua storia, dandogli la voce che per dieci anni gli è stata negata.

Come, dall’Europa si interpella persino il Papa per salvare la vita di un condannato a morte? Questa è la notizia!

A me, che vivo in un Paese che da molto ha abolito la pena di morte, questo suona paradossale, come probabilmente a voi suoneranno paradossali e assurde molte circostanze del mio Paese.

Ma qui parliamo di una vita, anzi di 12 vite, che sono quelle che in Texas, Mississippi, Ohio, Alabama, Arkansas verranno spente nel solo mese di Maggio.

Alle mie orecchie, il silenzio intorno a questo, suona come un rumore terribile, e non “solo” perché delle vite verranno tolte, ma perché non si intravede un dibattito profondo su questa arcaica forma di punizione.

 

 

4) FISSATA LA DATA DI ESECUZIONE PER GAILE OWENS

 

Gaile Owens il 28 settembre potrebbe diventare la prima donna ad essere ‘giustiziata’ in Tennessee da due secoli a questa parte. Eppure la pena capitale inflittale risulta sproporzionata in confronto con le pene comminate ad altre donne in casi del tutto simili al suo, nel suo stesso stato. Esauritosi l’iter giudiziario, le speranze di Gaile e dei suoi numerosi amici sono limitate alla clemenza governatoriale.

 

Il 19 aprile la Corte Suprema del Tennessee ha fissato l’esecuzione di Gaile Owens per il 28 settembre, dopo aver respinto la richiesta dei suoi difensori di commutare la pena in carcere a vita.

Ciò ha suscitato sconcerto e proteste nei numerosi sostenitori della Owens che, affetta dalla ‘sindrome della donna maltrattata,’ nel 1985 diventò uxoricida per commissione. Anche il The Tennessean, il principale quotidiano dello stato, ha alzato forte la sua voce appellandosi al governatore  Phil Bredesen affinché conceda la grazia alla condannata che è divenuta una detenuta modello.

“Spero fortemente che il governatore consideri che la giuria nel caso di Gaile Owens non seppe della violenza domestica che la afflisse, e neanche che lei aveva accettato di dichiararsi colpevole in cambio di una sentenza detentiva,” ha dichiarato Stacy Rector, direttrice dell’organizzazione abolizionista Tennesseans for an Alternative to the Death Penalty. La Rector ha anche ricordato come la pena comminata alla Owens risulti sproporzionata in confronto con le pene inflitte in casi simili al suo (v. nn. 176, 177).

Le numerose, pressanti, concordi richieste di clemenza per Gaile Owens che si levano in Tennessee dovrebbero spingere il governatore Bredesen, peraltro incline a firmare ordini di esecuzione (*), a commutare la sua sentenza di morte nel carcere a vita. La stessa Corte Suprema del Tennessee che, nel respingere la richiesta di commutazione aveva sentenziato di non poter prendere in considerazione elementi al di fuori delle carte processuali, lo ha suggerito.

In caso contrario per la prima volta, dopo il 1820, verrà uccisa una donna dallo stato del Tennessee, uno stato forcaiolo che ha linciato o ‘giustiziato’ molti uomini da allora.

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(*) Phil Bredesen ha lasciato uccidere cinque condannati a morte, tra cui Philip Workman, un detenuto che il Comitato Paul Rougeau ha seguito particolarmente nel suo calvario costellato da sei date di esecuzione (v. ad es. nn. 150, 164, “Di nuovo fissata...”).

 

 

5) IMBARAZZO IN UTAH ALL’APPROSSIMARSI DI UNA FUCILAZIONE

 

Sia l’establishment dell’Utah che il sistema carcerario di questo stato sono stai messi in imbarazzo dalla richiesta di Ronnie Lee Gardner di essere messo a morte tramite fucilazione invece che con un’iniezione letale. La vergogna che genera l’uso del truculento metodo di esecuzione scelto da Gardner e il timore per un danno di immagine che ne riceverebbe l’Utah sono giustificati e trovano un precedente nell’esecuzione di Gary Gilmore che inaugurò nel 1977  l’attuale fase della pena di morte negli USA.

 

Il 23 aprile nel corso di una speciale udienza il condannato a morte dell’Utah Ronnie Lee Gardner ha chiesto al giudice Robin Reese di essere ucciso mediante fucilazione. Lo stesso metodo che scelse nel 1985 quando fu condannato alla pena capitale per aver ammazzato un avvocato e ferito numerose persone durante un tentativo di evasione mentre si trovava in tribunale per rispondere di reati violenti. In seguito Gardner chiese di essere sottoposto ad iniezione letale ed ora, giunto alla fine dell’iter giudiziario, ha di nuovo optato per la fucilazione.

Sarà accontentato il 18 giugno. A meno che non intervenga qualche fatto nuovo ad impedirlo in uno stato che non utilizza molto la pena di morte  (ha effettuato 6 esecuzioni dal 1977 in poi, l’ultima delle quali nel 1999). 

Non è escluso che vada a buon fine qualcuno dei numerosi tentativi di salvargli la vita messi in atto in extremis dai suoi avvocati, o che gli venga concessa la clemenza richiesta anche dai parenti della sua vittima o che la stessa scelta del metodo finisca per comportare qualche complicazione.

In caso contrario Gardner verrà legato ad una sedia appositamente costruita, vestito di nero con un dischetto bianco in corrispondenza del cuore. Sarà incappucciato per impedirgli la vista della canne dei fucili puntati contro di lui da una distanza di circa sette metri. Uno dei fucili, sconosciuto dalle cinque guardie addette all’esecuzione, sarà caricato a salve. Completerà il meccanismo di morte un catino metallico destinato a raccogliere il sangue del condannato.

Il can can generato dalla decisione di Gardner, ha infastidito e stizzito l’establishment dell’Utah,  percorso da vari timori compreso quello che l’esecuzione per fucilazione possa danneggiare l’immagine dello stato e influire negativamente sul turismo.

Le autorità carcerarie si sono dette pronte ad utilizzare il metodo della fucilazione ma hanno espresso il timore che l’utilizzo di tale metodo scateni un ‘circo mediatico’.

“In futuro i criminali condannati non avranno scelta,”  ha ricordato la deputata repubblicana Sheryl Allen, promotrice della legge del 2004 che ha eliminato la possibilità di scegliere la fucilazione per i nuovi condannati a morte. “Numero uno, ritengo che debba essere lo stato a scegliere, non il criminale che viene giustiziato. Numero due, la fucilazione suscita una quantità di attenzione inappropriata.  L’esecuzione [per fucilazione] è una scelta infelice, punto. Ma in questo caso la gente si concentra [erroneamente] sul metodo anziché sulle vittime del crimine.”

La legge che pone termine al metodo della fucilazione non fu applicata retroattivamente a Gardner e ed altri quattro condannati, che avevano scelto tale metodo, onde evitare che vi fosse materia per ulteriori appelli.

L’avvocato accusatore Tom Brunker, ha ricordato che il metodo della fucilazione rimarrà valido in futuro qualora l’iniezione letale venisse dichiarata incostituzionale oppure nel caso in cui lo chiedesse un condannato con caratteristiche fisiche che complichino la somministrazione dell’iniezione letale. Anche L’Oklahoma conserva come metodo di riserva la fucilazione, caso mai fossero dichiarati incostituzionali sia l’iniezione letale che la sedia elettrica.

Non sono senza fondamento le preoccupazioni per il danno di immagine che può conseguire allo stato dell’Utah dalla fucilazione di Gardner. C’è un precedente: il dimenticato stato desertico dell’Utah irruppe per la prima volta sinistramente nelle cronache di tutto il mondo nel 1977, quando vi fu fucilato Gary Gilmore. Gilmore aveva chiesto insistentemente di essere ucciso ottenendo, con la sua esecuzione, la fine della moratoria della pena di morte che reggeva da un decennio in tutti gli Stati Uniti.(*) 

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(*) L’unica ulteriore fucilazione negli USA si verificò nel 1996, sempre in Utah, quando fu messo a morte John Albert Taylor.

6) SI TERRÀ IL 30 GIUGNO L’UDIENZA SULLE PROVE PER TROY DAVIS

 

Si terrà il 30 giugno un’udienza per esaminare nel merito le prove di innocenza emerse dopo il processo nel caso di Troy Davis, condannato a morte in Georgia. Si tratta di un evento del tutto eccezionale conseguito all’impegno dei suoi ottimi difensori e alla massiccia mobilitazione di Amnesty International

 

Troy Davis è ancora vivo nel braccio della morte della Georgia per merito dei suoi bravissimi avvocati e per la straordinaria mobilitazione in suo favore messa in atto da Amnesty International USA (1).

La dissoluzione delle testimonianze a carico verificatasi dopo il processo, fa ritenere che Troy Anthony Davis sia innocente dell’uccisione del poliziotto Mark MacPhail per la quale fu condannato alla pena capitale nel 1991.

Dopo il conseguimento della terza sospensione in extremis dell’esecuzione di Davis (2), la difesa ha ottenuto un’udienza, presso al Corte distrettuale federale competente, per l’esame delle prove di innocenza emerse dopo il processo.

Come abbiamo sottolineato nel n. 171, si tratta di un successo smagliante e del tutto eccezionale conseguito nell’agosto scorso presso la Corte Suprema USA al termine di un intricatissimo percorso ad ostacoli. Si ritiene che un risultato del genere non si sia mai verificato prima d’ora negli ultimi 50 anni. “Il rischio sostanziale di mettere a morte un uomo innocente fornisce chiaramente un’adeguata giustificazione per tener un’udienza sulle prove”, aveva scritto nella decisione di maggioranza il giu­dice della Corte Suprema John Paul Stevens.

Il giudice distrettuale William T. Moore ha disposto l’udienza sulle prove per il 30 giugno ed ha fissato la scadenza dell’11 giugno per la comunicazione della lista delle testimonianze e degli altri tipi di prove sia da parte della difesa che dell’accusa. Dunque il 30 giugno le proteste di innocenza di Troy Davis saranno finalmente sottoposte ad un accurato esame nel merito.

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(1) v. ad es. nn. 163, 164, 165, Notiziario, 169, 170, 171

(2) L’esecuzione di Troy Davis fu programmata in Georgia  per il 16 luglio 2007,  e poi per il 23 settembre 2008 e per il 27 ottobre 2008. Il 23 settembre 2008 la sospensione fu disposta con solo due ore d’anticipo sul momento fissato per l’iniezione letale.

 

 

7) PREOCCUPA LA SUCCESSIONE DEL GIUDICE STEVENS ALLA CORTE SUPREMA

 

La sostituzione di John Paul Stevens, novantenne giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti,  potrebbe portare ad uno esiziale spostamento della massima corte su posizioni meno rispettose dei diritti umani e ad un allargamento del già vasto potere dell’Esecutivo nell’ambito della ‘guerra al terrorismo’

 

Ventilato fin dal mese di settembre e preannunciato in forma dubitativa il 2 aprile, il proposito del Giudice della Corte Suprema USA John Paul Stevens di dimettersi si è consolidato nel corso del mese (*). Tanto che sia i media che gli organi competenti, a cominciare dal Presidente Barack Obama, hanno cominciato a occuparsi attivamente della sua successione.

Essendo tremendamente importanti gli equilibri che si creano nella Corte Suprema per una quantità di questioni riguardanti gli Stati Uniti (e il mondo intero), si sono moltiplicate le analisi delle caratteristiche del giudice che lascia, così come quelle dei personaggi ‘papabili’ per andare al suo posto.

Quando fu nominato nel 1975 dal presidente Gerald Ford, il giudice Stevens era un conservatore e un moderato, ma è molto cambiato da allora. Attualmente – giunto a 90 anni di età – è considerato un ‘idolo della sinistra’ anche se lui ribadisce di essere un ‘conservatore’ che rifiuta di fare politica. Egli dichiara di impegnarsi per  risolvere le questioni che approdano alla Corte Suprema, senza tentare di scrivere nuove regole generali che rispondano alle esigenze della società. Piuttosto che ammettere di essere diventato ‘di sinistra’ egli è propenso a dire che è il resto della corte ad essersi man mano spostato a destra.

Comunque sia, il ruolo di Stevens quale interprete del dettato Costituzionale che deve necessariamente adattarsi ad una società in evoluzione, è progressivamente cambiato ed è ora assai più orientato al futuro che al passato.

In possesso della saggezza dell’età ma scevro delle rigidità di un vecchio, John Paul Stevens negli ultimi anni ha mostrato grande indipendenza di giudizio e la capacità di assumere posizioni originali in diverse questioni riguardanti i diritti umani.

In particolare, con la lungimiranza e la positività di un giovane, egli ha progressivamente maturato e infine dichiarato apertamente una netta opposizione alla pena di morte.

Nel 1976 aveva votato a favore della reintroduzione della pena capitale negli Stati Uniti, dopo un quadriennio in cui la Corte Suprema l’aveva proibita. Tuttavia nella seconda parte del suo mandato ha finito con l’esprimere giudizi del tutto simili a quelli di un abolizionista (v. ad es. nn. 159, 160, Notiziario, 175, “Eseguita dopo 29 anni...”).

Esattamente due anni fa - quando la Corte Suprema rigettò  il ricorso Baze v. Rees ponendo fine alla moratoria dell’iniezione letale - John Paul Stevens scrisse, in una impegnativa dichiarazione di 18 pagine, di essersi progressivamente convinto che la pena di morte rappresenta “l’ottusa e non neces­saria estinzione della vita con un contributo solo marginale ad un qualsiasi percepibile scopo sociale o pubblico.” E che quindi “una pena con un tale trascurabile vantaggio per lo Stato [è] eviden­temente eccessiva ed [è da considerarsi] una punizione crudele e inusuale in violazione dell’Ottavo Emendamento” della Costituzione. (v. n. 159)

Riguardo alla pena di morte egli ammette di essere cambiato. “Certamente non mi sarei aspettato durante i miei primi anni di lavoro nella corte di arrivare a scrivere un’opinione come quella che ho scritto a proposto di Baze [v. Rees.]” ha dichiarato Stevens il 2 aprile, sia pur precisando di non ritenere giusto l’atteggiamento dei giudici William J. Brennan Jr. e Thurgood Marshall i quali in passato, divenuti oppositori della pena di morte, si prefissero di dissentire aprioristicamente in ciascun caso capitale. “Sono ancora un membro della Corte, e devo ancora lavorarvi,” ha detto Stevens.

Quello riguardante la pena di morte non è il solo atteggiamento di John Paul Stevens lodato dalle organizzazioni per i diritti umani. E’ stato molto apprezzato, ad esempio, il suo attivo contributo – quasi sempre determinante – a decisioni della Corte Suprema che hanno in una certa misura arginato lo strapotere e gli abusi dell’Esecutivo nell’ambito della “guerra globale al terrorismo” dichiarata dal presidente Bush in risposta agli attacchi dell’11 settembre 2001.

La sostituzione del giudice Stevens comporta pertanto il rischio di uno spostamento della massima corte su posizioni più conservatrici e una diminuzione significativa della tutela dei diritti umani negli USA e nel mondo. Ciò anche perché tale corte, che decide a maggioranza, è attualmente divisa circa a metà tra giudici conservatori (come Stevens) e giudici ultraconservatori come Antonin Scalia.

Gli esperti e i media stanno valutando attentamente i candidati a ricoprire il posto che John Paul Stevens lascerà libero. Si tratta dei giudici federali Diane Wood e Merrick Garland e della professoressa di legge Elena Kagan, attualmente Solicitor general degli Stati Uniti.

La Wood e Garland corrispondono pressappoco ad una figura moderatamente progressista in sintonia con un presidente democratico come Barack Obama. La Kagan è guardata con molta preoccupazione dagli ambienti più progressisti.

Quando l’amministrazione Bush argomentò che uno Uiguro (musulmano cinese) poteva essere detenuto a tempo indeterminato a Guantanamo semplicemente perché, essendo stato in Afghanistan, potrebbe essersi “associato” ai Talebani, il giudice federale  Merrick Garland dissentì - utilizzando nella sua sentenza la terminologia presa da “Alice nel paese delle meraviglie” per chiarire che la sola affermazione del governo in tal senso non costituisce una prova che gli Uiguri si possano considerare “nemici combattenti.”

Quando George W. Bush e i suoi consulenti legali sostenevano che il potere nella guerra al terrore risiedeva tutto nelle mani del presidente quale “comandante in capo” fu la giudice Diane Wood che criticò aspramente tale impostazione.

La Wood scrisse nel 2003 che “in una democrazia, coloro che hanno la responsabilità della sicurezza nazionale devono fare qualcosa di più che dire: “fidatevi di noi, sappiamo come agire al meglio”. E affermò che le prigioni segrete e le prove segrete non si confanno allo stato di diritto.

Ora la Wood viene citata tra i possibili successori di John Paul Stevens. Piacerebbe anche allo stesso Stevens.  Peccato che le maggiori chances di essere nominata vengano attribuite all’attuale Solicitor general del Dipartimento di Giustizia (colei che cura gli interessi del governo, presso la Corte Suprema, e non solo) la giurista Elena Kagan. Una figura che, nelle dichiarazioni e negli atti, ha esternato poco ma abbastanza da allarmare coloro che si preoccupano per i diritti umani.

Per di più la Kagan è ritenuta da molti esperti inadatta a succedere a Stevens perché priva di esperienza in veste di protagonista nel campo giudiziario, come giudice, avvocato o accusatore, anche se conosce bene l’ambiente della Corte Suprema per avervi lavorato a suo tempo, in qualità di cancelliera, alle dipendenze del giudice Thurgood Marshall.

Sappiamo che Elena Kagan ritiene che la pena di morte sia perfettamente costituzionale; per quanto riguarda i diritti umani in generale e i poteri dell’Esecutivo, ella dimostra di essere allineata più sulle posizioni di Bush che su quelle di Obama.

Elena Kagan, docente alla Scuola di Legge di Harvard, durante il dibattito in Senato per la conferma nel ruolo di Solicitor general, concordò con il senatore repubblicano Lindsey Graham che il ‘campo di battaglia’nella ‘guerra al terrorismo’ non ha limiti e che un individuo sospetto di finanziare il terrorismo arrestato nelle Filippine può essere detenuto a tempo indeterminato dai militari.

Come Solicitor general la Kagan ha argomentato con successo presso la Corte Suprema per ottenere il respingimento dei ricorsi legali fatti da ex-prigionieri di Guantanamo in cerca di risarcimento per le torture e gli abusi subiti. “La tortura è illegale per la legge federale e il Governo degli Stati Uniti la ripudia. Ma la liceità dei ricorsi nei riguardi di singoli individui dell’amministrazione per avere indennizzi monetari è un’altra cosa,” sostenne in novembre nell’interesse dell’amministrazione Obama.

“Ella è una preoccupante tabula rasa riguardo a tali questioni [riguardanti il potere dell’esecutivo]. E quel poco che conosciamo non ci tranquillizza,” dice Deborah Pearlstein, professoressa dell’università di Princeton ed ex-cancelliera del giudice Stevens. La Pearlstein, un’esperta che si è occupata intensamente di questioni legali connesse con il terrorismo, nota che “molti hanno manifestato preoccupazione per la sua concezione veramente assai allargata dell’autorità dell’Esecutivo.”

Non vorremmo che le candidature avanzate accanto a quella della Kagan fossero solo un diversivo per mascherare l’intento di Obama di scegliere come ‘giudice suprema’ senz’altro lei, che è un’attuale fedelissima espressione del governo ed è molto probabilmente incline a rafforzare ulteriormente il potere dell’Esecutivo.

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(*) La Corte Suprema degli Stati Uniti è formata da 9 giudici nominati dal Presidente USA. La nomina presidenziale di un giudice diventa efficace dopo essere stata ratificata dal Senato. I giudici rimangono in carica per tutta la vita a meno che non si dimettano volontariamente.

 

 

8) OMICIDI MIRATI, DISCUTIBILI SOLO SE RIGUARDANO CITTADINI AMERICANI

 

La decisione di includere Anwar al-Awlaki, un predicatore musulmano di ascendenza yemenita, nella lista delle persone che possono essere uccise ‘a vista’ da militari ed agenti segreti americani, ha prodotto un certe discussione negli USA. Ma solo perché questa volta si tratta di un cittadino statunitense.

 

Il 6 aprile fonti governative statunitensi hanno fatto sapere attraverso i media, sia pure in modo anonimo e ufficioso, che militari ed agenti segreti americani sono autorizzati ad uccidere a vista Anwar al-Awlaki, un predicatore musulmano nato e vissuto negli Stati Uniti fino al 2002. 

Al-Awlaki, dopo essere uscito dagli Usa, ha fatto proseliti nel Regno Unito per due anni. Ora, presumibilmente nascosto nello Yemen, organizzerebbe azioni terroristiche per conto di al-Qaeda.

“Peccheremmo di negligenza se non trovassimo il modo di perseguire qualcuno che costituisce una seria minaccia per questo paese ed ha tramato contro gli Americani” ha dichiarato alla CNN una fonte governativa anonima il 7 aprile.

Sempre secondo fonti anonime, Anwar al-Awlaki sarebbe legato sia al maggiore Nidal Malik Hassan, lo psichiatra militare che il 5 novembre  aprì il fuoco nella base militare texana di Fort Hood uccidendo 13 persone e ferendone 30 (v. n. 174, “Strage…”), sia al giovane nigeriano Umar Farouk Abdulmutallab che tentò di far scoppiare un ordigno sul volo della Delta-Northwest in arrivo a Detroit il giorno di Natale.

Il fatto che al-Awlaki sia stato aggiunto da Obama alla lista dei candidati agli ‘omicidi mirati’ (v. n. 178) ha sollevato una discussione negli Stati Uniti. Ma solo per il fatto che egli sarebbe il primo Americano di cui si dice apertamente che è stato inserito nella lista.

Osserva ad esempio la professoressa Vicki Divoll, ex consulente del Senato per l’intelligence e ex consulente della CIA, in una sua opinione pubblicata nel Los Angeles Times il 23 aprile:

“La legge prevede che se il governo volesse semplicemente ascoltare le conversazioni al cellulare di Awlaki o leggere i suoi e-mail, dovrebbe avere l’approvazione del sistema giudiziario. Ma nel definirlo un bersaglio da uccidere, l’esecutivo sembra abbia agito da solo.[…]

“Quando mai il destino di un cittadino americano – la sua privacy, la sua libertà, la sua vita – è rimasto affidato soltanto al potere esecutivo del governo?

“Per la nostra Costituzione, la vita, la libertà e la proprietà non ci possono essere tolte senza un giusto processo. ‘Giusto processo’ può significare diverse cose in differenti contesti, ma normalmente coinvolge dei giudici. Se lo stato vuole prendersi un tuo terreno per un uso pubblico lo può fare ma tu hai diritto ad un indennizzo deciso dal potere giudiziario. Se il governo vuole ascoltare le tue conversazioni telefoniche, la polizia deve ottenere un mandato da un giudice. Se il governo ti detiene, tu hai diritto ad un’udienza giudiziaria sulla legittimità della tua detenzione.

“E se tu devi essere punito con la pena di morte per le tue azioni, la relativa decisione viene presa in una corte di giustizia, dopo che la tua colpevolezza è stata determinata al di là di qualsiasi ragionevole dubbio e dopo una seconda fase processuale in cui si decide se meriti la punizione ‘ultimativa’.”

Nel prosieguo dell’articolo, la Divoll si dedica ad alcune disquisizioni sulla portata della Costituzione, che protegge sicuramente Americani e stranieri sul suolo americano, ma probabilmente anche gli Americani sul suolo straniero, come al-Awlaki nello Yemen.

A noi non interessa tanto discutere se le accuse di terrorismo nei riguardi di Anwar al Awlaki siano fondate, se il suo diritto alla vita sia effettivamente protetto dalla Costituzione americana, quanto sottolineare che la pratica degli ‘omicidi mirati’ viola i diritti umani fondamentali, a prescindere dalla nazionalità degli ‘obiettivi’ designati. Come abbiamo osservato nel n. 178, si tratta infatti di una forma di pena di morte priva di processo, senza limiti geografici e irrispettosa della sovranità altrui, che comporta inevitabilmente delle ‘vittime collaterali’ tra la popolazione civile innocente e inconsapevole.

 

 

9) RIPRENDE PIGRAMENTE IL RIESAME DEL CASO DI TODD WILLINGHAM

 

E’ ripresa, almeno formalmente, la verifica del caso di Cameron Todd Willigham da parte della Commissione per le Scienze Forensi del Texas. Verifica che fu interrotta nel settembre scorso da un intervento del governatore Rick Perry. Potrebbe essere confermato che le prove con cui fu condannato a morte Willingham per l’uccisione delle sue figliolette sono prive di qualsiasi fondamento scientifico.

 

La Commissione per le Scienze Forensi del Texas il 23 aprile ha ripreso ad incaricarsi del caso di Cameron Todd Willingham, messo a morte in Texas nel 2004 con l’accusa di aver fatto perire le sue tre figliolette incendiando la propria casa nel 1991 per far dispetto a sua moglie.

Ricordiamo che il 2 settembre scorso, due giorni prima che la Commissione si riunisse per un’udienza pubblica sul caso Willingham, il Governatore del Texas Rick Perry ne sostituì il presidente provocando un rinvio a tempo indeterminato della revisione del caso. Perry, insieme al presidente sostituì altri due membri della Commissione e successivamente un ulteriore membro (v. n. 173).

Il governatore fu accusato da più parti di aver interrotto il riesame del caso di Cameron Todd Willingham per ragioni politiche in periodo pre-elettorale. Allo stesso governatore è stata ascritta una parte di responsabilità per l’esecuzione di Willigham, dal momento che gli negò la grazia o un rinvio dell’iniezione letale. Ciò pur essendo stata prospettata l’innocenza del condananto nella perizia di un esperto giunta sul suo tavolo.

La Commissione per le Scienze Forensi del Texas ampiamente ristrutturata ha ricominciato a lavorare con molta calma sul caso Willingham, limitandosi per ora a nominare un panel di 4 membri (tra i 9 componenti la Commissione) che si dovranno incaricare della perizia fatta nel 2008 dall’autorevole esperto di incendi del Maryland Craig Beyler. Perizia che ha smontato pezzo pezzo il rapporto degli ‘esperti’ texani a carico di Willingham, utilizzato nel processo per ottenere la sua condanna a morte.

Il panel è formato nuovo presidente della Commissione, John Bradley, di professione accusatore, Lance Evans, un avvocato penalista, il medico forense Nizam Peerwani, la tossicologa  Sarah Kerrigan. Solo la Kerrigan già faceva parte della Commissione prima dell’epurazione eseguita dal governatore Perry.

Forti critiche ha suscitato la decisione del presidente Bradley di tenere le sessioni sul caso Willingham in  segreto, invece di aprirle al pubblico, come avrebbe dovuto essere prima dell’epurazione dall’anno scorso.

 

 

10) GLI ABOLIZIONISTI CATTOLICI STATUNITENSI INCALZANO LA GERARCHIA

 

I vescovi degli Stati Uniti da tre anni a questa parte dimenticano di includere l’opposizione alla pena di morte nelle loro articolate dichiarazioni in difesa della vita umana. Gli abolizionisti cattolici lo hanno rilevato senza mezzi termini in un editoriale rivolto in primo luogo alla Conferenza Episcopale USA

 

Catholics Against Capital Punishment (Cattolici Contro la Pena di Morte) opera da 18 anni negli Stati Uniti per l’abolizione della pena di morte avendo come controparte non solo gli stati che usano ancora la pena capitale ma, negli ultimi tempi, anche la stessa Gerarchia cattolica negli USA.

L’8 aprile tale organizzazione ha fatto uscire sulla propria newsletter un editoriale fortemente critico nei riguardi della Conferenza Episcopale statunitense. Al massimo organo della Gerarchia si contesta la ripetuta omissione di includere “sempre e dovunque”  l’opposizione alla pena di morte nel messaggio in difesa della vita umana.

Infatti negli ultimi tre anni le dichiarazioni e i comunicati stampa rilasciati dal Comitato per la Vita in seno alla Conferenza Episcopale – come anche i materiali utilizzati nell’annuale mobilitazione  “Mese per la Vita” che coinvolge le parrocchie - contengono riferimenti a numerose questioni riguardanti la vita umana – quali l’aborto, l’eutanasia, il suicidio assistito, le unioni omosessuali, la fecondazione in vitro, le malattie trasmesse per via sessuale, la contraccezione – ma ‘non una parola riguardo alla pena di morte’.

“Tali omissioni” continua l’editoriale, “offuscano quello che dovrebbe essere un chiaro ritratto delle preoccupazioni della nostra Chiesa riguardo alla vita umana in tutti i suoi stadi. Tutto ciò può causare confusione nella mente dei Cattolici, e può rendere meno credibile l’immagine della Chiesa nel pubblico e nei media.

“Siamo preoccupati che trascurando la questione della pena di morte nei suoi programmi e nelle sue dichiarazioni, il Comitato per la Vita ignori la saggia raccomandazione offerta tre decenni fa dai vescovi statunitensi nella loro storica Dichiarazione sulla Pena di Morte del 1980. In essa, i vescovi affermavano che esprimendo la loro opposizione alla pena di morte, essi intendevano rimuovere ‘una certa ambiguità’ riguardo all’affermazione della nostra Chiesa della santità di ogni vita umana.”

La forte uscita dei Catholics Against Capital Punishment in aprile, segue una lettera di sollecitazione  da loro inviata il 2 dicembre scorso al cardinale texano Daniel DiNardo, neo presidente del Comitato per la Vita della Conferenza Episcopale, (v. punto 13 in http://www.cacp.org/cacpsnewsletter.html ).

Speriamo che le pressioni esercitate sui vescovi americani dall’organizzazione abolizionista cattolica servano a smuovere un’atmosfera stagnante.

Speriamo che la Gerarchia statunitense non dimentichi, per quieto vivere, il chiarissimo messaggio abolizionista formulato, via via intensificato e sempre reiterato dal precedente pontefice.

Ricordiamo che Giovanni Paolo II  – pressato per anni da noi abolizionisti - finì per schierarsi al nostro fianco nel 1987, incurante delle aspre critiche che riceveva da più parti.  Rimandiamo a questo proposito all’articolo “Papa Wojtyla e la pena di morte” comparso – esattamente cinque anni fa - nel n. 128. Articolo in coda al quale scrivevamo: “Non lasceremo in pace il nuovo pontefice, così come abbiamo fatto con Giovanni Paolo II” anche se “le premesse ci fanno pensare che non sarà facile entrare in risonanza con Joseph Ratzinger.”

Noi, come il complesso del movimento abolizionista, dobbiamo ammettere di non aver dato un seguito adeguato ai propositi che si fecero allora… 

Occorre recuperare.

Fortuna che nel frattempo agiscono organizzazioni come Catholics Against Capital Punishment.

11) ANCORA SULL’ERGASTOLO: LA POSIZIONE DI AMNESTY

 

Continuiamo una riflessione sull’ergastolo senza possibilità di liberazione, in relazione ai diritti umani, iniziata nel n. 177 dopo il lancio di una campagna contro l’ergastolo da parte di detenuti statunitensi. Questa volta riportiamo un articolato contributo sulla posizione di Amnesty International che fino ad ora non ha ritenuto di prendere una posizione nettamente contraria all’ergastolo in tutti i contesti in cui si trova ad operare. Ci proponiamo di esaminare in seguito anche la situazione degli ergastolani in Italia.  

 

Sulla pena dell’ergastolo, che ha aspetti in comune con la pena di morte, i tempi sono maturi per una approfondita riflessione di principio alla luce della problematica dei diritti umani.

Nel frattempo gli abolizionisti hanno bisogno di tracciare dei criteri di riferimento provvisori in relazione all’ergastolo almeno nelle situazioni in cui l’abolizione della pena di morte ha come contropartita l’introduzione del carcere a vita senza possibilità di liberazione.

Per esempio Amnesty International fino ad ora ha ritenuto di non prendere una posizione sempre e comunque contraria all’ergastolo.

Facendo seguito all’articolo “C’è un’altra pena di morte: che cosa ne pensate?” comparso nel n. 177 (1), in cui abbiamo espresso le nostre considerazioni in merito alla reclusione a vita, pubblichiamo un ampio estratto del contributo di Anna Foti sulla posizione di Amnesty International riguardo all’ergastolo senza possibilità di liberazione sulla parola (2).

Ci proponiamo di continuare il discorso sull’ergastolo nei prossimi numeri occupandoci di quello che avviene in Italia: alcuni dei circa 1.500 ergastolani nel nostro paese non usciranno mai dal carcere perché non ammessi ai benefici ordinariamente accordati ai detenuti (permessi premio, semilibertà, affidamento ai servizi sociali…)

 

Carcere a vita e libertà sulla parola (LWOP) di Anna Foti  (3)

 

Ergastolo perpetuo, pena perpetua, condanna all’ergastolo senza possibilità di rilascio, reclusione a vita in un carcere di massima sicurezza. In una sigla LWOP (Life Without Opportunity of Parole). […]

Dopo la pena di morte, la condanna più dura che una persona possa subire e che un tribunale possa pronunciare. Essa è prevista all’interno di numerosi ordinamenti penali tra cui quello del Burkina Faso, del Kenya, del Sudafrica, dell’India, della Georgia, della Corea del Sud, della Tanzania, dell’Australia, degli Stati Uniti e, in Europa, negli ordinamento di Bulgaria, Svezia, Ucraina e Regno Unito. E’ comminata prevalentemente per omicidio volontario e in caso di recidiva. La posizione di AI nei confronti di questa pena, laddove non sia riconosciuta la possibilità di revisione e di libertà condizionale, è questione dibattuta da tempo.

Lo scorso marzo il Comitato Esecutivo Internazionale (IEC) del movimento ha posto, accanto al caposaldo dell’opposizione in caso di reato commesso da minorenni, il nuovo impegno in opposizione alla sua pronuncia nei paesi dove non vige la pena di morte. Nei paesi in cui la pena capitale viene praticata, invece, AI si limiterà a non opporsi alla LWOP, atteso che il suo utilizzo potrebbe, ed in molti casi è, rivelarsi alternativo alla portata irreversibile della pena capitale. […] Pur richiamandosi alla tutela del minore reo non condannabile a morte o all’ergastolo senza possibilità di libertà condizionale (art. 37 della Convenzione dei Diritti del Fanciullo) e agli standard internazionali in materia di revisione del processo, AI non [… ha] mai assunto una posizione tout court contro l’ergastolo [...]

La campagna permanente contro la pena di morte, dunque, induce il movimento a non poter condurre una vera e propria campagna contro l’ergastolo senza libertà condizionale, ossia ad assumere una posizione tattica rispetto ad esso nei paesi in cui vige ancora la pena di morte. Opportuno considerare altresì che, laddove siano assicurate delle condizioni di detenzioni dignitose, la revisione del processo e la funzione rieducativa della pena, in linea di principio neanche gli standard internazionali inquadrano l’ergastolo a priori come trattamento disumano e degradante o come violazione assoluta dei diritti umani, come invece accade per la pena di morte o per l’ergastolo pronunciato per soggetti minorenni. Il Patto per i Diritti Civili e Politici del 1966 nei suoi articoli 10 e 14 definisce essenziale l’obiettivo della rieducazione e della riabilitazione sociale della persona detenuta e dispone un trattamento favorevole per i detenuti di minore età. Dunque assicurati questi principi l’ergastolo non appare vietato dalle norme internazionali. Alla stessa conclusione si giunge dalla lettura dei dettami dello Statuto della Corte Penale Internazionale laddove negli artt. 77 e 110 si evince che l’incarcerazione a vita può essere irrogata in caso di estrema gravità del crimine commesso e in ragione delle circostanze individuali del condannato.  [Lo statuto] dispone, altresì, il riesame da parte della Corte scontati i 2/3 della pena o 25 anni in caso di ergastolo, (AI index: POL 30/018/2006).

Alla luce di ciò la decisione assunta nei mesi scorsi dall’IEC pare orientata alla difesa del diritto alla vita dei detenuti che, ancorché senza possibilità di rilascio, potrebbero essere condannati all’ergastolo piuttosto che a morte. Una ragione strategica e di opportunità che consente di avere una posizione di netta opposizione alla LWOP solo laddove il pericolo di pena capitale non sussista. Una ragione strategica che, tuttavia, al contempo non consente neppure [un richiamo agli standard in chiave di] lobby per l’introduzione della possibilità di libertà condizionale laddove invece l’ergastolo rappresenta l’alternativa alla pena di morte.

Una decisione che ha deluso le aspettative di alcuni i quali lamentano l’incoerenza della stessa e chiedono che la questione venga nuovamente posta in discussione verso una linea di policy che operi nei confronti dell’abolizione della pena capitale senza trascurare di inquadrare tra le sue posizioni anche la LWOP come violazione dei diritti umani. Una critica condivisibile e pienamente ricevibile a cui l’IEC potrà rispondere, come ha già fatto recentemente alla sezione tedesca, con argomentazioni strategiche e tattiche [...] Una delle prospettive da cui guardare, da questo punto di partenza segnato a marzo, potrebbe essere proprio quello di una posizione anche sul fine ultimo delle pene detentive. Un aspetto più che mai nevralgico per una risoluzione, questa volta definitiva, della questione. Magari avendo, nel frattempo, azzerato il numero dei paesi mantenitori della pena capitale (59). E su questo auspicio siamo sicuramente tutti d’accordo.

________________________

(1) La nostra riflessione è conseguita al lancio della campagna contro la carcerazione a vita da parte del gruppo The Other Death Penalty Project formato da detenuti statunitensi condannati all’ergastolo.

(2) Ringraziamo Roberta Aiello di averci inviato il contributo di Anna Foti ed un’ampia documentazione sul dibattito all’interno di Amnesty International riguardo all’ergastolo.

(3) Estratto non rivisto dall’autrice

 

12) NOTIZIARIO

 

Texas. Nessuna nuova dalla Corte Suprema federale per Hank Skinner. Secondo le previsioni la Corte Suprema USA avrebbe dovuto far sapere nella seconda metà di aprile  la sua decisione di entrare o non entrare in merito all’ultimo ricorso presentato da Henry “Hank” Skinner, condannato a morte in Texas e arrivato il 24 marzo ad un’ora dall’esecuzione, poi sospesa. Ricordiamo che Skinner chiede l’autorizzazione ad intentare una causa civile nei riguardi dell’accusa che si ostina a negare il consenso per lo svolgimento di alcuni test del DNA. I test potrebbero provare la sua innocenza spostando su un’altra persona la responsabilità dei tre omicidi che gli sono stati attribuiti (v. n. 178). Invece il mese di aprile si è concluso lasciando Skinner nella sua tremenda incertezza. Comunque il ritardo della Corte Suprema può essere interpretato in senso moderatamente positivo: potrebbe essere il segno della volontà di alcuni giudici di affrontare il suo caso.

 

Usa. In elaborazione criteri riguardanti la detenzione indeterminata. A metà aprile si è saputo che l’amministrazione Obama sta elaborando criteri segreti che servano per decidere se i ‘sospetti terroristi’ catturati in ogni parte del mondo debbano essere processati ovvero detenuti a tempo indeterminato senza accusa e senza processo. I criteri riguarderebbero anche il tipo di detenzione, le modalità di interrogatorio ed altre questioni. Ciò consegue al lavoro della task force istituita da Barack Obama per affrontare la problematica dei prigionieri dopo che gli iniziali ‘ordini esecutivi’ del nuovo presidente avevano abolito alcune pratiche dell’amministrazione Bush criticate dai difensori dei diritti umani.  La relativa bozza conterrebbe anche la previsione che alcune persone catturate in futuro possano essere detenute e interrogate oltremare. Ciò avverrebbe nell’immediato molto probabilmente nella malfamata prigione di Bagram in Afghanistan (invece che a Guantanamo o nella prigioni segrete della CIA). Sembra che vi siano delle perplessità nel Dipartimento di Stato rispetto alla definizione di criteri che potrebbero contribuire ad aumentare il numero di coloro che sono detenuti a tempo indeterminato in condizioni equivalenti a quelle di Guantanamo. Un ex consulente del Dipartimento di Stato sotto la presidenza Bush, John B. Bellinger III, ha obiettato che il ritardo nella fissazione di regole riguardo alla detenzione dei sospetti di terrorismo può incentivare la pratica degli ‘omicidi mirati’ in luogo della cattura dei sospetti. Ciò sarebbe dimostrato anche dal fatto che nel momento attuale vengano effettuate relativamente poche catture.

 

 

Questo numero è aggiornato con le informazioni disponibili fino al 30 aprile 2010

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