FOGLIO DI COLLEGAMENTO INTERNO
DEL COMITATO PAUL ROUGEAU
Numero 159 - Aprile 2008
SOMMARIO:
1) Convocazione dell’Assemblea Ordinaria dei Soci
2) Per due settimane in viaggio con Dale e Susan Recinella
3) Finisce la moratoria ma un giudice si oppone alla pena di morte
4) Panetti abbastanza sano di mente per morire?
5) Ad Arabia Saudita e Cina i record per le esecuzioni nel 2007
6) La tortura è parte integrante della strategia americana?
7) Richiesta di corrispondenza in Spagnolo
8) Richiesta di corrispondenza dalla Florida
9) Siamo entrati nella volata finale della petizione alla Cina!
10) Notiziario: Afghanistan, Cuba, Florida, Giappone, Iraq, Usa
1) CONVOCAZIONE DELL’ASSEMBLEA ORDINARIA DEI SOCI
L'Assemblea ordinaria dei Soci del Comitato Paul Rougeau/Ellis One Unit è convocata per domenica 15 giugno 2008 alle ore 10:00. L’Assemblea si terrà in Firenze presso l’abitazione di Loredana Giannini, Via Francesco Crispi, 14. L’ordine del giorno è il seguente:
1. Relazione sulle attività svolte dopo l’Assemblea del 20 maggio 2007;
2. situazione iscritti al Comitato Paul Rougeau, gestione dei soci;
3. illustrazione ed approvazione del bilancio per il 2007;
4. revisione delle quote associative;
5. eventuali dimissioni dal Consiglio direttivo ed elezione di nuovi membri del Consiglio direttivo per ricoprire i posti vacanti.
Eventuale breve sospensione dei lavori per consentire una riunione del nuovo Consiglio direttivo e il rinnovo delle cariche sociali.
6. rilancio delle vendite del libro di Marco Cinque "Poeti da morire" e del libro “Muoio assassinato questa notte” a cura del Comitato Paul Rougeau;
7. eventuale prosieguo dell’impegno del Comitato Paul Rougeau a supporto del caso legale di Gerald Marshall condannato a morte in Texas;
8. scelta di un nuovo corrispondente dal braccio della morte, dato che Kenneth Foster Jr. ha ottenuto la commutazione della sentenza e si trova in un carcere ‘normale’;
9. redazione e impaginazione del Foglio di collegamento;
10. rapporti con Amnesty International, collaborazione con la Coalizione Mondiale Contro la pena di Morte e con altre organizzazioni abolizioniste; in particolare con la Coalizione Italiana Contro la Pena di Morte (Coalit) per un eventuale viaggio negli Stati Uniti;
11. discussione delle strategie abolizioniste anche alla luce della risoluzione per la moratoria approvata dall’ONU e della ripresa delle esecuzioni dopo la sentenza della Corte Suprema in merito alla costituzionalità dell’iniezione letale;
12. gestione del sito del Comitato;
13. discussione, programmazione e approvazione del prosieguo delle attività in corso; proposte di nuove attività da parte dei soci, programmazione ed approvazione delle stesse;
14. proposte rivolte ai nuovi iscritti di collaborare attivamente in iniziative consone alle loro rispettive possibilità ed esperienze;
15. raccolta fondi e allargamento della base associativa;
16. varie ed eventuali.
Firmato: Maria Grazia Guaschino, Presidente del Comitato Paul Rougeau
AVVERTENZE: La fine dei lavori è prevista per le ore 16 circa. Il luogo dell'Assemblea è raggiungibile dalla Stazione di Santa Maria Novella anche a piedi in 20’. Percorso: Stazione, Via Nazionale, P.zza Indipendenza, Via S. Caterina d’Alessandria. Arrivati all’incrocio col Viale S. Lavagnini lo si attraversa al semaforo e si prosegue lungo Via A. Poliziano che si percorre interamente, fino a sboccare in Viale Milton, in corrispondenza di un ponte sul Mugnone. Si attraversa il ponte e si giunge in Via XX Settembre; si gira a sn costeggiando il Mugnone fino ad incrociare, sulla ds, Via Crispi. Si gira dunque a ds e si percorre Via Crispi fino al n°14. Per chi preferisce l’autobus, dalla stazione le linee utili sono: 4 (direzione Poggetto, scendere in Via dello Statuto, parallela alla vicina Via Crispi ); 13 (dir. Piazzale Michelangelo, scendere in Via XX Settembre); 28 (dir. Sesto), scendere in Via dello Statuto. Tutti questi autobus si prendono alla fermata che si trova all'uscita della stazione dal lato sinistro, lato dove si trova la farmacia della stazione. Pernottamento: Coloro che vogliono pernottare a Firenze ci devono informare quanto prima della propria venuta in maniera da riservare per tempo le camere necessarie.
Per una migliore organizzazione, vi preghiamo di avvertirci in ogni caso delle vostra partecipazione anche se non intendete pernottare a Firenze.
Per chiedere tutte le informazioni organizzative e per prenotare il pernottamento a Firenze inviate un messaggio email a prougeau@tiscali.it
2) PER DUE SETTIMANE IN VIAGGIO CON DALE E SUSAN RECINELLA
La nostra Presidente Grazia Guaschino, dopo aver organizzato accuratamente nell’arco di un anno il tour in Italia di Dale e Susan Recinella, chiamati dai Padri Gesuiti a parlare nelle loro scuole, ha seguito gli ospiti americani nel loro viaggio in Italia durato per 15 giorni densi di incontri e di conferenze. Dale, cappellano laico nel braccio della morte della Florida, e sua moglie, psicologa, oltre a svolgere una preziosa opera di volontariato con i detenuti, parlano molto spesso in pubblico sia negli Usa che all’estero convinti che per il superamento della pena capitale è necessario cambiare la mentalità della gente. In perfetta sintonia linguistica ed emotiva con gli oratori, Grazia ha contribuito non poco al successo delle conferenze traducendo in Italiano passo passo ogni parola ed espressione della loro testimonianza. Siamo lieti di far partecipi i lettori all’avventura italiana di Dale e Susan, pubblicando l’articolo da lei preparato, contenente sia una sintesi degli argomenti trattati che alcune note tratte dal diario di viaggio.
Le conferenze di Dale e Susan Recinella
Dale Recinella comincia le sue conferenze cercando di mettere il pubblico a proprio agio, specie quando si tratta di giovanissimi: parla di Topolino (in Florida c’è il famoso parco Disney), delle belle spiagge, fa qualche battuta divertente. Questo però non ci deve trarre in inganno: poco dopo i discorsi si fanno seri.
Entrando in argomento, Dale di solito spiega agli ascoltatori come mai lui, di origine italiana, non parli la nostra lingua. Racconta del caso atroce degli immigrati italiani Sacco e Vanzetti ‘giustiziati’ sulla sedia elettrica alla fine degli anni Venti, e di come, per tenere i figli fuori dai guai, i suoi genitori avessero proibito a lui e ai suoi fratelli di imparare a parlare in italiano e di apparire così degli immigrati: “La pena di morte ha conseguenze negative remote e impensabili ed è ingiusta, irrimediabile, ricade solo sui poveri, sugli emarginati e spesso sugli innocenti”.
Dale descrive la vita nel braccio della morta della Florida: temperature altissime d’estate e quasi sotto zero d’inverno, dentro gabbie di due metri per tre: “Quale può essere lo standard di attenzione da parte di uno stato nei riguardi di uomini che tiene rinchiusi in gabbie in attesa di ammazzarli?”
Parla della trauma inatteso che subì quando gli fu chiesto per la prima volta di assistere un condannato nelle settimane che precedono la sua esecuzione. A questo punto precisa che né l’Amministrazione carceraria né altri, fino ad allora, avevano mai pensato di occuparsi dei familiari che arrivano da lontano a salutare il condannato per l’ultima volta. Cede a questo punto la parola a Susan che si occupa appunto di assistere i familiari dell’uomo che viene ucciso, prima e durante la sua esecuzione.
Le parole di Susan, ricche di sentimento e a volte spezzate dalla commozione, sono altrettanto incisive di quelle del marito. Susan parla della prima famiglia da lei assistita, raccontando come i numerosi parenti si fossero riuniti nella piccola chiesa cattolica durante l’esecuzione e di come le campane della chiesa protestante, dall’altro lato della strada, abbiano drammaticamente scandito l’esatto momento della morte dell’amato figlio e fratello. Susan descrive poi il pasto consumato più tardi a casa sua con questi familiari, durante il quale, come dopo un funerale, i fratelli e la mamma ricordano fra le lacrime i momenti belli dell’infanzia e le piccole avventure della giovinezza, quando ancora la vita scorreva positiva e serena.
Susan parla spesso di una donna che per 18 anni scrisse ogni giorno al marito condannato ingiustamente a morte, dice che costei le ha insegnato il valore dei voti coniugali: amarsi e rispettarsi in salute e in malattia, nella buona e nella cattiva sorte. Susan parla poi di un’anziana signora afro-americana, così povera da non poter andare a dire addio al marito prima dell’esecuzione, che poi lei andò a trovare nella sua baracca di legno vicino alla ferrovia. Le commosse parole della donna furono “Perché hanno dovuto ucciderlo? Perché non potevano lasciarlo vivere in carcere per il resto della sua vita? A parte mia madre, lui fu l’unica persona al mondo che mi abbia mai trattato bene”.
Susan suole infine raccontare la drammatica esperienza trascorsa con le tre giovani figlie di Arthur Rutherford, che hanno subito per due volte nel 2006 (la prima a gennaio, quando l’esecuzione del padre fu interrotta mentre era già legato al lettino con gli aghi in vena, la seconda e definitiva il 18 ottobre) il calvario dell’addio all’amatissimo papà. Tuttora palpitante nelle parole di Susan, la sua commossa testimonianza contagia inevitabilmente gli ascoltatori. “La pena di morte crea solo una nuova serie di vittime innocenti: i familiari dell’uomo giustiziato”, conclude.
Torna Dale, e parla del giorno di un’esecuzione: descrive la minuziosa perquisizione che tutti e lui stesso devono subire quando si recano alla “casa della morte”, spiega che è per evitare che qualcuno introduca un mezzo per consentire il suicidio del condannato, privando così lo stato del “privilegio” di ucciderlo. Racconta la raccapricciante vicenda di un uomo che tentò il suicidio in Oklahoma, fu salvato in extremis con spese ingenti da parte dello stato, solo per essere ucciso subito dopo: “La pena di morte non riguarda la giustizia ma il potere dei burocrati di uccidere legalmente i propri cittadini”.
Dale parla poi dell’orrendo effetto che la pena di morte ha anche sulle giovani guardie che sono costrette, come parte del loro lavoro, ad uccidere un uomo: “Dio non ci ha resi capaci di uccidere un uomo alle sei di sera sul posto di lavoro, per poi andare a casa e dormire tranquillamente”.
Un ottimo ulteriore argomento di Dale riguarda i familiari delle vittime dei crimini. Egli racconta di una giovane donna che assistette all’esecuzione dell’omicida della sua amatissima zia e che al termine dell’esecuzione, balzò in piedi gridando la sua delusione per aver scoperto che nulla era cambiato dopo la morte dell’assassino: non si era sentita guarita, non aveva provato sollievo. Aveva solo capito di essere stata presa in giro dallo stato per diciassette anni. La persona giustiziata in quel caso, altri non era che il marito della povera donna afro-americana visitata da Susan nella sua baracca vicino alla ferrovia.
Dale suole domandare a chi afferma di essere “comunque” favorevole alla pena di morte: “Saresti in favore alla pena di morte per tuo padre? Per tuo fratello? Per il tuo migliore amico? Perché le persone giustiziate sono sempre il padre, il fratello, il migliore amico di qualcuno. Se non sei in favore della pena di morte per tuo padre, per tuo fratello, per il tuo migliore amico, allora non puoi esserlo neppure per il padre, il fratello, il migliore amico di qualcun altro”.
E’ meraviglioso conoscere una coppia come questa, sapere delle loro attività e ascoltare direttamente la loro esperienza. E’ per me un grande onore essergli amica, un privilegio averli ospitati e aver avuto l’opportunità di vivere in me - traducendo ogni volta dall’Inglese passo passo - la testimonianza che hanno voluto dare.
I “semi” piantati in questi giorni in circa duemila persone daranno i loro frutti. Certamente molti dei giovani che hanno ascoltato questi discorsi sapranno che cosa obiettare a chi in futuro invocasse la pena di morte come possibile soluzione al problema della criminalità. Alcuni di loro potranno fare anche di più: diventare attivisti per accelerare il processo abolizionista.
Desidero esprimere la mia sincera gratitudine innanzitutto ai Padri Gesuiti e poi a tutti coloro che hanno collaborato al successo di questa importante iniziativa sia come organizzatori che come ascoltatori.
Note dal diario di viaggio
Sabato 12 aprile – Piove. L’aereo di Dale e Susan Recinella arriva in forte ritardo alla Malpensa. Guido ed io riusciamo a vedere i nostri amici solo dopo due ore d’attesa. La gioia di riabbracciarci è travolgente.
Domenica 13 aprile - Dale e Susan parlano durante l’omelia alla Messa del mattino nella parrocchia di San Giulio d’Orta a Torino. Dale, prendendo spunto dal tema del “Buon Pastore” racconta dell’incredibile redenzione di un ex serial killer che, nel corso di due anni, si trasforma da adoratore di Satana in un sincero credente, poco prima di finire “giustiziato”. Al termine della messa i parrocchiani si affollano commossi intorno a Dale e Susan.
Lunedì 14 aprile – Da Torino andiamo in treno Milano e siamo accolti al “Leone XIII” dalla rettrice e da altre autorità scolastiche. La conferenza comincia alle 11. Assistono circa 400 studenti, attentissimi e interessati. Molti di loro si soffermano dopo il termine previsto a fare domande e a stringere la mano ai relatori. Questa risposta da parte del pubblico giovane alla testimonianza di Dale e Susan, nei giorni successivi sarà la medesima in tutte le scuole. Prudentemente, in ogni istituto, prima delle conferenze le autorità scolastiche ci hanno sempre detto di avere dubbi sulla possibilità di tenere a freno centinaia di ragazzi per circa due ore e ci hanno esortati a rispettare rigorosamente il limite di tempo assegnatoci. Al termine degli incontri le stesse persone ci hanno confidato di essersi stupite della capacità di attenzione e di coinvolgimento degli studenti. Ma torniamo a Milano. Alla conferenza hanno assistito anche amici esterni, come il carissimo Paolo Cifariello, venuto da Piacenza, e altri soci e simpatizzanti del Comitato Paul Rougeau, tra cui Anna Rita Magri venuta dalla Svizzera e Tiziana Riva arrivata da Monza.
Martedì 15 aprile – L’appuntamento all’Istituto Sociale di Torino è per le 10. Ci riceve Antonello Famà, il preside della scuola, caro amico del Comitato e promotore della venuta di Dale in Italia. Con lui c’è la bravissima Paola Muzio che ha compiuto miracoli per organizzare il nostro tour fin nei minimi dettagli. Anche qui la conferenza ha un grande successo: gli studenti appaiono partecipi e commossi, molti fanno domande interessanti.
Mercoledì 16 aprile – La giornata è bellissima e partiamo per Palermo. Siamo subito accolti con calore al C.E.I. da Padre Sibilio e Padre Guerra. Padre Sibilio racconta a Dale la sua esperienza come cappellano in un carcere italiano, anche a contatto con criminali pericolosi. E’ commovente sentirlo narrare episodi di valore e di redenzione. Tra i due nasce subito una forte simpatia. Teniamo una prima conferenza la sera stessa nel grande auditorium: sono presenti genitori degli allievi, ex-allievi, alcuni ospiti esterni e giovani studenti.
Giovedì 17 aprile - La conferenza era prevista solo per gli studenti del triennio (i più “vecchi”), ma padre Sibilio cambia idea e ammette anche i giovanissimi: la chiacchierata è lunga per ragazzi di soli 14 anni, ma nonostante ciò tutti rimangono attentissimi e interessati. Anche la realizzazione della ‘cella virtuale’ del braccio della morte è molto apprezzata e numerosi ragazzi si attardano poi a commentarla. Durante il pranzo apprendiamo con dolore che la Corte Suprema Usa ha respinto il ricorso contro il metodo di esecuzione mediante iniezione letale. Dale ha le lacrime agli occhi, sa che questo significa la fine della moratoria di fatto e la ripresa a raffica delle esecuzioni. Nel pomeriggio, sotto un cielo plumbeo ci rechiamo in pullman a Messina, dove veniamo accolti dalla preside della scuola S. Ignazio, professoressa Marcella Ossino, e da Jenny, segretaria, economa e attivissima volontaria nel sociale.
Venerdì 18 aprile – Il tempo è più sereno e caldo e dopo la conferenza del mattino (cui prendono parte, oltre agli studenti del S. Ignazio anche giovani seminaristi), facciamo un giretto per le vie di Messina. Dall’epoca del terribile terremoto di un secolo fa (1908) il capoluogo è risorto sulle sue macerie e i Messinesi sono fieri e orgogliosi della loro bella città. Jenny ci fa da guida, da autista, da generosa ospite. Marcella ci fa visitare la scuola e ci dona una bella stampa antica.
Sabato 19 aprile – Saliamo sul treno, che a sua volta salirà sul traghetto, diretti a Napoli. A Napoli ci accoglie al binario Padre Beneduce, che da quel momento si trasforma in nostro angelo custode per tutto il soggiorno partenopeo. Ospitalissimo, disinvolto e simpatico, la sera invita a cena all’Istituto Pontano anche Roberta Aiello ed Ela Rotoli, del Coordinamento Pena di Morte di Amnesty International, le quali hanno espresso il desiderio di conoscere Dale e Susan.
Domenica 20 aprile – Unico giorno di riposo per noi. Viene dedicato, per esaudire il desiderio di Dale e Susan, alla visita di Capri. Il tempo, finora incerto e spesso piovoso, ci regala una giornata di sole stupenda.
Lunedì 21 aprile – Padre Beneduce ci chiede di tenere due conferenze consecutive: una per i più giovani del biennio e una per i ragazzi più grandi del triennio, a cui saranno presenti anche classi provenienti da altre scuole. Dale e Susan parlano e io traduco per 4 ore, mitigando un po’ gli argomenti e la crudezza di alcune descrizioni quando ci indirizziamo al gruppo più giovane. Dopo pranzo padre Beneduce ci accompagna in stazione per prendere il treno per Roma.
Martedì 22 aprile – Accompagnati da Giuseppe Lodoli, ci trasferiamo in auto nel quartiere romano dell’Eur, presso l’Istituto Massimiliano Massimo. Qui teniamo l’ultima conferenza per i Gesuiti.
Mercoledì 23 aprile – Dopo un pranzo e una “mini-conferenza” presso lo studio legale Baker & McKenzie, dove Dale aveva lavorato 10 anni fa per 2 anni e dove tutti i suoi ex-colleghi ci accolgono calorosamente, la sera ci rechiamo ad una sede periferica della Comunità di Sant’Egidio, in cui Carlo Santoro ha organizzato per noi l’ultima conferenza, aperta al pubblico. Nel quartiere Tuscolano la conferenza ha toni diversi dal solito: stiamo parlando a persone che vivono ogni giorno con un senso di paura per la violenza e la criminalità. Dale parla della sua paura di fronte alla massiccia immigrazione di detenuti e di malati di mente, spediti da Cuba negli Usa negli anni ’90, e dell’inutilità, anzi del danno, anche in quel frangente, della pena di morte. Commosso e interessatissimo il pubblico, che non ci lascia andare via neppure dopo la preghiera comune, durante la quale Dale rinnova la storia del serial killer pentito.
Giovedì 24 aprile – Incontriamo il cardinale Renato Raffaele Martino, Presidente della Commissione Pontificia Giustizia e Pace, che accoglie Dale e Susan con simpatia e parla appassionatamente della pena di morte: lui si batterà sempre contro questo relitto di barbarie. Dopo la preghiera in serata a Santa Maria in Trastevere con gli amici di Sant’Egidio ci incontriamo a cena con alcuni membri della Comunità più direttamente impegnati sul fronte della pena di morte.
Venerdì 25 aprile – Con le lacrime agli occhi, saluto i due meravigliosi amici americani e torno a Torino. Dale oggi concederà un’intervista a Radio Vaticana e poi i suoi impegni in Italia saranno finiti.
Dale e Susan Recinella sono rientrati in Florida il 26 aprile. Abbiamo calcolato che hanno assistito alle loro conferenze circa 1700 ragazzi e 300 adulti. Molti giovani ci hanno lasciato il loro indirizzo e-mail per continuare a ricevere notizie sulla pena di morte attraverso il nostro bollettino mensile. (Grazia)
3) FINISCE LA MORATORIA MA UN GIUDICE SI OPPONE ALLA PENA DI MORTE
Il 16 aprile, all’improvviso e con grande clamore nei media, si è appreso della sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti sul ricorso Baze v. Rees che contestava l’iniezione letale. In anticipo rispetto a quanto sperato dagli abolizionisti, la massima corte, con una maggioranza di 7 voti contro 2, ha dato via libera alla ripresa delle esecuzioni ferme fin dal 25 settembre del 2007. Non è stata però in grado di esprimere un’opinione largamente condivisa: i nove giudici che la compongono hanno scritto ben sette separate opinioni. Tra le opinioni della maggioranza spicca quella del giudice John Paul Stevens che – pur respingendo il ricorso Baze v. Rees – esprime l’urgenza di riconsiderare dopo trent’anni l’ammissibilità costituzionale della pena di morte in sé e per sé.Ma naturalmente, appena uscita la sentenza del 16 aprile, glistati più forcaioli si sono subito dati da fare per programmare oltre una dozzina di esecuzioni. La prima della quali per il 6 maggio, a solo tre settimane dalla sentenza.
La Corte Suprema federaleil 16 aprile ha posto termine alla moratoria di fatto delle esecuzioni negli Usa, che durava dal 26 settembre dello scorso anno, respingendo il ricorso Baze v. Rees contro l’uso dell’iniezione letale in Kentucky (1).
Baze e Bowling, condannati a morte in Kentucky, avevano sostenuto che il metodo per uccidere previsto nel loro stato comporta un ‘rischio non necessario’ di causare sofferenze al condannato. Nel loro ricorso contestavano l’uso del bromuro di pancuronio, un farmaco paralizzante che impedisce ad un condannato che rimanga cosciente per difetto di anestesia di manifestare dolore, dal momento che è possibile utilizzare una sola sostanza anestetizzante per causare la morte (v. n. 156).
Anche se approvata con la larga maggioranza di 7 voti contro 2, la sentenza Baze v. Rees non esprime però un’opinione condivisa: i nove giudici che compongono la Corte hanno scritto ben sette diverse opinioni. Sei per la maggioranza ed una per la minoranza (2).
Non è facile ricavare i contenuti essenziali dalla sentenza di ben 91 pagine, che riflette la difficoltà e la frammentazione della massima corte davanti alla questione posta da Baze e Bowling emerse chiaramente nell’udienza pubblica tenutasi il 7 gennaio. Udienza da cui era apparsa comunque altamente improbabile la piena accettazione della richiesta dei ricorrenti (v. n. 156).
Quel che è chiaro e certo è che il 16 aprile il ricorso Baze v. Rees è stato totalmente respinto.
“[…] i ricorrenti non sono riusciti a dimostrare che il rischio di sofferenza derivante da una scorretta utilizzazione di un protocollo per l’iniezione letale che [il medesimo ricorrente] ammette essere umano, e la mancata adozione di alternative non provate e non comprovate, costituisca una punizione crudele ed inusuale,” sintetizza il Giudice Capo John G. Roberts, all’inizio della sua opinione firmata anche dai giudici Kennedy ed Alito.
Altri quattro giudici hanno dichiarato di aderire alle conclusioni di Roberts, pur firmando opinioni autonome, portando a sette il numero dei giudici che respingono il ricorso Baze v. Rees.
Roberts precisa che un condannato a morte non può contestare efficacemente un metodo di esecuzione “soltanto mostrando che esiste una alternativa poco o marginalmente più sicura.” Invece deve esserci la prova che l’alternativa può prevenire un “sostanziale rischio di grave danno.” Uno stato può scegliere una nuova procedura, secondo Roberts, se dimostra che è fattibile, prontamente attuabile, e di fatto riduce significativamente il rischio di grave sofferenza.” Solo “se uno stato rifiuta di adottare tale alternativa in presenza di questi vantaggi documentati, senza una legittima ragione punitiva, per continuare col suo corrente metodo di esecuzione, allora il rifiuto dello stato di cambiare il suo metodo può essere visto come ‘punizione crudele e inusuale’ secondo l’Ottavo Emendamento.”
Con la sua sentenza, la Corte si è dunque rifiutata di affermare lo standard di “un rischio non necessario” (di causare grave sofferenza), come richiesto nel ricorso Baze v. Rees, limitandosi a ribadire che per rigettare un metodo di esecuzione deve esserci la prova che esso rappresenti un “rischio sostanziale di grave danno.”
La minoranza di due giudici che ha votato contro la sentenza, nell’opinione scritta dalla Giudice Ruth Bader Ginsburg, cui si è associato il giudice David H. Souter, avrebbe optato per una soluzione minimale: senza dichiarare incostituzionale il protocollo del Kentucky, rimandare il caso alla Corte Suprema del Kentucky per una riconsiderazione.
Un capitolo di grande rilievo della sentenza Baze v. Rees, giustamente sottolineato dai commentatori, è l’opinione di un giudice che, pur votando con la maggioranza, attacca frontalmente la pena di morte. in sé e per sé.
Con forza e lucidità il giudice John Paul Stevens espone in 18 pagine tutti gli argomenti (gli stessi avanzati dagli abolizionisti) che lo hanno portato a concludere che “è sicuramente arrivato il tempo per confrontare, in maniera spassionata ed imparziale, gli enormi costi imposti alla società delle battaglie legali nei casi capitali, con i benefici che [la pena di morte] produce.” Stevens rivela che i problemi sollevati da una ingiusta imposizione della pena di morte, dalla possibilità di errori e dalla contraddittorietà del motivo della retribuzione posto alla base delle esecuzioni (3), lo hanno convinto, nell’arco nella sua esperienza trentennale nella Corte Suprema, che la pena di morte rappresenta “l’ottusa e non necessaria estinzione della vita con un contributo solo marginale ad un qualsiasi percepibile scopo sociale o pubblico.” Pertanto, a suo avviso: “Una pena con un tale trascurabile vantaggio per lo Stato [è] evidentemente eccessiva ed [è da considerarsi] una punizione crudele e inusuale in violazione dell’Ottavo Emendamento” della Costituzione. (4)
Anche se la giurisprudenza fino ad ora accumulata dalla Corte Suprema lo ha portato a respingere il ricorso sull’iniezione letale, l’ottantottenne giudice Stevens scrive dunque apertamente di aver maturato una chiara opposizione alla pena di morte in sé e di ritenere che la Corte Suprema debba ora discutere per decidere se la pena capitale (ripristinata 32 anni fa anche con il suo voto favorevole) sia una punizione contraria alla Costituzione.
La netta sentenza del 16 aprile, riferita esplicitamente al solo metodo utilizzato in Kentucky (5), non annulla la possibilità di contestare i protocolli per l’iniezione letale previsti negli altri stati che adottano la pena di morte (tutti salvo il Nebraska) e nelle due giurisdizioni federali, anche se tali protocolli sono molto simili a quello del Kentucky. Ma da ora in poi sarà certamente molto più difficile contestarli.
Come era prevedibile, immediatamente dopo la pubblicazione della sentenza Baze v. Rees, gli stati più attaccati alla pena di morte si sono affrettati a chiedere di fissare numerose date di esecuzione per recuperare il tempo perduto. Il numero minimo, dopo il 1994, di 42 esecuzioni registratosi nel 2007 potrebbe dar luogo ad un recupero, con un vero e proprio affollamento della camere della morte, nella parte centrale del 2008, e ad un pesante bilancio di fine anno. In effetti il 30 aprile risultano già fissate ben 14 date di esecuzione in 7 stati (di cui la metà si considerano ‘serie’, cioè con poche speranze di un rinvio). Il primo ad essere ucciso dovrebbe essere William Lynd in Georgia il 6 maggio, a soli 20 giorni dalla sentenza del 16 aprile.
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(1) V. http://www.scotusblog.com/wp/wp-content/uploads/2008/04/07-5439.pdf
(2) Solo i giudici Kennedy (maggioranza) e Souter (minoranza) si sono limitati a sottoscrivere relazioni preparate da altri senza produrne di proprie.
(3) Se lo scopo della pena di morte è veramente quello di restituire la sofferenza causata dal criminale che uccide, perché mai ci preoccupiamo da anni e anni del dolore causato dal metodo di esecuzione? Si domanda Stevens.
(4) Le parole usate da Stevens ricalcano in parte quelle scritte dal giudice Byron White nel corpo della sentenza Furman v. Gorgia del 1976 con la quale fu ripristinata la pena di morte negli Stati Uniti.
(5) “In ragione delle precauzioni che il protocollo del Kentucky prevede, il rischio […] sottolineato dal ricorrente non è tanto sostanziale ed imminente da violare l’Ottavo Emendamento.”
4) PANETTI ABBASTANZA SANO DI MENTE PER MORIRE?
Scott Panetti, affetto da schizofrenia, uccise i suoceri nel 1992. Ha continuato ad essere un malato mentale grave durante il processo in cui gli fu consentito di assumere la propria difesa legale e nel quale fu condannato a morte. Lo è ancora oggi. Lo stato del Texas, che vuole comunque ucciderlo, nel corso di lunga battaglia legale ha conseguito un successo: il giudice federale Sam Sparks ha sentenziato che Panetti può essere ucciso perché le sue allucinazioni non gli impediscono di comprendere il legame tra gli omicidi che ha commesso e la sua condanna a morte. Gli avvocati di Scott Panetti si apprestano ad appellarsi contro la sentenza del giudice Sparks. Si spera che il caso Panetti alla lunga possa servire per orientare la Corte Suprema federale verso la proibizione della pena di morte per i malati mentali gravi.
Il giudice federale distrettuale Sam Sparks, facendo seguito ad alcune udienze pubbliche con audizioni di testimoni e di esperti tenutesi in febbraio, ha sentenziato il 26 marzo che Scott Louis Penetti è “gravemente malato mentale” ed era “sotto l’influenza della sua greve malattia mentale” quando uccise i suoceri nel 1992 ed è rimasto malato mentale quando ha chiesto ed ottenuto di difendersi da solo nel processo capitale in cui fu condannato a morte nel 1995. Tuttavia secondo Sparks il condannato è abbastanza sano di mente per poter essere ucciso. Le sue “allucinazioni non gli impediscono di cogliere il nesso causale tra gli omicidi e la sua sentenza di morte, e in effetti ha questa comprensione”. Peraltro la comprensione di Panetti “è del tutto chiaramente dimostrata dalla sua ragionata posizione che la pena sia ingiustificata: egli ritiene che lo stato non lo debba uccidere perché era malato mentale quando commise gli omicidi.”
Il giudice Sparks già nel 2004 aveva sentenziato che Panetti poteva essere ucciso in quanto capiva il motivo per cui veniva messo a morte, unica condizione posta dalla Corte Suprema, nel 1986, per fissare una data di esecuzione. Gli avvocati del condannato si erano appellati e il caso era arrivato fino alla Corte Suprema degli Stati Uniti.
A stretta maggioranza, frenata dai giudici più conservatori, la massima corte il 28 giugno del 2007 aveva adottato la minima opzione favorevole al condannato: non ne aveva proibito l’esecuzione ma aveva rimandato il caso alle corti inferiori chiedendo di verificare se la malattia mentale non avesse pregiudicato il senso della realtà di Panetti tanto da “non poter raggiungere una ragionevole comprensione del motivo dell’esecuzione.” Infatti, come scrisse il giudice Kennedy, “grossolane allucinazioni che derivano da una grave malattia mentale possono porre la consapevolezza del legame tra un crimine e la sua punizione in un contesto tanto lontano dalla realtà che la pena non corrisponde al suo proprio fine.” In effetti il condannato era convinto che lo stato lo vuole morto per impedirgli di predicare il Vangelo (v. nn. 146, 150).
L’attuale sconfitta di Scott Panetti avvia di nuovo il suo caso verso la Corte federale d’Appello del Quinto Circuito. Da questa, data la delicatezza della questione in gioco, molto probabilmente, passerà nuovamente alla Corte Suprema federale che – si spera – alla fine troverà il modo di concludere dignitosamente la vicenda di Panetti, un imputato schizofrenico che divenne avvocato di se stesso presentandosi in aula vestito con un costume rosso da cow-boy e una bandana, fece sproloqui incomprensibili e cercò di chiamare come testimoni in suo favore Gesù Cristo, il Papa, Kennedy e Ann Bancroft.
Peraltro, Panetti ha già percorso quasi tutta a sua via crucis giungendo a 24 ore dall’esecuzione il 4 febbraio del 2004.
Con una sentenza favorevole per Panetti la massima corte comincerebbe in qualche modo ad ammettere che la pena di morte non si addice ai malati mentali gravi. E questo, dopo la proibizione della pena di morte per i ritardati mentali (2002) e per i minorenni (2005), spingerebbe verso un ulteriore passo di civiltà il grande paese nordamericano.
La proibizione della pena di morte per i malati mentali gravi sarà certamente, presto o tardi, oggetto di una decisione della Corte Suprema federale, in conseguenza della maturazione etica della società (questo fenomeno, negato dai giudici più conservatori, viene chiamato negli USA ‘evoluzione degli standard di decenza’). Speriamo che il caso di Panetti aiuti a spianare la strada nella giusta direzione.
5) AD ARABIA SAUDITA E CINA I RECORD PER LE ESECUZIONI NEL 2007
Abbastanza incoraggianti sono i dati sulla pena di morte nel mondo relativi al 2007 diffusi a metà aprile da Amnesty International. Nello scorso anno ci sono state almeno 1.252 esecuzioni (contro le 1.591 esecuzioni documentate nel 2006). In Cina si è avuto il più alto numero di esecuzioni (almeno 470), ma il record di esecuzioni pro capite è detenuto dall’Arabia Saudita che ha messo a morte oltre 143 persone
In spaventosa crescita sono le esecuzioni in Iran, Arabia Saudita e Pakistan: secondo Amnesty nel 2007 l’Iran ha messo a morte almeno 317 persone, l’Arabia Saudita 143 e il Pakistan 135 (erano rispettivamente 177, 39 e 82 i numeri minimi di esecuzioni riportati per questi paesi nel 2006).
Ma dai dati diffusi da Amnesty International il 15 aprile (*), pur con la necessaria prudenza, si può concludere che nel mondo vi è stata probabilmente una diminuzione di esecuzioni e condanne capitali.
Nel 2007 Amnesty è riuscita a documentare 1.252 esecuzioni in 24 paesi, meno che nel 2006 (1.591 in 25 paesi) e 3.347 sentenze capitali in 51 paesi (meno che nel 2006, anno in cui ne contò un minimo di 3,861 in 55 paesi) .
Il numero record di esecuzioni documentate è come sempre quello della Cina: 470 (contro le 1010 del 2006). Anche se si ritiene che il numero reale di esecuzioni in Cina sia molto più alto, tali cifre suggeriscono che nel grande paese asiatico si sia effettivamente posto un freno alle esecuzioni come più volte dichiarato dalle autorità.
Il record delle esecuzioni pro capite (**) nel 2007 non spetta però alla Cina ma all’Arabia Saudita, che è seguita dall’Iran e dalla Libia.
In Iraq l’uso della pena di morte è in forte espansione: nel 2007 si sono registrate moltissime condanne a morte (almeno 199) e almeno 33 esecuzioni (***)
Il numero delle persone messe a morte dagli Stati Uniti si è ridotto a 42 (53 del 2006) a causa della moratoria di fatto istauratasi a fine settembre quando la Corte Suprema ha deciso di esaminare un ricorso sulla liceità costituzionale del metodo dell’iniezione letale, ma un recupero di esecuzioni potrebbe avvenire nel corso del 2008 (v. n. 155, e art. precedente).
Vi sono state esecuzioni, oltre che per omicidio, per reati di droga e reati economici, per reati sessuali e perfino per stregoneria: in Arabia Saudita con tale accusa è sto condannato a morte e decapitato il cittadino egiziano Mustafa Ibrahim.
In violazione ai trattati internazionali sui diritti umani, vi sono state almeno 5 esecuzioni di minorenni all’epoca del crimine in Iran (3), Arabia Saudita (1) e Yemen (1). Il più giovane dei giustiziati iraniani, all’epoca del reato aveva 13 anni.
_________________________________
(*) Due link alle statistiche di Amnesty si trovano nella pagina:
www.amnesty.org/en/news-and-updates/report/secrecy-surrounds-death-penalty-20080415
In italiano v. il comunicato:
www.amnesty.it/pressroom/comunicati/CS50-2008.html
(**) Spesso conquistato da Singapore
(***) Nel n. precedente avevano parlato erroneamente di almeno 199 esecuzioni in Iraq: il dato è da riferirsi alle condanne a morte.
6) LA TORTURA E’ PARTE INTEGRANTE DELLA STRATEGIA AMERICANA?
In linea di principio riservate ad un ristretto numero di individui e poste sotto le responsabilità del Presidente, forme di tortura vera e propria denominate ‘tecniche aspre di interrogazione’ fanno senza dubbio parte della strategia del governo americano dalla fine del 2001. Lo conferma uno stillicidio di rivelazioni che si susseguono da allora. Un documento del 2003, reso noto in aprile, rivela, in termini chiari ed agghiaccianti, la filosofia di illegalità e di impunità posta alla base della cosiddetta ‘guerra globale al terrore’ che consente un ampio ventaglio di violazioni dei diritti umani a cominciare dalla tortura. Bush ha recentemente posto il veto su una legge che, equiparando le ‘tecniche di interrogazione’ utilizzabili dal personale delle CIA a quelle permesse al personale militare, avrebbe reso illegali le più aspre forme di trattamento.
Amnesty International ripete instancabilmente lo slogan “più diritti più sicurezza” facendo finta di non sapere che i massimi esperti di strategia – nascosti sotto i paludamenti dell’obiettività accademica – sono molto più vicini a Machiavelli che alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.
I consigli dei professori di strategia vengono assorbiti dai politici i quali, per lo più in segreto ma qualche volta apertamente, non esitano a violare i diritti umani per salvaguardare la ‘sicurezza della Nazione’ o, più prosaicamente, per tutelare gli interessi dei potenti delle Terra.
In occasione degli attentati dell’11 settembre 2001, le parole di George W. Bush chiarirono al mondo che tutto era cambiato e che l’America avrebbe reagito con ‘tutti i mezzi necessari’ contro i suoi ‘nemici’. La ‘guerra al terrore’ dichiarata da Bush avrebbe comportato sia “incursioni sensazionali, visibili in televisione” che “operazioni coperte, di cui anche il successo resterà segreto.”
Le ‘operazioni coperte’ avevano fatto subito pensare alla cosiddetta ‘guerra sporca’ ampiamente collaudata dalle dittature dell’America meridionale: sparizioni, torture, esecuzioni extragiudiziali.
Una nutrita normativa di emergenza approvata rapidamente, quasi fosse già pronta, già negli ultimi mesi del 2001 (ordini presidenziali, Patriot Act, ‘memorandum’ più o meno segreti circolanti tra consulenti governativi e responsabili politici) aveva confermato, in buona misura, queste preoccupazioni tra gli attivisti per i diritti umani.
Soltanto a fine aprile del 2004 però, con l’esplosione nei media delle immagini raccapriccianti riprese nel carcere iracheno di Abu Ghraib, il grande pubblico si rese conto che i trattamenti crudeli, inumani e degradanti proibiti dall’articolo 5 Dichiarazione Universale dei Diritti Umani venivano applicati estesamente, tollerati se non addirittura voluti dall’Amministrazione statunitense.
Abbiamo di quando in quando svolto il doveroso compito di ricordare ai nostri lettori le violazioni dei diritti umani compiute, oltre che dai ‘terroristi', dagli Stati Uniti e dai loro ‘alleati’ nel corso della ‘guerra al terrore’ spesso soffermandoci sul problema dell’uso della tortura in quanto tale (v. ad es. nn. 105, 118, 119, 121, 123, 132, 142, 143, 148). Le dichiarazioni di Bush che l’America “non condona la tortura” sono state più volte smentite dai fatti e da documenti interni che dovrebbero rimanere segreti ma che, in un paese democratico come gli Stati Uniti, finiscono per affiorare periodicamente, per le richieste del Congresso e delle organizzazioni per i diritti civili, nonché per le incursioni dei media.
Vogliamo qui riportare alcune considerazioni inquietanti sulla tortura contenute in un memorandum preparato nel 2003 dal Dipartimento di Giustizia e riportate con grande rilievo dai massimi quotidiani statunitensi nel mese di aprile, non appena è stato tolto il segreto governativo su tale documento.
Il memorandum in questione fu mandato al Pentagono dal Dipartimento di Giustizia il 14 marzo del 2003. In esso si asseriva che le leggi federali che proibiscono l’aggressione, la mutilazione ed altri crimini non si applicano agli inquisitori che interrogano i prigionieri di al-Qaeda in virtù dell’autorità ultimativa che ha il Presidente, quale comandante in capo in tempo di guerra, di autorizzare tali trattamenti.
Del memorandum si sapeva da tempo ma è diventato di dominio pubblico il 1° aprile scorso dopo che il governo lo ha pubblicato integralmente in seguito ad un ricorso dell’ACLU (Unione Americana per le Libertà Civili) e ad una richiesta del Congresso.
Il documento fu redatto da John C. Yoo allora facente parte dell’Ufficio legale del Dipartimento della Giustizia ed ora professore di Legge nell’Università di Berkeley in California. Segue ed estende un analogo memorandum scritto dallo stesso Yoo nel 2002 per la CIA in cui si diceva tra l’altro che per poter parlare di tortura “la vittima deve subire un intenso dolore o sofferenza di un genere che sia equivalente al dolore che è associato con una ferita così grave da produrre probabilmente la morte, il collasso di un organo o un danno permanente che comporti la perdita di una significativa funzione fisica.” (Tale contorta definizione, nell’evenienza che si insistesse nel proibire la tortura, avrebbe comunque lasciato ampie possibilità di infierire sui prigionieri.)
Criticato da più parti, ora il professor John Yoo si difende energicamente confermando la correttezza dei suoi pareri legali di allora. Yoo contesta inoltre il Dipartimento di Giustizia per aver in seguito scritto nuove opinioni legali che lasciano nel vago la questione. “Occorre tracciare una linea di riferimento” dice Yoo in un’intervista on-line all’Esquire magazine. “Quello che il Governo fa è spiacevole. Lo è l’uso della violenza. Non lo nego. Ma credo anche che sfortunatamente fa parte del lavoro di un legale il dover tracciare a volte certe linee. Penso che avrei potuto esprimermi in un modo molto più gradevole ma avrei dovuto mantenermi sul vago.”
Con un impeccabile linguaggio tecnico, denso di citazioni e note a pié pagina, il memorandum del 2003 discute in 81 facciate un ampio ventaglio di situazioni a dir poco delicate, come l’uso di farmaci che alterano la mente o come il costringere un prigioniero ad accucciarsi appoggiato sulle dita dei piedi imitando una ranocchia.
Non si elude la domanda se il Presidente possa ordinare di cavare un occhio a qualcuno. Se si possano gettare contro il prigioniero acqua bollente, acidi o sostanze corrosive. Se sia consentito di tagliare impunemente a qualcuno un orecchio, il naso o un labbro, se sia lecito invalidargli la lingua o un arto. Tutte queste pratiche sono espressamente vietate dalla legge federale che proibisce le mutilazioni ma secondo Yoo sono parimenti lecite in tempo di guerra (di ‘guerra il terrore’, in particolare) se autorizzate dal Presidente quale comandante in capo. In una nota si precisa che il Quinto Emendamento della Costituzione, richiedente il ‘giusto processo’, “non si applica ad azioni che l’Esecutivo compie mentre combatte una compagna militare contro nemici della Nazione.”
Secondo la dottrina di Yoo, un addetto alle interrogazioni incorre in una condotta illecita solo quando applica le sue tecniche con malizia o in modo sadico.
Anche se non risulta che gli Americani abbiano compiuto mutilazioni e anche se il Dipartimento di Giustizia ha disconosciuto il documento in questione nove mesi dopo averlo inviato, è indubbio, secondo i commentatori, che esso sia servito – insieme all’analogo memorandum del 2002 - per dare una avallo legale alle cosiddette ‘tecniche di interrogazione’ effettivamente utilizzate man mano che si catturavano sospetti nemici degli Americani in Afghanistan e, successivamente, nei riguardi di detenuti in Iraq e in vari luoghi segreti. Queste ‘tecniche’, lo ricordiamo, anche se non prevedono mutilazioni sono in grado di infliggere tremende sofferenze alle vittime; le più spinte tra di esse costituiscono una vera e propria tortura: minacce di morte, deprivazione dal sonno e dalle cure, tecniche di manipolazione psicologica, uso di farmaci che alterano lo stato mentale, esposizione a temperature estreme, nudità, umiliazioni sessuali e religiose, pestaggi, costrizione prolungata in posizioni innaturali… fino all’immersione nell’acqua al limite della morte per annegamento (oggi nota come tecnica del waterboarding, nei manuali classici della tortura era chiamata ‘tortura del sottomarino’).
L’11 aprile il presidente Bush ha dichiarato che egli era al corrente delle discussioni tra le massime autorità governative sulle tecniche di interrogazione. Egli ha approvato gli incontri in materia che si tennero quando la CIA cominciò a preparare un programma di interrogazioni segrete che includeva la tortura del ‘sottomarino’ e altre tecniche coercitive. Bush nella sua intervista ha detto che non ci si deve stupire del fatto che i suoi più alti collaboratori, a cominciare dal vice presidente Cheney, discutessero i dettagli del programma di interrogazioni. “Ho detto al paese che lo facevamo,” ha dichiarato Bush. “E ho anche detto che tutto ciò era lecito. Avevamo le opinioni legali che ci autorizzavano a far ciò.” Durante questi incontri, secondo il Washington Post, fu approvata la tortura del sottomarino ma non la minaccia di seppellire vivo il prigioniero.
Come stano le cose al giorno d’oggi?
C’è più ordine in materia ma le ‘tecniche’ adottabili dalla CIA rimangono segrete e di esclusiva competenza del Presidente che si riserva, almeno in linea di principio, ogni libertà di decisione.
Infatti nel dicembre del 2005, dopo una controversia al calor bianco con la Casa Bianca, il Congresso approvò un testo legale detto Detainee Treatment Act (Atto per il Trattamento dei Detenuti) che obbliga i militari a limitarsi alle 19 tecniche contenute nel Manuale delle forze armate (Army Field Manual), riscritto in modo da proibire molte delle peggiori tecniche. Ma la Casa Bianca riuscì a tener fuori la CIA da questa legge e ribadì con il “Military Commissions Act of 2006” (Atto per le Commissioni Militari del 2006) la possibilità per la CIA di agire in base a sue proprie regole, pur proibendo a parole la tortura (v. nn. 132, 142, 143).
L’Ordine Presidenziale emesso da Bush nel luglio del 2007 in risposta ad una sentenza della Corte Suprema del 2006 sembrerebbe restringere le ‘tecniche di interrogazione’ adottabili, stabilendo che tutti i prigionieri devono essere trattati in conformità all’articolo 3 della Convenzione di Ginevra per i prigionieri di guerra (che vieta trattamenti degradanti ed umilianti). Tuttavia l’interpretazione della Convenzione di Ginevra viene lasciata esclusivamente al Presidente senza possibilità di controllo da parte delle corti.
L’ordine presidenziale del 2007 rimane segreto. Si è appreso che esso proibisce la costrizione a compiere atti sessuali e la minaccia di mutilazioni genitali ma non si sa quali ‘tecniche’ siano ancora permesse da Bush.
Una legge approvata da tutti e due i rami del Congresso quest’anno restringeva drasticamente le tecniche di interrogazione utilizzabili dalla CIA imponendo che fossero conformi a quelle, descritte nell’Army Field Manual, consentite ai militari. Ma il presidente Bush l’8 marzo ha posto il veto su tale legge affermando che le tecniche ‘aspre’ di interrogazione sono state efficaci per prevenire attacchi terroristici. “La legge ci priverebbe di uno degli strumenti più preziosi nella guerra al terrore: il programma della CIA per detenere ed interrogare leader terroristi chiave ed esecutori," ha precisato Tony Fratto, portavoce della Casa Bianca.
Insomma, la minaccia della tortura nei riguardi dei nemici degli Americani deve continuare ad aleggiare indeterminata ma ben chiara su tutti.
Si è più volte affermato che le ‘tecniche di interrogazione’ più spinte, come il waterboarding, sono riservate ai prigionieri di ‘alto valore’ che assommerebbero a non più di qualche decina. Ma anche le tecniche ‘più dolci’, come la nudità e la detenzione la buio, la deprivazione dal sonno e l’esposizione continua ad una musica assordante possono causare terribili sofferenze e danni psichici permanenti.
Il trattamento carcerario riservato in questi anni a migliaia di detenuti a Guantanamo, ad Abu Ghraib, a Bagram e in alti luoghi di detenzione per stranieri sparsi nel mondo, dimostrano che se non la tortura, almeno i trattamenti crudeli, inumani e degradanti sono da considerare un fenomeno di massa.
7) RICHIESTA DI CORRISPONDENZA IN SPAGNOLO
Virgilio Maldonado, uno dei tanti condannati a morte del Texas, si trova in un grave stato psichico ed ha urgente bisogno di amicizia e di aiuto. Lo afferma un suo vicino di cella. Chi volesse corrispondere con Virgilio deve farlo in lingua spagnola, l’unica che lui riesce a leggere e a scrivere.
Purtroppo Virgilio Maldonado, rinchiuso nel braccio della morte del Texas, soffre di crisi depressive ed ha già tentato il suicidio. Un detenuto suo vicino di cella si è detto molto preoccupato e teme che possa nuovamente commettere un gesto del genere. Perciò ha deciso di chiedere aiuto per suo conto.
Questa richiesta di aiuto ci giunge da Elena Gaita che, a sua volta, l’ha ricevuta dal vicino di cella di Maldonado tramite la German Coalition to Abolish the Death Penalty.
Virgilio, di 42 anni, non ha molti amici di penna, in quanto l’unica lingua che conosce è lo Spagnolo. Non parla, né legge, né scrive in Inglese.
Elena sarebbe molto grata a chiunque intraprendesse una corrispondenza con Virgilio. Sicuramente non sarà un’esperienza semplice, dice, ma indubbiamente di inestimabile valore per entrambe le parti.
Scrivete dunque in Spagnolo a Virgilio, il suo indirizzo è:
Mr. Virgilio Maldonado #999249
Polunsky Unit
3872 F.M. 350 South
Livingston, TX 77351 USA
8) RICHIESTA DI CORRISPONDENZA DALLA FLORIDA
La nostra amica Elisabetta Menini ci chiede caldamente di trovare dei corrispondenti per Roger Lee Cherry, un condannato a morte della Florida ritardato mentale. Pubblichiamo volentieri la richiesta di Betta, sperando che qualche lettore risponda all’appello.
Ciao a tutti, ho ricevuto via e-mail una richiesta di corrispondenza per Roger, un detenuto nel braccio della morte in Florida. La persona che mi ha scritto corrisponde con lui da 15 anni e sta disperatamente cercando altri penpal per Roger, che è molto solo ed ha bisogno di persone che gli siano vicino e che gli vogliano bene. Roger Lee Cherry è un uomo di 57 anni, da 21 rinchiuso nel braccio della morte. È una persona di buoni sentimenti e capace di stabilire una vera e sincera amicizia, nonostante il suo ritardo mentale. Le sue lettere sono molto semplici, ma sincere. Ecco il suo indirizzo:
Mr. Roger Lee Cherry, #021641
Correctional Institution
7819 NW 228th Street
Raiford, FL 32026-4430 U.S.A.
L’amica inglese di Roger mi ha chiesto di metterla in contatto con chi decidesse di scrivere al detenuto, quindi chiedo a chi sia interessato a scrivere a Roger di avvertirmi, se possibile, con un e-mail da titolo “Roger Cherry” all'indirizzo betta_nico@libero.it L’unione, e la collaborazione, nel sostegno ai detenuti fanno la forza! (Betta)
9) SIAMO ENTRATI NELLA VOLATA FINALE DELLA PETIZIONE ALLA CINA!
La petizione contro la pena di morte in Cina, lanciata in occasione delle Olimpiadi di Pechino dalla Coalizione Mondiale Contro la Pena di Morte, si concluderà entro il mese di maggio. Vi invitiamo caldamente a fare un ultimo sforzo per assicurare una robusta partecipazione del nostro Comitato
Il Comitato Paul Rougeau è impegnato per promuovere la petizione al Presidente cinese Hu Jintao, lanciata, in occasione delle Olimpiadi di Pechino, dalla Coalizione Mondiale Contro la Pena di Morte, di cui fa parte il nostro Comitato. La petizione è il nucleo della Campagna “Cina 2008: certi record non sono da perseguire” che chiede alla Cina una moratoria delle esecuzioni in vista dell’abolizione della pena di morte. Ecco le istruzioni per partecipare alla campagna che abbiamo illustrato nel numero 157.
Le istruzioni per aderire “on-line” si trovano nel nostro sito all’indirizzo:
Molto efficacemente si può partecipare alla petizione cartacea, riempiendo con tutti i dati richiesti e con la firma dei sottoscrittori il modulo riprodotto in fondo a questo Foglio di Collegamento. I moduli riempiti devono essere inviati per posta, al più presto e comunque entro il corrente mese di maggio, alla:
World Coalition Against the Death Penalty - ECPM
197/199 avenue Pierre Brossolette
92120 MONTROUGE FRANCIA
Sarà utile – per consentirci di valutare l’entità e l’andamento della mobilitazione - che ci facciate sapere il numero di sottoscrizioni da voi raccolte o a voi notificate, scrivendoci al nostro indirizzo postale ovvero inviando un messaggio e-mail all’indirizzo prougeau@tiscali.it
Traduzione delle petizione, ad uso del lettore: Al Presidente della Repubblica Popolare Cinese Hu Jintao.Eccellenza, secondo la Carta Olimpica, lo spirito dei Giochi si basa sul “rispetto dei fondamentali principi etici universali” e mira a mettere lo sport “al servizio dello sviluppo armonioso dell’uomo con l’obiettivo di promuovere una società pacifica interessata alla protezione dell’umana dignità”. Nonostante ciò, secondo le informazioni ottenute dalla Fondazione americana ‘DUI HUA’ si stima che in Cina nel 2006 siano state giustiziate dalle 7.500 alle 8.000 persone. La pena di morte in Cina comporta:- circa l’80% delle esecuzioni conosciute nel mondo nel 2006;- il ricorso continuo al segreto di Stato sui dati delle condanne a morte e delle esecuzioni;- il ricorso frequente alla tortura al fine di estorcere confessioni;- l’accumulo di errori giudiziari in seguito a processi sommari ed iniqui. Tuttavia, notiamo con interesse che il Governo cinese ha recentemente introdotto una riforma importante che prevede la revisione da parte dalla Corte Suprema di tutte le condanne a morte. Tale riforma potrebbe portare ad una significativa riduzione dell’applicazione della pena di morte. Seguendo l’esempio di Hong Kong, che ha abolito la pena di morte nel 1993, e della maggioranza dei Paesi del mondo, la Cina può e deve mettere fine a questa pratica. Noi cittadini del mondo chiediamo alle autorità cinesi di eliminare il segreto di Stato e di assicurare la massima trasparenza nell’applicazione della pena di morte in Cina. Conformemente alla Risoluzione per una moratoria sulla pena di morte adottata il 18 dicembre 2007 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che chiede a tutti gli Stati che ancora praticano la pena capitale di istituire una moratoria delle esecuzioni in vista della totale abolizione della pena di morte, invitiamo le autorità di Pechino a seguire la tendenza universale verso l’abolizione, stabilendo una moratoria immediata delle esecuzioni. Rispettosamente
10) NOTIZIARIO
Afghanistan. Processi iniqui e 100 sentenze capitali confermate. Da una denuncia dell’organizzazione per i diritti umani Human Rights First resa nota in aprile, apprendiamo che decine di Afgani, detenuti per anni dagli Americani a Guantanamo e a Bagram, sono attualmente sottoposti a processi sommari e segreti in Patria. Senza poter vedere e controinterrogare i testimoni, i detenuti ricevono sentenze che arrivano fino a 20 anni di detenzione in processi che durano meno di un’ora. Accuse preconfezionate vengono passate dagli Americani ai giudici afgani. Di 82 processati da ottobre ad oggi, 65 sono stati condannati e 17 assolti. Altri 120 sono in attesa di processo. Il 16 aprile, a sorpresa, la Corte Suprema afgana ha annunciato alla stampa di aver confermato circa 100 sentenze di morte per rapimento, detenzione di ostaggi, omicidio e stupro, rompendo il segreto assoluto che circonda la pena capitale nel paese (15 fucilazioni avvennero in ottobre senza alcun preavviso.) I Talebani - che peraltro utilizzano largamente la pena capitale e compiono uccisioni arbitrarie - sostengono che l’80% dei condannati a morte sono semplicemente dei militanti catturati mentre combattevano ‘per la libertà’ e si appellano alle Nazioni Unite, all’Unione Europea, e alla Croce Rossa affinché impediscano l’esecuzione dei prigionieri. Gravi preoccupazioni per la regolarità dei relativi processi sono state espresse da Human Rights Watch. “I processi vengono fatti in segreto, senza la presenza di avvocati difensori e spesso senza la presentazioni di alcuna prova da parte dell’accusa” ha addirittura dichiarato ad HRW il professor Wadir Safi, giurista e docente presso l’Università di Kabul. Le autorità afgane sostengono invece la regolarità dei processi e degli appelli. Frattanto si è appresa una buona notizia: dopo le forti pressioni internazionali, lo studente di giornalismo Sayed Parwez Kambakhsh, che fu condannato a morte per aver scaricato da Internet un testo femminista giudicato blasfemo (v. n. 156), è stato trasferito il 28 marzo da Balkh nel nord del paese alla capitale Kabul, gli è stata concessa una possibilità di appello e sembra abbia ottenuto dal presidente Hamid Karzai la promessa della liberazione.
Cuba. Raul Castro annuncia la commutazione di quasi tutte le condanne a morte. Il nuovo presidente di Cuba, Raul Castro, il 28 aprile ha annunciato che quasi tutte le sentenze di morte pendenti nel Paese (tra 40 e 50) saranno commutate in pene detentive che vanno da 30 anni di carcere all’ergastolo. Il presidente ha precisato che il provvedimento si basa su motivi umanitari e non è dovuto alle pressioni internazionali. Rimangono nel braccio della morte tre persone accusate di terrorismo, anche i loro casi saranno tuttavia rivisti. “Questo non significa che abbiamo eliminato la pena di morte dal codice penale,” ha avvertito Castro.
Florida. Bill Coday si suicida nel braccio della morte. Il 28 aprile è stato rinvenuto morto in una pozza di sangue nella sua cella del braccio della morte nel penitenziario di Raiford in Florida, William Coday, di 51 anni. Il detenuto non ha retto allo sconforto e si è tagliato le vene. Il nostro pensiero va affettuosamente a due amiche della Comunità di Sant’Egidio che erano divenute corrispondenti del condannato.
Giappone. Altre quattro impiccagioni. Il 10 aprile sono state eseguite contemporaneamente, due ad Osaka e due a Tokio, le sentenze capitali a carico di quatto persone. Ad essere impiccati senza preavviso sono stati Akinaga Kaoru, Nakamoto Masayoshi, Nakamura Masahuru, e Sakamoto Masahito. Dall’avvento del governo di Yasuo Fukuda in settembre, sono state eseguite in Giappone 10 condanne capitali, quasi a sfidare la risoluzione per la moratoria approvata alle Nazioni Unite. Dopo le esecuzioni sono rimasti 104 prigionieri nei bracci della morte nipponici. Le esecuzioni e le sentenze capitali sono in forte aumento in Giappone, così come il favore per la pena di morte, nonostante la diminuzione dei delitti. Secondo il governo e i sondaggi dei media, sarebbero a favore della pena di morte circa l’80% dei Giapponesi.
Iraq. Tarek Aziz sotto processo capitale. L’ex Vice Primo ministro e Ministro degli Esteri dell’Iraq, il cristiano caldeo Tarek Aziz, il 29 aprile è comparso davanti al Tribunale Speciale iracheno incriminato di reato capitale. Avrebbe una speciale responsabilità nella condanna a morte e nell’esecuzione, avvenute nel 1992, di 42 commercianti accusati di aver speculato approfittando delle sanzioni economiche imposte dalle Nazioni Unite all’Iraq. Con Aziz sono state incriminate altre otto persone tra cui Ali Hassan al-Majid, detto Ali il Chimico (già condannato a morte e recentemente colpito da infarto) e l’ex Ministro dell’Interno Watban al-Hassan. Aziz si consegnò spontaneamente agli Americani – forse sperando clemenza – un mese dopo la caduta di Saddam Hussein. Presiede il processo a Tarek Aziz il burbero e sbrigativo giudice curdo Rauf Rasheed Abdel Rahman che fu insediato nel Tribunale Speciale dal governo iracheno a gennaio del 2006 per accelerare la condanna di Saddam Hussein in un processo turbolento, pieno di irregolarità, che, a parere dei promotori americani e iracheni, era andato fin troppo per le lunghe.
Iraq. Per Saddam un falso amico negli ultimi mesi di vita. Da un articolo del 14 aprile dell’ultraconservatore American Daily apprendiamo che negli ultimi otto mesi di vita fu affiancato a Saddam Hussein un falso amico per carpire da lui la maggior quantità di informazioni possibile prima dell’esecuzione avvenuta il 30 dicembre 2006. George Piro era l’uomo ideale per svolgere il lavoro; nato a Beirut parlava l’Arabo, trasferitosi a 13 anni negli Usa, divenne militare e detective della polizia. Entrò infine nell’F. B. I. nel 1999. Perfezionando il suo ruolo nell’arco di otto mesi, diventò l’unico e il migliore amico di Saddam. Oggi Piro rivela che Saddam Hussein gli confidò di aver ordinato l’uso dei gas contro i Curdi e di aver commesso altre atrocità. Secondo Piro, Saddam dopo il 1991 non ha più avuto armi di distruzione di massa ma è stato tanto abile da far credere a tutti di averne. Lui dice che i generali di Saddam sapevano che tali armi c’erano ma non conoscevano in quale luogo si trovassero! E’ evidente che le stupefacenti dichiarazioni di Piro tendono a giustificare la politica e la guerra dell’Amministrazione Bush nei riguardi dell’Iraq e di Saddam. Ma tutto questo crea solo ulteriore confusione e non restituisce nulla del diritto negato all’umanità di conoscere - in un processo equo sotto garanzia internazionale - i fatti gravissimi di cui fu protagonista Saddam Hussein, prima alleato e poi nemico degli Occidentali.
Usa. Pena di morte in vista per un settimo detenuto di Guantanamo. Dopo l’apertura in febbraio di un procedimento per reati capitali nei riguardi di sei prigionieri di ‘alto valore’ detenuti a Guantanamo (v. n. 157), il 31 marzo il Pentagono ha incriminato un settimo detenuto di Guantanamo per crimini di guerra, omicidio e terrorismo, annunciando che chiederà per lui la pena di morte. Ahmed Khalfan Ghailani, catturato nel 2004 in Pakistan e detenuto in segreto per due anni, viene ora accusato davanti ad una Commissione Militare di avere avuto un ruolo nella preparazione dell’attentato del 1998 contro l’ambasciata americana in Tanzania. Un potente ordigno fu caricato su un furgone e fatto esplodere da un kamikaze vicino all’ambasciata il 7 agosto di quell’anno. Vi furono 11 morti e un centinaio di feriti. La mossa del Pentagono ha suscitato grande stupore perché i fatti di cui è accusato Ghailani precedono di molto sia gli attentati dell’11 settembre 2001 che la costituzione delle Commissioni Militari ed egli era stato già formalmente incriminato davanti ad una corte civile di New York dieci anni fa. Non si capisce perché il detenuto debba essere ora giudicato davanti ad una Commissione Militare.“La sola ragione per cui il governo sta militarizzando questi crimini è di tenere nascosto dietro il segreto [delle Commissioni Militari] quanto la CIA fa nei suoi programmi di interrogazione, le Commissioni Militari possono utilizzare prove segrete così come prove ottenute sotto tortura”, ha dichiarato Jen Nessel del Centro per i Diritti Costituzionali, un’organizzazione impegnata per la difesa legale dei detenuti di Guantanamo Bay. Gli osservatori mettono i relazione i sette procedimenti capitali avviati quest’anno con la tornata elettorale del prossimo novembre. Delle molte centinaia di prigionieri che sono passati nel centro di detenzione di Guantanamo e dei 300 circa che attualmente vi languiscono, solo 15 sono stati accusati o avviati a giudizio. L’unico processo conclusosi (con un patteggiamento) davanti alle Commissioni Militari è stato quello contro l’australiano David Hicks (v. n. 148).
Questo numero è aggiornato con le informazioni disponibili fino al 30 aprile 2008
To the President of the People’s Republic of China Hu Jintao
Your Excellency,
the Olympic Charter recalls that the spirit of the Games is based on “respect for universal fundamental ethical principles” and aims to place sport “at the service of the harmonious development of man, with a view to promoting a peaceful society concerned with the preservation of human dignity”.
Yet, 7,500 to 8,000 persons are estimated to have been executed in China in 2006, according to information gathered by the U.S.-based Dui Hua Foundation.
The death penalty in China means:
- nearly 80% of known executions across the world in 2006;
- an ongoing State Secret as regards data on sentences and executions;
- frequent use of torture to extract confessions;
- accumulation of miscarriages of justice following hasty and unfair trials.
We note however with interest that the Chinese Government recently introduced important reforms requiring the Supreme Court review of all death sentences, which could eventually significantly reduce the use of the death penalty.
As is the case in Hong Kong, which abolished the death penalty in 1993, and a majority of other countries across the world, China can and must end use of the death penalty.
We, citizens of the world, demand that the Chinese authorities lift the State Secret and ensure transparency in the practice of the death penalty in China.
In agreement with the resolution on a moratorium on the use of the death penalty adopted on 18 December 2007 by the General Assembly of the United Nations that calls upon all states that still maintain capital punishment to establish a moratorium on executions with a view to abolishing the death penalty, we invite the Chinese authorities to ensure that their country is part of the universal trend towards abolition of the death penalty by introducing an immediate moratorium on executions.
Respectfully
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