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FOGLIO  DI COLLEGAMENTO  INTERNO

 

DEL COMITATO PAUL ROUGEAU

 

Numero 328  -  Marzo Aprile 2025

Luigi Mangione

SOMMARIO :


1) “Lo stigma della colpa”di Federica Massoli
2) Il caso Luigi Mangione: quando la pena di morte diventa propaganda politica
3) Fallimento morale degli USA: fucilato Brad Sigmon in South Carolina 
4) IRAN: escalation di esecuzioni e terrore di Stato 
5) Il Parlamento Europeo condanna la spirale di esecuzioni in Iran
6) Sri Lanka, condannato a morte per possesso di 16 grammi di eroina

1) “LO STIGMA DELLA COLPA” di Federica Massoli

In questi ultimi giorni, dopo la morte di Papa Francesco, ho letto molti articoli sul suo impegno nei confronti dei carcerati.

Dall’apertura della Porta Santa a Rebibbia il 26 dicembre 2024, al suo donare, poco prima di morire, 200mila euro – tutto quello che aveva sul suo conto personale - al Pastificio del carcere minorile di Casal del Marmo a Roma, fino alla sua ultima visita nel carcere di Regina Coeli, nel giorno di Giovedì Santo, dopo essere stato dimesso da una lunga degenza in ospedale e ormai sfinito e malato. Eppure mai stanco, con questi suoi gesti, di urlare al mondo il suo amore e la sua devozione per i più deboli.

Mi risuona in testa la frase che ho letto ovunque e che il Papa ha detto riferendosi alle persone in prigione: “Ogni volta che io entro in questi posti mi domando: Perché loro e non io?” E’ vero: chiunque può attraversare nella vita eventi traumatici, esperienze drammatiche, trovarsi incastrato in un percorso di vita doloroso e pieno di cadute. La fragilità umana non è qualcosa che tutti sanno gestire; non tutti, di fronte ad un bivio, hanno la capacità, la volontà e la forza di scegliere la strada giusta. Perciò è vero: quell’uomo, quella donna in carcere, potremmo essere tutti noi.

Giovanni Bianconi sul “Corriere della Sera” ha definito le persone in carcere “i diseredati forse più diseredati di tutti, perché marchiati con lo stigma della colpa (vera o presunta poco importa), condannati (o in attesa di giudizio) per crimini forse commessi o forse no. Segregati e dimenticati.”

Lo stigma della colpa è tutto ciò che fa la differenza fra i carcerati e tutte le altre categorie dei più fragili: i poveri, i malati, gli anziani, i senzatetto. Tutte persone che si trovano in condizioni di fragilità “loro malgrado”, senza colpa, appunto.

Il carcerato si trova in quella condizione perché – fino a prova contraria – ha commesso un crimine. Lui, la colpa, ce l’ha eccome, quindi non merita la stessa compassione, nel senso etimologico della parola.

Men che meno il condannato nel braccio della morte, che – fino a prova contraria – si trova in quel luogo perché condannato per i crimini più efferati, più crudeli, più abietti.

Mi sento spesso, troppo spesso, chiedere da coloro con i quali mi trovo a parlare dei miei viaggi in America, per andare a trovare alcuni condannati nel braccio della morte, sempre le stesse domande: “Perché stanno là dentro?” come se il crimine per il quale sono stati condannati facesse una qualche differenza e per poi concludere “beh, dipende, ci sono alcuni reati che proprio non riesco ad accettare, perciò non sono sicuro/sicura che potrei avvicinarmi a queste persone emotivamente, come fai tu”.

In effetti, la mia esperienza con i condannati a morte, la mia profonda e sincera amicizia con alcuni di essi, i miei sentimenti di autentico amore per chi negli anni ho imparato a conoscere e di cui ho potuto toccare con mano il profondo cambiamento e rinascita, mi hanno insegnato a non vederli attraverso la lente della colpa.

Nessuno è soltanto il crimine che ha commesso, tutti siamo un groviglio di emozioni, paure, fragilità, sentimenti ed esperienze. Tutti siamo solo esseri umani. Questa dimensione – l’umanità! – viene dimenticata dai più non appena la persona che ha commesso un crimine varca la soglia della prigione. Perché il nostro essere istintivamente giudicanti prende il sopravvento e fa spazio al pregiudizio; e il condannato smette di essere una persona per diventare solo il crimine per il quale è stato incarcerato.

Il Papa ci ha insegnato, con il suo esempio, a non farlo. Una giustizia “giusta” non credo richieda di abdicare al rispetto della dignità umana e alla bellezza che può essere trovata in ognuno di noi. E nemmeno è tale se spegne la luce della speranza: “Mentre si rimedia agli sbagli del passato, non si può cancellare la speranza nel futuro” ha detto Papa Francesco. E se questo vale per l’ergastolo, a maggior ragione dovrebbe valere per la pena di morte.

Il mio rapporto con le persone in carcere mi ha reso fortunata destinataria di un dono molto prezioso, soprattutto di questi tempi, e non certo perché io sia un essere speciale, ma solo perché sono stata disposta ad aprire il mio cuore e riceverlo: il dono dell’accoglienza.

Papa Francesco, con tutte le sue opere in favore dei carcerati, credo mi abbia insegnato la strada, semplicemente camminando accanto alle persone in difficoltà, e davanti a tutti coloro che sono disposti a seguirne l’esempio. (Federica)

2) IL CASO LUIGI MANGIONE: QUANDO LA PENA DI MORTE DIVENTA PROPAGANDA POLITICA
 

Negli Stati Uniti, il processo a un giovane accusato di omicidio diventa un banco di prova per la giustizia federale e un simbolo delle derive autoritarie del sistema penale americano.
 

NEW YORK – Il caso Luigi Mangione ha assunto una dimensione che va ben oltre i confini di un normale processo penale. Accusato dell’omicidio del CEO di United Health care, Brian Thompson, il 26enne di origini italiane rischia ora la pena di morte in quello che è diventato uno dei casi giudiziari più discussi degli ultimi anni negli Stati Uniti. Ma ciò che rende questo processo ancora più controverso è il contesto politico in cui si inserisce: l’amministrazione Trump, tornata al potere nel 2025, ha deciso di usare il caso come simbolo della sua nuova crociata giustizialista.

Mangione è stato arrestato dopo un viaggio interstatale durante il quale, secondo l’accusa, avrebbe pianificato e messo in atto l’omicidio del dirigente sanitario, che aveva pubblicamente criticato in un post sui social media. Il delitto è stato definito dal procuratore generale Pam Bondi come “un assassinio politico freddo e calcolato”. L’accusa è guidata a livello federale proprio per l’elemento interstatale del crimine, e ciò ha consentito alla Casa Bianca di intervenire direttamente, invocando l’applicazione della pena capitale anche in uno Stato – New York – che non la prevede.

Un’esecuzione voluta dall’alto

Pochi giorni dopo l’arresto, l’amministrazione Trump ha firmato un ordine esecutivo che consente al governo federale di richiedere la pena di morte per determinati reati, anche in assenza del consenso dello Stato in cui il crimine è avvenuto. L’obiettivo dichiarato: “Punire con fermezza reati orrendi commessi da stranieri, terroristi e nemici dello Stato”. Sebbene Mangione sia un cittadino americano, la narrazione ufficiale ha insistito su una sua presunta “radicalizzazione ideologica” e sull’uso del suo caso per “mandare un messaggio forte”.

Secondo quanto riportato nel documento, l’attuale procuratrice generale Bondi ha ignorato le raccomandazioni dei pubblici ministeri locali – che avrebbero voluto optare per una condanna all’ergastolo – e ha deciso di chiedere la pena capitale. L’ex procuratrice Karen Friedman Agnifilo ha definito la scelta “barbarica e politica”, sottolineando che non ci sono le condizioni costituzionali minime per applicare una sentenza di morte in questo caso.

Una figura controversa, ma non un mostro

Luigi Mangione non è un serial killer né un criminale abituale. Cresciuto in una famiglia della middle class, laureato con lode in ingegneria biomedica, era conosciuto per le sue posizioni critiche nei confronti del sistema sanitario americano. Sul suo profilo social aveva condiviso articoli sul costo proibitivo delle cure, denunce di corruzione tra compagnie assicurative e politici, e riflessioni personali sul diritto alla salute.

Il movente del crimine resta oggetto di dibattito: vendetta personale o gesto politico? Molti analisti ritengono che Mangione abbia agito spinto da una sofferenza psichica, aggravata dal senso di impotenza verso il sistema. La difesa ha già annunciato che chiederà una perizia psichiatrica. “Luigi non è un mostro. È un ragazzo che ha perso fiducia in tutto, anche in se stesso”, ha dichiarato il suo avvocato.

Il caso diventa mediatico

A rendere il caso ancora più complesso è l’enorme copertura mediatica. I principali network televisivi hanno trasformato Mangione in una figura ambigua: per alcuni un terrorista, per altri un simbolo della lotta contro un sistema disumano. La sua pagina di crowdfunding per sostenere le spese legali ha raccolto oltre 700.000 dollari in poche settimane, con messaggi di sostegno da parte di cittadini comuni e attivisti per i diritti civili.

“Non giustifico il suo gesto, ma capisco la rabbia. In questo Paese puoi morire per non poterti permettere un’ambulanza”, scrive una donatrice. La figura di Mangione ha suscitato paragoni – per molti impropri – con Robin Hood o con personaggi come Julian Assange e Edward Snowden, anch’essi perseguitati per aver sfidato il potere costituito.

La religione come giustificazione della pena capitale

Il clima politico e culturale attorno al caso Mangione è segnato anche da un ritorno aggressivo della retorica religiosa. Il pastore evangelico Robert Jeffress, vicino all’amministrazione Trump, ha dichiarato che la pena di morte è “un atto di giustizia divina”. Citando versetti dell’Antico Testamento, ha sostenuto che “chi versa il sangue dell’uomo, per mano dell’uomo dovrà essere punito”.

Una visione che ha trovato ampio consenso tra l’elettorato più conservatore. La Casa Bianca, attraverso i suoi portavoce, ha rilanciato l’idea che la pena di morte serva a “difendere il valore della vita”, rovesciando completamente l’approccio abolizionista promosso da Papa Francesco e da molte comunità religiose internazionali.

Processo e pena di morte: un pericolo per i diritti costituzionali

Secondo il professor Austin Sarat, esperto di diritto e autore di numerosi studi sulla pena capitale, il caso Mangione rappresenta una pericolosa forzatura costituzionale. “La Corte Suprema ha stabilito criteri molto rigidi per l’applicazione della pena di morte: serve proporzionalità, un giusto processo, la possibilità di difesa effettiva e assenza di pregiudizio. Qui abbiamo l’esatto contrario: un processo mediatico, una pressione politica dall’alto e un imputato fragile.”

Mangione è attualmente sotto processo anche a livello statale per accuse di terrorismo, possesso illegale di armi e attentato aggravato. Il processo federale per l’omicidio sarà avviato solo dopo la conclusione di quello statale. In caso di condanna doppia, i due procedimenti potrebbero confliggere: se lo Stato lo condannasse all’ergastolo, il governo federale potrebbe comunque intervenire per ottenere l’esecuzione.

Un test per la democrazia americana

Il caso Mangione è diventato un banco di prova per la giustizia americana. Mette in discussione il delicato equilibrio tra poteri federali e statali, il rispetto dei diritti costituzionali, il ruolo della pena di morte come strumento politico. È anche un termometro del clima culturale in cui vive l’America di oggi: polarizzata, esasperata, alla ricerca di risposte semplici a problemi complessi.

“Il vero pericolo non è Luigi Mangione,” ha dichiarato un editoriale del New York Times, “ma l’uso che il potere sta facendo della sua vicenda.”

La sentenza non è ancora stata emessa. Ma qualunque sarà l’esito del processo, il destino di Luigi Mangione resterà inciso nella storia recente degli Stati Uniti come una pagina drammatica di diritto, politica e coscienza collettiva.

3) FALLIMENTO MORALE DEGLI USA: FUCILATO BRAD SIGMON IN SOUTH CAROLINA

Il caso Brad Sigmon riapre il dibattito sull’umanità delle esecuzioni: tra squadre per la fucilazione, trauma e politiche penali sempre più spietate.

 

L’esecuzione che scuote l’America

Il 7 marzo 2025, in South Carolina, Brad Sigmon, 67 anni, è stato giustiziato mediante fucilazione. Si tratta di un evento che ha provocato un'ondata di indignazione tra difensori della democrazia, attivisti per i diritti umani e giuristi, per il suo carattere cruento ma anche simbolico. Sigmon, condannato nel 2002 per l’omicidio con una mazza da baseball dei genitori della sua ex fidanzata e per la successiva minaccia alla giovane con una pistola, rimane un caso emblematico della pena capitale nel 21° secolo.

Reati, condanna e scelta del metodo

Nel 2002 ha avuto inizio il lungo iter giudiziario che ha portato alla condanna di Sigmon, ritenuto colpevole dell’efferato omicidio di David e Gladys Larke, genitori della sua ex fidanzata, e del tentato omicidio della stessa ragazza. La donna era stata rapita e poi era riuscita a fuggire dall’auto in cui si trovava, prima che Sigmon tentasse di ucciderla con un colpo di pistola che fortunatamente non andò a segno.

Nel 2021, a seguito di una lunga sospensione delle esecuzioni per mancanza di farmaci per l'iniezione letale, i legislatori repubblicani della South Carolina hanno approvato una legge che impone al condannato di scegliere tra iniezione letale, sedia elettrica o fucilazione. Sigmon ha scelto quest’ultima, considerandola il metodo meno crudele tra quelli disponibili.

Le obiezioni legali: farmaci, salute mentale e trasparenza

L’avvocato di Sigmon, Bo King, ha espresso gravi preoccupazioni riguardo all’iniezione letale, sostenendo che i farmaci utilizzati non erano stati dichiarati in modo trasparente e che c’erano alti rischi di sofferenza. Secondo King, se si somministra una dose singola di pentobarbital, l’esecuzione è considerata costituzionale, ma ciò non accadeva in questo caso. Ha inoltre lamentato di non aver ricevuto informazioni complete sui farmaci utilizzati nello stato.

I difensori di Sigmon hanno anche sottolineato che il loro cliente soffriva di danni cerebrali e di malattie mentali, condizioni che avrebbero dovuto impedire l’esecuzione. Nonostante queste argomentazioni e i dubbi sollevati da recenti esecuzioni per iniezione letale, la Corte Suprema della South Carolina ha respinto la richiesta di sospensione, confermando la data del 7 marzo.

Il protocollo della fucilazione

Il protocollo previsto dal South Carolina Department of Corrections prevede che il condannato venga legato a una sedia con cinghie, incappucciato e con un bersaglio cucito all’altezza del cuore. Tre tiratori scelti, volontari e addestrati, si posizionano a circa quattro metri di distanza e sparano simultaneamente.

Nel caso in cui il condannato sia ancora vivo dopo dieci minuti, si procede con una seconda raffica. La stanza è dotata di un vetro antiproiettile per proteggere i testimoni, ma alcuni esperti hanno sollevato dubbi sull’effettiva sicurezza della struttura. I tiratori erano stati selezionati già da alcuni anni, e la camera della morte era stata preparata con largo anticipo.

Un evento unico: la prima fucilazione dopo decenni

L’esecuzione di Brad Sigmon è la prima con questo metodo a essere effettuata in South Carolina e la prima negli Stati Uniti dal 2010. Fino a oggi, la South Carolina aveva eseguito circa 46 esecuzioni, tutte per iniezione letale o sedia elettrica. Dal 1976, solo tre detenuti nello Utah erano stati giustiziati tramite fucilazione, rendendo questa esecuzione un evento eccezionale e altamente simbolico.

Testimonianza del reporter: un’esperienza traumatica

Il giornalista Jeffrey Collins, dell’Associated Press, è stato tra i testimoni dell’esecuzione. Con decenni di esperienza alle spalle, ha assistito a esecuzioni per iniezione letale e sedia elettrica, ma ha definito questa “la più angosciante”. Ha raccontato che, dopo l’apertura della tenda nera, i colpi sono partiti all’improvviso. Il corpo di Sigmon ha avuto un sussulto, e una chiazza di sangue è comparsa sul petto, rivelando l’impatto devastante dei proiettili.

Il medico ha constatato la morte circa un minuto dopo gli spari. Il contrasto tra il tramonto sereno visibile dalla stanza e la brutalità della scena ha reso l’esperienza ancora più sconvolgente. Collins ha confessato che, nonostante l’esperienza accumulata, nessuna delle precedenti esecuzioni lo aveva preparato a quel momento.

Voci di solidarietà e critica morale

Il reverendo Hillary Taylor, consigliere spirituale di Sigmon, ha affermato che l’uomo era profondamente cambiato rispetto a quello che aveva commesso il crimine più di vent’anni prima. Ha sottolineato che la questione non era se Sigmon meritasse di morire, ma se la società fosse degna di uccidere. Ha ricordato le parole del Vangelo: “Chi è senza peccato, scagli la prima pietra.”

Anche il National Catholic Reporter ha espresso una dura critica. In un editoriale, ha descritto la scena dell’esecuzione come una manifestazione crudele e priva di pietà. L’articolo ha condannato il sistema che permette e organizza con meticolosità una morte così violenta, trasformando la giustizia in spettacolo.

Contesto politico e contraddizioni

Nonostante una crescente opposizione alla pena di morte nell’opinione pubblica, alcuni stati stanno reintroducendo metodi considerati arcaici. La South Carolina, insieme a Idaho, Mississippi, Oklahoma e Utah, ha legalizzato nuovamente la fucilazione. L’Arizona sta valutando proposte simili.

Durante l’amministrazione Trump, le esecuzioni federali sono riprese dopo un lungo periodo di sospensione, con l’argomentazione che rappresentassero una necessità per far rispettare le leggi. Tuttavia, l’esecuzione di Sigmon riapre il dibattito su quanto la pena di morte serva davvero alla giustizia o piuttosto risponda a logiche punitive, vendicative e spettacolari.

Le parole finali di Sigmon: un appello alla misericordia

Prima di morire, Brad Sigmon ha lanciato un messaggio che ha lasciato il segno. Ha chiesto ai cristiani di unire le forze per porre fine alla pena capitale. Ha invocato la misericordia e la grazia di Dio, sostenendo che anche il peggiore dei peccatori può cambiare e trovare la redenzione.

Le sue parole hanno risuonato in maniera potente tra coloro che assistono alla giustizia con occhio critico, offrendo un momento di riflessione profonda sul significato della vita, del perdono e della giustizia. (Grazia)

4) IRAN: ESCALATION DI ESECUZIONI E TERRORE DI STATO

Nel 2025 l’Iran ha già messo a morte oltre 230 persone. Tra torture, processi farsa e giustizia politica, la forca resta l’arma principale del regime. Famiglie in piazza, ma il mondo tace.

Nel primo trimestre del 2025 l’Iran ha giustiziato almeno 230 persone. Secondo l’ONG Iran Human Rights, si tratta di un dato allarmante, quasi il doppio rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. La media attuale è di quasi tre esecuzioni al giorno. Di queste, solo una è stata annunciata dai canali ufficiali: le altre sono avvenute in silenzio, negli angoli bui delle carceri, senza testimoni e senza prove di giustizia.

A marzo 2025, almeno 59 prigionieri sono stati impiccati. Tra loro: cinque donne, sette appartenenti alla minoranza baluci e tre cittadini afghani. Le esecuzioni riguardano reati comuni – come traffico di droga o omicidio – ma crescono anche i casi di prigionieri politici e dissidenti. L’impiccagione è ormai una macchina quotidiana di repressione, che il regime usa come deterrente sociale e strumento politico.

Le autorità iraniane non solo negano la trasparenza dei processi, ma agiscono in palese violazione dei diritti umani: confessioni estorte con la tortura, giudici nominati dal Ministero dell’Intelligence, processi sommari di pochi minuti. A pagare il prezzo più alto sono attivisti, studenti, membri di minoranze etniche e religiose. E spesso le loro famiglie.

Vahid Bani-Amerian: uno studente condannato alla forca

Tra i casi più emblematici della nuova ondata di condanne a morte c’è quello di Vahid Bani-Amerian, 32 anni, ex studente di ingegneria meccanica e attivista per i diritti civili. Vahid era noto negli ambienti universitari per la sua partecipazione a proteste pacifiche, le sue opinioni indipendenti e la difesa dei diritti delle minoranze.

Il 1° dicembre 2024 è stato condannato a morte dal Tribunale rivoluzionario di Teheran con l’accusa di “baghi”, ovvero “ribellione contro Dio”, per presunta appartenenza all’Organizzazione dei Mojahedin del Popolo Iraniano (PMOI/MEK), considerata fuorilegge dal regime.

La realtà, secondo le organizzazioni per i diritti umani, è un’altra: Vahid è stato arrestato nel 2021 durante una manifestazione e da allora ha subito anni di torture e isolamento nella famigerata sezione 209 del carcere di Evin. Le sue condizioni di salute sono drammatiche: problemi alla vista causati da pestaggi, infezioni respiratorie non curate, sintomi di disturbo post-traumatico.

Non ha avuto accesso a un avvocato di fiducia. Non ha potuto difendersi. Non ha nemmeno potuto comunicare liberamente con la famiglia. Amnesty International ha chiesto l’annullamento immediato della condanna, definendo il processo una “violazione flagrante delle norme minime di equità”.

Un sistema costruito per uccidere: la morte del giudice Nayyeri

Il meccanismo delle esecuzioni in Iran non è improvvisato. Ha una storia e dei responsabili. Uno di questi è stato il giudice Hossein Ali Nayyeri, morto all’inizio del 2025 per cause naturali. Il suo nome è indissolubilmente legato agli eccidi carcerari del 1988, quando almeno 5.000 prigionieri politici furono impiccati in pochi mesi su ordine diretto dell’Ayatollah Khomeini.

Nayyeri era a capo della cosiddetta “Commissione della morte” che, senza processo, senza difesa e senza appello, decideva in pochi minuti la sorte dei prigionieri. Chi rifiutava di pentirsi, chi era legato a partiti di opposizione o gruppi religiosi considerati devianti, veniva condotto direttamente al patibolo.

La sua morte ha riacceso la rabbia e la frustrazione di migliaia di familiari delle vittime, che non hanno mai ottenuto giustizia. “È morto da uomo libero, mentre mio fratello fu ucciso in silenzio, sepolto in una fossa comune,” ha detto una donna presente alle commemorazioni organizzate in segreto.

Le organizzazioni internazionali, tra cui le Nazioni Unite, hanno più volte chiesto che figure come Nayyeri venissero indagate per crimini contro l’umanità, ma nessuna corte internazionale ha mai aperto un procedimento formale.

Ali-Akbar Daneshvarkar: un altro nome nella lista

Il 1° dicembre 2024, lo stesso giorno della condanna di Bani-Amerian, anche Ali-Akbar (Shahrokh) Daneshvarkar, 58 anni, ingegnere civile, è stato condannato a morte. Il suo “crimine”? Aver partecipato alla commemorazione pubblica per Mohsen Shekari, il primo manifestante giustiziato dopo le proteste del 2022.

Daneshvarkar era un attivista sociale, con una carriera professionale riconosciuta e una rete di relazioni costruita nel mondo accademico. La sua condanna si basa su confessioni estorte, su presunti legami con il PMOI e su prove mai rese pubbliche. In una lettera scritta dal carcere, racconta: “Il mio processo è durato dieci minuti. Non ho visto prove, non ho avuto avvocati, non ho potuto parlare.”

Il suo caso è stato incluso in una campagna internazionale di mobilitazione per salvare sei attivisti condannati a morte. Amnesty ha lanciato l’hashtag #Save6Lives e ha chiesto l’intervento urgente degli Stati europei e del Consiglio ONU per i diritti umani.

Le famiglie non tacciono: il coraggio della disobbedienza civile

Mentre il governo intensifica le esecuzioni e il clima di paura, le famiglie dei condannati continuano a protestare. Lo fanno con coraggio, sapendo che anche un semplice striscione o una preghiera può portare all’arresto.

Il 2 aprile 2025, durante la festa del Sizdah Bedar, i genitori di Vahid Bani-Amerian hanno esposto cartelli contro la pena di morte nella città di Sonqor, nel Kurdistan iraniano. In un video amatoriale diffuso su social clandestini, si vedono leggere ad alta voce: “Ovunque siamo, ci sentiamo vicini ai nostri figli. Che quest’anno sia l’anno della fine delle esecuzioni.”

In altri casi, famiglie si sono riunite davanti al carcere di Evin, luogo simbolo della repressione, mostrando foto dei figli e leggendo i loro scritti. Alcuni hanno ricevuto minacce, altri sono stati arrestati. Ma il gesto ha avuto eco internazionale e ha spinto alcuni europarlamentari a chiedere una presa di posizione più dura contro Teheran.

La morte come strumento politico

Il ritorno massiccio alla pena di morte non è solo una misura repressiva: è parte di una strategia politica di sopravvivenza del regime. L’impiccagione serve a reprimere il dissenso, certo, ma anche a distrarre l’opinione pubblica da una crisi economica disastrosa, da un isolamento internazionale crescente e da una gioventù sempre più ribelle.

Secondo Iran Human Rights, il 95% delle esecuzioni non viene annunciato ufficialmente. Spesso i corpi non vengono restituiti, le famiglie non possono partecipare al funerale, i nomi delle vittime spariscono. È una morte burocratica, nascosta, impersonale. È la firma invisibile di uno Stato che vuole essere onnipotente.

Conclusione: un silenzio che uccide

Il 2025 rischia di diventare l’anno con il più alto numero di esecuzioni in Iran degli ultimi trent’anni. Ma la risposta internazionale resta tiepida, frammentata, debole. Mentre le famiglie urlano nel silenzio e i prigionieri attendono la forca, l’Europa discute sanzioni economiche, l’ONU approva mozioni non vincolanti e il mondo continua a guardare altrove.

Vahid, Ali-Akbar, e migliaia di altri non sono solo nomi: sono vite sospese, vite che chiedono giustizia, non vendetta. E se il mondo libero crede davvero nella dignità umana, non può più permettersi di restare in silenzio.

5) IL PARLAMENTO EUROPEO CONDANNA LA SPIRALE DI ESECUZIONI IN IRAN

Approvata una mozione contro le condanne a morte di dissidenti e minoranze: "Crimini contro l’umanità"

STRASBURGO – Il 3 aprile 2025 il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione che condanna duramente l’escalation di esecuzioni in Iran, con particolare riferimento alla conferma della condanna a morte degli attivisti Behrouz Ehsani e Mehdi Hassani. La mozione, presentata con procedura d’urgenza, denuncia il peggioramento della situazione dei diritti umani nella Repubblica Islamica, definendo il tasso di esecuzioni “il più alto al mondo in rapporto alla popolazione”.

Secondo il testo approvato, l’Iran ha intensificato l’uso della pena di morte a partire dalle proteste del movimento “Donna, Vita, Libertà” del 2022. Solo nel 2024, almeno 975 persone sono state giustiziate, tra cui minorenni e cittadini europei, in un contesto di persecuzione sistemica contro dissidenti, donne, giornalisti e minoranze religiose ed etniche, come curdi, baha’i, baluchi e cristiani.

I casi di Ehsani e Hassani sono emblematici. Arrestati nel 2022, sono stati torturati e tenuti in isolamento, privati dei diritti minimi di difesa, e condannati per presunti reati come “inimicizia contro Dio” e “corruzione sulla Terra”. Altri attivisti, come Pakhshan Azizi, Mahvash Sabet e Sharifeh Mohammadi, sono nella stessa condizione.

Il Parlamento chiede il rilascio immediato di tutti i prigionieri politici, l’abolizione della pena di morte e l’accesso incondizionato al Paese per il relatore speciale ONU. Inoltre, invita il Consiglio dell’Unione Europea a subordinare ogni miglioramento dei rapporti diplomatici con Teheran al rispetto dei diritti umani fondamentali.

“L’impennata di esecuzioni è inaccettabile,” si legge nel testo. “L’Unione Europea deve agire con fermezza contro una macchina repressiva che usa la pena di morte come strumento politico.”

6) SRI LANKA, CONDANNATO A MORTE PER POSSESSO DI 16 GRAMMI DI EROINA

Il tribunale di Colombo emette una nuova sentenza capitale in un Paese dove la pena di morte resta formalmente in vigore, ma sospesa da decenni.

COLOMBO – Un uomo di 47 anni è stato condannato a morte dalla Colombo High Court per possesso e traffico di 16,88 grammi di eroina. La sentenza è stata emessa il 3 aprile 2025 dal giudice R.S.S. Sapuwida, al termine di un processo durato diversi anni e avviato in seguito a un arresto avvenuto il 17 febbraio 2019 durante un’operazione di polizia nel quartiere di Grandpass.

Secondo l’accusa, l’imputato era in possesso di una quantità di droga superiore alla soglia minima prevista dalla legislazione locale per essere perseguito penalmente per traffico, reato che prevede la pena capitale. Il giudice ha affermato che le prove raccolte durante il processo dimostrano “oltre ogni ragionevole dubbio” la colpevolezza dell’uomo.

La decisione ha riacceso il dibattito interno e internazionale sul sistema giudiziario e sull’uso della pena di morte in Sri Lanka. Sebbene il Paese non effettui esecuzioni dal 1976, le sentenze capitali continuano a essere pronunciate, soprattutto nei casi di droga e omicidio, lasciando centinaia di condannati nel braccio della morte in un limbo giuridico e umano.

Le organizzazioni per i diritti umani hanno più volte sollecitato il governo a commutare le pene capitali e a riformare le leggi sulle droghe, considerate troppo severe e poco efficaci nella lotta al narcotraffico.

Non è chiaro se la condanna sarà eseguita o commutata in ergastolo, come avviene di norma. Ma il caso evidenzia ancora una volta la fragilità dello stato di diritto e la necessità di un sistema penale più giusto, proporzionato e rispettoso dei diritti fondamentali.

 

Questo numero è aggiornato con le informazioni disponibili fino al 30 aprile 2025

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